La gioia nei fratelli
I
“solitari” di cui parla Rancé sono dei cenobiti, e ciascuno di essi è
responsabile della gioia di tutti. Questo è vero anzitutto del superiore: “Che
consoli gli afflitti…!”. Perché vi sono “ragioni pressanti per ricorrere a Dio
per il riposo, la consolazione e la perfezione dei suoi fratelli” [24]. Il
medesimo principio è però valido anche per tutti i membri della comunità.
Occorre, dice a loro Rancé, “che vi rendiate gli uni gli altri i contrassegni
della dolcezza, dell’affetto e della deferenza che la regolarità del monastero
vi può consentire” [25]. Inoltre, la ragione per la quale costoro si devono il
buon esempio, è che essi sono “impegnati negli stessi lavori, in una medesima
guerra”:
“Come
la timidezza e la debolezza di uno solo può causare un indebolimento e una
perdita generale, e al contrario molti possono trovare la loro forza e la loro
felicità nella costanza e nella fedeltà di uno solo, occorre che la loro difesa
sia unica e costante. Che si aiutino gli uni gli altri; che i forti sostengano
i deboli; che i più fermi sostengano quanti vacillano, affinché tutti siano
uniti in un medesimo sforzo e in un eguale fervore, guadagnino un’identica
vittoria, conseguano la stessa corona, e portino a termine le loro battaglie
con un simile successo. Siate dunque persuasi che chi manca d’incoraggiare mediante
il proprio esempio, tradisce la causa del suo Maestro, si separa dai suoi
fratelli e abbandona la loro salvezza” [26].
Al
dovere dell’esempio si aggiunge quello della “consolazione” reciproca.
Ascoltiamo Rancé parlare di quella che si scambiano i malati con coloro che si
prendono cura di loro:
“I
fratelli s’illuminano e si edificano gli uni gli altri mediante l’esempio, si
fortificano e si sostengono con la preghiera, e quale segno esteriore della
loro carità, si legano e si rafforzano nell’unità di un medesimo corpo; senza
di che una congregazione monastica non è altro che un assembramento di membri e
di parti diverse, che non hanno fra loro né rapporto, né legame, né autentica
intelligenza.
“Dovete
quindi dare ai vostri fratelli tutte le testimonianze possibili di un affetto
purissimo e cordialissimo, e non perdere una sola occasione di fare loro
conoscere che li amate: Caritatem
fraternitatis casto impendant amore [27]. Quanti sono applicati al servizio
della comunità devono adempiere il loro ministero con tanta cura, puntualità e
diligenza, che si possa considerare la bontà del loro cuore nelle loro azioni.
Se sono incaricati di sollecitare gli ammalati, occorre che riconoscano Gesù
Cristo nelle loro persone, che vuole sopportare ciò che non ha voluto soffrire
nella propria, e che compie mediante tutti i languori, dolori e altri accidenti
delle malattie con cui li visita, ciò che ancora manca alla perfezione delle
proprie sofferenze…
“Ma
se Gesù Cristo s’incontra nei fratelli infermi e che languono, non è meno in
coloro che li consolano e che si applicano a soccorrerli” [28].
Così,
nel suo insieme l’istituzione monastica è fonte di felicità: gioia favorita
dall’esempio, dall’affetto, dalla preghiera dei fratelli: gioia assicurata
dalle cure di cui i religiosi sono oggetto da parte della Chiesa, di cui Rancé
dice, a proposito delle “mitigazioni”: “La Chiesa, come una madre caritatevole,
toccata dalla sfortuna dei suoi figli e afflitta dalla loro caduta, si è
abbassata per rialzarli” [29]. Gioia, infine, assicurata da Dio alla “religione”,
cioè alla vita religiosa: “Essa s’impegna di servirlo secondo tutti i precetti,
gli strumenti e le pratiche contenuti nella Regola di cui fa professione, e Dio
promette in cambio di ricevere i suoi servizi, di renderla felice, e di essere
lui stesso la sua felicità, la sua gloria e la sua ricompensa. Quest’obbligo è
reciproco” [30].
[24] Cap. IX,
q. 9, t. I, p. 284.
[25] Cap. X, q. 1, t. I,
p. 315.
[26] Ibid., p. 318.
[27]
Regula S. Benedicti, 72, 8-9. Rancé
riunisce qui dei termini che la recente edizione critica della Regola ha dissociato come facenti parte
di due diverse frasi: “caritatem fraternitatis caste impendant; amore Deum
timeant”. Cfr. R. Hanslik, Benedicti Regula,
CSEL 75, Vienna 1960, p. 163. Non si può tuttavia esigere da nessun autore del
secolo XVII che egli anticipasse i risultati della filologia moderna, né quanto
al testo della Regola che utilizza,
né quanto all’interpretazione che ne dà.
[28] Cap. X, q. 4, t. I,
pp. 328-329.
[29] Cap. XXIII, q. 6, t.
II, pp. 659-660.
[30]
Ibid., q. 2, p. 637. Alla fine dello
stesso capitolo si parla ancora di “consolazione” (q. 7, p. 692) e della “gioia
degli angeli” (q. 7, p. 693).
[Dom Jean Leclercq O.S.B., “La joie dans Rancé”, Collectanea
Ordinis Cisterciensium Reformatorum, 25 (1963), pp. 206-215 (qui pp. 211-213),
trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B. / 4 -
segue]