Pensiamo che questa
gioia purissima, fatta di carità e di tenerezza, abbia per principio un disegno
particolarissimo di Dio sull’Ordine di san Benedetto, visibile soprattutto
attraverso il carattere paterno di un’autorità la cui dolcezza tempera il
rigore del combattimento spirituale. Il dispiegamento di questa grazia è stato
possibile perché essa ha attraversato, per giungere sino a noi, il cuore di un
padre. È questo il nostro terzo punto. Senza soffermarci sull’assai verosimile
influenza romana del paterfamilias
sull’istituzione benedettina – influenza così spesso e giustamente invocata –, come
non percepire il carattere di potenza paterna dell’autorità, al contempo
biblica e romana, così come l’ha concepita il nostro santo legislatore? Le
prime parole del prologo della Regola non sono forse “Ascolta, figlio mio, […] accogli
volentieri i consigli ispirati dal suo amore paterno”? La chiave di volta
della famiglia monastica come essa appare nelle Regola, è l’autorità paterna
dell’abate. Ci si trova davanti a una specie di sacramento della bontà di Dio.
Per designare il soggetto dell’autorità monastica, la regola ha mantenuto la
parola ebraica abba, che vuol dire
padre, un termine che ritroviamo ripetutamente sulle labbra di Gesù, un titolo
dato agli anziani presso i monaci del deserto, un titolo infine che è confluito
nel vocabolario religioso ed ecclesiale per designare semplicemente i
sacerdoti, come se ogni autorità non potesse che essere paterna. La parola “autorità”,
d’altro canto, che ha la medesima radice del verbo latino augere, auctum
(aumentare), suggerisce l’idea di crescita, di elevazione, di sviluppo. Non
vediamo con ciò nobilitata la nozione d’autorità? L’autorità essendo non quello
che opprime, ma che libera, ciò che fa essere di più. L’autorità paterna
sprigiona le forze della crescita che l’infanzia contiene.
Due eccessi si oppongono
all’educazione dell’uomo: da una parte la volontà di potenza di un’autorità
abusiva che annichila le forze in crescita del piccolo essere umano; e dall’altra
l’eccesso inverso, l’assenso lassista davanti alle spinte anarchiche dello
sviluppo infantile. La Regola di san Benedetto e lo spirito del grande
patriarca soggiacente a quattordici secoli di tradizione monastica, evitano questi due scogli mediante la
congiunzione di due forze vitali: quella della bontà paterna e quella della
pietà filiale, l’una davanti all’altra, come il dito di Dio raggiunge l’indice
del primo uomo svegliandolo alla vita, come appare nel grande affresco della Cappella
Sistina.
Poiché
noi siamo qui per ricordarci delle gentilezze che, avendo attraversato il cuore
di un padre, sono giunte fino a noi, ci pare che non possiamo fare di meglio
per rendere grazie, che essere – nell’accezione piena del termine – riconoscenti: si tratta di ri-conoscere,
di conoscere meglio, di procedere oltre nell’atto di conoscenza che è la
condizione della gratitudine.
Signore
Dio, Padre di Nostro Signore Gesù Cristo, siate benedetto, voi che ci avete
donato in san Benedetto un’immagine della vostra sapienza e della vostra bontà,
voi che gli avete ispirato di cercare “di
essere più amato che temuto”; di fare “trionfare
la misericordia sulla giustizia”; di “detestare
i vizi, ma amare i suoi fratelli” e di mostraci il cammino della “carità, che quando è perfetta, scaccia il
timore”; voi che, per mezzo di lui, ci avete esortati a “correre per la via dei precetti divini col
cuore dilatato dall’indicibile sovranità dell’amore”; voi che avete
ispirato a tutti i discepoli del patriarca dei monaci una tenera sollecitudine
per i piccoli e gli anziani, per gli ospiti e i pellegrini e soprattutto per i
più poveri – perché in essi principalmente noi vediamo un’immagine del vostro
figlio Gesù Cristo –, siate benedetto per sempre.
Cari
amici e fratelli oblati, benediciamo insieme il Signore di avere suscitato
Benedetto come il virgulto della primavera della Chiesa, nel momento in cui le
ondate barbariche si abbattevano sull’Impero e sui miasmi di una civiltà
decadente. In maniera tale che l’Ordine benedettino, fedele alle sue origini,
possa continuare la sua missione, ovvero di richiamare senza sosta al mondo che
invecchia che, per la fioritura gioiosa delle virtù del Vangelo e per la
dolcezza della sua liturgia – malgrado il crollo di un mondo di cui Satana
accelera la rotta –, il Regno di Dio è fra noi. Quel Regno che Gesù ci dipinge
come delle nozze, come un banchetto e come una famiglia in festa; quel Regno di
cui Gesù ci ha aperto le porte mediante il sangue della Croce; quel Regno nel
quale lo stesso Signore asciugherà tutte le lacrime dagli occhi, in cui l’armonia
rimpiazzerà il caos; quel Regno interamente di pace, di luce e di amore è già
instaurato, è già presente nelle anime pure. Non resta che a noi, se la nostra
fede è ancora viva, se il nostro cuore è ancorato nella santa speranza, di fare
della nostra vita un’anticipazione dell’eternità; non rimane che a noi, giorno
dopo giorno, nella freschezza dell’amore che perdona, non resta che a noi, ogni
mattino, di risvegliarci nel Paradiso.
[Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), La cité harmonieuse, 25
luglio 1987, in Benedictus. Tome III. Lettres aux oblats, Éditions
Sainte-Madeleine, Le Barroux 2011, pp. 31-42 (qui pp. 39-42), trad. it. di fr. Romualdo
Obl.S.B. / 3 - fine]