La gioia nella morte
Infine
questa gioia cristiana, il cui ingresso nella vita monastica – la “conversione”
– ha segnato l’inizio [31], trova la sua fioritura in occasione dell’uscita da
questa vita, che si apre sul cielo. Dopo avere descritto le angosce di coloro i
quali l’esistenza non avrebbe giustificato affatto questa speranza e questa
sicurezza, Rancé parla dello stato d’animo dei monaci come lui li concepisce:
“Per
i veri solitari che sono a riguardo del mondo come se non fosse più, che non
hanno alcun ruolo nelle cose passeggere, e che vivono unicamente nella fede e
nell’attesa dei beni a venire, non soltanto non vedono nella fine della loro
vita qualcosa che faccia loro la minima pena, ma trovano gioia e consolazione
nella meditazione della morte… Ciò che affligge gli altri li consola, e questi
uomini divini, sapendo che il battesimo li ha già separati dal secolo, sono felici
che la morte porti a compimento di separarli per sempre” [32].
Come
san Gregorio, e dopo uno sviluppo che ricorda da vicino alcune sue pagine [33],
Rancé ama insistere sul contrasto fra l’attaccamento a ciò che passa e l’aspirazione
verso il regno eterno, e conseguentemente fra il timore della morte, che causa
angoscia, e il desiderio della morte, che dona la gioia. Il desiderio di
morire, non ispirato da una morbida tristezza, ma dall’amore, impaziente “di
essere con Cristo”, come diceva san Paolo, era stato spesso espresso dai
rappresentanti della tradizione monastica [34]. Quando sviluppa questo medesimo
tema, Rancé non è inferiore ai suoi maestri. Vedremo come anche su questo
punto, l’ultima parola è data alla consolazione:
“Il
pensiero della morte, fratelli, distrugge tutte queste distanze; l’autentico
solitario, che lo porta vivamente nel suo spirito, ha davanti agli occhi senza
fine l’Eternità di Dio. Poiché non se ne vede separato che per un istante, egli
è in una continua attesa che Gesù Cristo lo chiami a sé e che gli piaccia
associarlo alla compagnia dei suoi santi. Il suo Salvatore è l’oggetto unico di
tutte le sue vedute e di tutti i suoi desideri: egli lo considera come la causa
della felicità che è sul punto di gioire, pensa alla riconoscenza che gli deve
per tutte le grazie che gli ha già fatto, e che è ancora pronto a fargli… Pensa
agli angeli, a questi santi spiriti che circondano il suo trono. Aggiungiamo,
fratelli miei, che egli pensa alla sua uscita da questo mondo, che secondo la
speranza che Dio gli ha donato, dev’essere il momento della sua esaltazione e
del suo trionfo…
“Lungi
dal gettarlo nello sconforto né dal fare desistere la sua fiducia, tutti i
segni che ha ricevuto della bontà di Gesù Cristo gli vengono in soccorso, lo
sostengono e fortificano la sua speranza e la sua fede… E se i suoi pianti gli
servono quale nutrimento i giorni e le notti, può così dire che il Signore fa –
per sua misericordia – che il suo dolore e la sua amarezza divengano la sua
consolazione e la sua gioia, Convertisti
planctum meum in gaudium mihi [35]. Perché la sua anima, rinfrescata e
purificata dall’abbondanza dei suoi pianti, non ha più che sentimenti e
pensieri di pace, di riconoscenza e benedizione; piange in continuazione con
trasporti violenti: Siete voi, Signore, che mi liberate dal furore e dalla rabbia
dei miei nemici…
“Infine,
una quinta utilità della meditazione della morte è che essa consola il religioso
della lunghezza del suo esilio e dell’afflizione che provano tutti quelli che vivono
con pietà in questa valle di lacrime” [36].
Conclusione. Il pericolo
dei florilegi
Abbiamo
letto solo degli estratti. Non bisogna affatto dissimulare che si potrebbero estrarre
dal trattato De la sainteté et des devoirs de la
vie monastique o da altri
scritti di Rancé delle pagine che renderebbero un senso alquanto diverso. Vi è
contraddizione fra tutti questi brani? Per nulla: si devono completare. Sarebbe
caricare un solo lato della bilancia e fare una “caricatura”, il trattenere
solo le frasi che spingono al timore di Dio e all’austerità. Sarebbe deformare
una dottrina, semplificandola. Perché queste frasi non si possono comprendere
che nel loro contesto, e di questo fanno parte i testi che abbiamo riprodotto.
Non abbiamo il diritto di cedere all’ammirazione, davanti a queste
testimonianze piene di linfa tradizionale [37]? Il proposito del presente
saggio non era che di contribuire a ristabilire l’equilibrio e a preparare un
giusto apprezzamento.
Sapere
leggere consiste nel leggere tutto, a non essere affatto soddisfatti di “brani
scelti” – scelti in vista di dimostrare una tesi, quale che sia. Sapere leggere
consiste ugualmente a non perdere di vista i procedimenti propri dell’espressione
di ogni tempo: un san Girolamo non può essere compreso, le sue violenze non
possono essere esattamente giudicate, che alla luce della retorica del secolo
V, come pure un san Bernardo in rapporto a quella del secolo XII. Rancé, senza
dubbio, si sentiva segretamente affine al pensiero dell’abate di Clairvaux, di
cui diceva ai suoi religiosi: “San Bernardo, che da solo deve avere presso di voi
più autorità di chiunque altro…” [38]; e del quale scriveva ancora: “Quest’uomo
così moderato e così giusto nei suoi sentimenti…” [39]. Se si vuole rimanere
equi, non ci si può avvicinare a Rancé senza avere letto diversi suoi contemporanei,
senza conoscere la tradizione, e se queste condizioni non sono realizzate,
meglio sarebbe tacere che parlare.
[31] Cfr. cap. XIV, q. 2, t. I, p. 569:
“Ecco cosa deve un peccatore al timore di Dio, e come le sue prime consolazioni
gli provengano e siano degli effetti della vista dei suoi giudizi”.
[32]
Cap. XIII, q. 1, t. I, pp. 532-533.
[33] Ibid., q. 2, p. 548.
[34]
Cfr., per esempio, il testo che ho citato in L’amour des lettre set le désir de Dieu, cit., p. 65, e gli Ecrits spirituels d’Elmer de Cantorbéry
che ho commentato in Analecta monastica,
II, Roma (Studia Anselmiana) 1953,
pp. 56-57.
[35]
Sal 29, 12.
[36]
Cap. XIII, q. 2, t. I, pp. 549-553.
[37]
I testi sul timore e il senso di peccato appartengono alla tradizione. Si
troverà in Rancé una formula così forte come quella che si legge nella Regola di san Benedetto (7, 64): “reum
se omni hora de peccatis suis æstimans, iam se tremendo iudicio repræsentari
æstimet”?
[38]
Cap. XXIII, q. 7, t. II, p. 685.
[39]
Ibid., p. 686.
[Dom Jean Leclercq O.S.B., “La
joie dans Rancé”, Collectanea Ordinis
Cisterciensium Reformatorum, 25 (1963), pp. 206-215 (qui pp. 213-215),
trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B. / 5 - fine]