Detto
questo, occorre dedurre che la preghiera contemplativa non è – strettamente
parlando – l’intenzione principale
del monaco. In effetti, la contemplazione si colloca un po’ al di qua, poiché
appartiene all’ordine dei mezzi. Nondimeno la contemplazione è ben vicina alla
nostra intenzione principale,
perché – in quanto mezzo – essa facilita grandemente la concentrazione del
cuore umano sull’intenzione principale
poc’anzi descritta. Mediante la contemplazione – che realizza presenza e
intimità – Dio, sovrano Maestro, aiuta egli stesso il suo servo a compiere
verso di lui i suoi doveri di attenzione, di amore e di religione. A causa di
questo aiuto divino, sono molte le condizioni della vita spirituale che
cambiano di livello. Dio non chiede che una cosa sola: essere amato. Se egli
può aiutare una creatura ad amarlo, per lei questo aiuto è evidentemente il
mezzo migliore per giungere là dove l’intenzione
principale la spinge. Ma, come in altri casi, il mezzo rimane distinto dal
fine.
In un certo
senso, si può dire che san Benedetto spinge tutti i suoi figli verso la grazia
della contemplazione, sperata, possibile, augurabile, a titolo di mezzo molto
utile ed eccellente. Ma non può fare niente di più in favore del suo discepolo.
Così come il patriarca Giuseppe spingeva i suoi due figli sotto le mani
benedicenti del vecchio Giacobbe, senza tuttavia potergli imporre le proprie
preferenze, né l’ampiezza della benedizione concessa.
La preghiera
contemplativa realizza, fin da quaggiù, l’intimità con Dio. Se leggiamo
attentamente la santa Regola,
non si deve forse concludere che questa intimità con Dio fa parte del
contratto? Certamente. Per cui il monaco non deve mai disperare di ottenerla. È
in questo senso che Dom Godefroid Belorgey O.C.S.O. (1880-1964) poteva affermare, in un’istruzione
data a Sept-Fons nel 1944: «San Benedetto vuol fare di noi dei contemplativi?
Ma tutta la sua opera è per questo! Senza di ciò la nostra vita è un non-senso,
il nostro monastero è un non-senso! “Soli
Deo”! Tutto, nella vita monastica, è ordinato a questo!».
Ma il caro
Dom Belorgey sapeva anche che – in quest’ambito delle grazie particolari – i
beneficiari sfuggono a ogni verifica (beati coloro che vivono nascosti), e che
queste stesse grazie non si lasciano possedere (beati i poveri).
Riprendiamo
gli stessi concetti sotto un’altra angolatura. L’intenzione principale mira alla più grande felicità, la più
sicura e la più duratura; questa felicità che produce in anticipo un peso nell’intimo
del nostro cuore e, in superficie, una fiammella inestinguibile. L’intenzione principale mira dunque alla
vita eterna, che è partecipazione personale alla vita stessa di Dio. Ciò
significa inoltre che anche la nostra intenzione
principale riguarda delle Persone: Dio Padre, che ci darà questa vita
eterna, e Gesù Cristo, Figlio di Dio e Salvatore, che a lui ci conduce
accompagnandoci. Da cui l’espressione «cercare Dio», che si trova nella
santa Regola e che riassume perfettamente sia la nostra intenzione principale sia la spiritualità del nostro Padre san
Benedetto.
Il monaco desidera
cercare – per poi un giorno possedere – un Oggetto che è il Bene supremo.
Avvicinarsi a questo oggetto occupa il suo pensiero. Mette così in pratica
contemporaneamente diversi precetti della Sacra Scrittura. Ma attenzione: vi è
una bella differenza tra questa ricerca, precisa, coraggiosa, di un Oggetto supremo
più grande – ossia la ricerca monastica – e la moderna pretesa di «essere in ricerca», che significa
solo – oserei dire – una miserevole assenza di oggetto.
Quindi, se in
questa teologia insegnata da san Benedetto io ritrovo la voce divina che un
tempo mi aveva inquietato, e poi invitato e chiamato; se il mio spirito e il
mio cuore si rivolgono ormai verso questo Oggetto, io corro il rischio di chi
non ha e non avrà mai altro che un solo cibo per nutrire la sua fame. La manna,
e ancora manna, fino al termine della vecchiaia! Allora gustiamoci la gran
varietà di cibi al banchetto della vita! Così pure sarò nella situazione di chi
ha una sola carta da giocare: posizione sfavorevole. Per scegliere la vita
monastica ci vorranno quindi motivi solidi, incrollabili. Questi motivi il
discepolo non li cerca nell’analisi o nei calcoli; li trova già depositati, da
un Altro, nel proprio cuore. Da quel momento, se non si distoglie dalla luce
che ha intravisto, se accetta ogni rischio per quest’unica pietra preziosa,
allora «inclini l’orecchio del suo
cuore» e proceda: la sua intenzione
principale non subirà mai un’eclissi.
Notiamo che
se la vita monastica mira intensamente al Cielo, non per questo – secondo san
Benedetto – essa è già una vita celeste. Avviamento, preparazione, promessa:
sì. Ma anticipazione, pregustamento: no, nel modo più assoluto. Non prestandosi
a questa confusione, san Benedetto – preciso e realista – evita al suo
discepolo tante illusioni quante delusioni. San Benedetto non segue quindi i
Padri – i Padri greci soprattutto –, che si sono precipitati con diletto in
questa confusione, occasione di ottimi slanci oratori. Un bel danno per loro e
per la causa: infatti esaltare la vita monastica con pseudo-verità non è
piuttosto farle un cattivo servizio? San Benedetto ci guadagna un sovrappiù di
fiducia.
L’intenzione principale, che il
discepolo fa sua, lo lega a tutta una serie di obblighi, molto più strettamente
di quanto potrebbero fare molte e dettagliate osservanze. Così san Benedetto,
dopo avere presentato al discepolo in modo approfondito e leale questa intenzione principale – «perché
prenda coscienza dell'impegno che sta per assumersi» («ut sciat ad quod ingreditur», RB 58,12) –, giunge a porgli questa
domanda, a nome del Signore: «Ecco la legge sotto la quale vuoi militare; se ti senti di
poterla osservare, entra; altrimenti, va’ pure via liberamente», «si vero non potes, liber discede» (RB 58,10).
Ammiriamo
questo «va’ pure via liberamente», che
eviterà – da una parte e dall’altra – tanti problemi conseguenti! Dolce
compassione? O ancor meglio dolce ironia? «Quando un novizio entra –
diceva Dom Jean-Baptiste
Chautard O.C.S.O. (1858-1935) – suoniamo la campana piccola. Quando un novizio non abbastanza
convinto si ritira, suoniamo la campana grande». In ambedue i casi,
legittima gioia. Perché fra coloro che rimangono nel campo del Signore, non ci
vuole né esitazione, né ambiguità riguardo all’intenzione principale.
[Père Jérôme (Kiefer, O.C.S.O.,
1907-1985), Saint Benoît de nouveau suivi,
Ad Solem, Parigi 2013, pp. 47-51]