I
Dialoghi ci riportano la sua visione
del mondo in un raggio della luce di Dio, la sua penetrazione delle anime le
più nascoste e il suo dono di profezia; la vita angelica che ha condotto in
un’incessante contemplazione, solo con Dio soltanto, nel deserto di Subiaco. Ma
quel che ci fa riconoscere in san Benedetto le più alte grazie dell’unione
mistica non è soltanto il privilegio di una visione, bensì che tutte le
occupazioni del monaco come le ha descritte sono miracolosamente collegate da
un filo invisibile e come sospese a Dio che è l’origine di tutto. Si può dire
senza timore d’imbrogliarsi che l’intero monastero, con la sua organizzazione,
il suo regolamento, le sue consuetudini, il suo ufficio liturgico, la sua
gerarchia, addirittura la sua architettura, non è altro che un immenso
apparecchio respiratorio della vita divina, un culto, un’ininterrotta liturgia
in presenza di Dio. E questo senza abilità, senza prestazioni, senza nulla da
cui traspaia la forza o l’ostentazione, ma per la semplicità di un’antica
tradizione trasmessa dai monaci dell’Oriente cristiano, di cui san Benedetto è
l’erede e il continuatore: grazie all’ordinamento tutto romano di una vita calma,
regolare, sedentaria, diremmo contadina, tutto sale a Dio giorno e notte come
l’odore soave dell’incenso.
Sottolineiamolo
con cura: se san Benedetto può essere considerato uno dei più grandi mistici di
tutti i tempi, ciò non accade per la testimonianza di libri, di profezie o di
rivelazioni di cui sarebbe l’autore, ma perché, avendo sposato il pensiero di
Dio sulla natura e la santità della vocazione battesimale, egli vi ha dato
un’iscrizione storica di carattere universale, capace di toccare le anime nella
loro profondità attraverso tutti i secoli e in ogni parte del globo. Fino alla
fine dei tempi, anime cristiane rinate al fonte battesimale – uomini e donne
tormentate da una sete d’assoluto – troveranno nella corrente della grazia
benedettina la realizzazione del disegno primordiale che presiede alla salvezza
dell’umanità. Ossia: fare di tutta la propria esistenza, attraverso le nebbie
dell’esilio, un’instancabile ricerca del volto di Dio, un’anticipazione della
vita eterna, “un umile e nobile servizio
della maestà divina nel recinto del monastero”, diventato nel dolce
pensiero del patriarca dei monaci il paradiso
claustrale; la famiglia di Dio, riunita in Cristo, si esercita mediante la
carità e la lode a imitare i costumi degli abitanti del Cielo. Programma
sublime che non è stato possibile se non perché san Benedetto fu non soltanto
un mistico, ma un osservatore realista, un incomparabile conoscitore degli
uomini.
Il
conoscitore degli uomini
Dopo
tre anni di eremitismo durante i quali il santo visse solitario in presenza di
Dio alla maniera degli angeli, egli fu raggiunto nella sua grotta da un gruppo
di monaci venuti da Vicovaro, che gli chiesero di diventare il loro abate.
Sappiamo come, poco tempo dopo, giacché erano impauriti dall’esigenza del santo,
cercarono di avvelenarlo. Se riportiamo questo episodio ben noto è perché esso
illumina di una luce cruda la terra ingrata in cui san Benedetto ebbe la
missione di coltivare e raccogliere i frutti delle anime per conto del Padre
celeste.
L’umanità
con la quale san Benedetto ebbe a che fare, quella che nel corso dei secoli
verrà a bussare alla porta dei monasteri, non proviene da uno scenario diverso
rispetto al nostro; è un’umanità peccatrice, sono poveri peccatori in via di
conversione che il patriarca dei monaci inizia a guidare verso la perfezione.
Giacché ecco la sfida, ecco il paradosso: il fine assegnato dalla Regola è
l’amore perfetto che vince il timore, caritas
perfecta quae foras mittit timorem (“mittere
foras”: espellere, cacciare fuori). Una tale carità perfetta, che è
esattamente il regime del Cielo, è proposta a uomini grossolani, ai quali san
Benedetto ricorda delle prescrizioni assai elementari, enumerate al capitolo IV
della Regola: non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non essere superbo, non
essere dedito al vino, non essere
dormiglione né pigro…
Nel
capitolo LXV è questione del priore, al quale è raccomandato di non fomentare
le risse, le divisioni, di non occasionare scandali, di non entrare in rivalità
con il suo abate. E se non intenderà starsene
quieto e sottomesso in comunità,
che sia addirittura espulso dal monastero: “Quod si et postea in congregatione quietus et oboediens non fuerit,
etiam de monasterio pellatur”.
Tutta
l’arte di san Benedetto, profondo psicologo, conoscitore avvertito delle
miserie e dei recessi nascosti del cuore umano, ma anche delle profonde
risorse, fu di organizzare la vita in comunità, autentica sfida lanciata a una
natura ferita dal peccato originale, in maniera tale che – da una parte – le
tracce delle nostre cadute siano combattute e neutralizzate dalla direzione
ferma, vigilante, talvolta rigorosa dell’autorità, e – dall’altra – che i
talenti, le ricchezze latenti di ciascuno siano osservate con una paterna
benevolenza in vista di un dispiegamento dell’anima. Da qui quei contrasti che
riempiono i capitoli della Regola, contrasti che colpiscono e che sono quasi
continuamente il libero sfogo di un sentimento filiale – come appare nel
capitolo LXXII, “Il buon zelo dei monaci” – e le severe prescrizioni del codice
penitenziale, la sorveglianza esercitata dagli anziani sui giovani, la
disciplina regolare, la battitura con la verga.
Può
darsi che non abbiamo ancora sottolineato ciò che ha fatto l’essenziale di
questa organizzazione della comunità e di questa educazione dell’anima. Un
aspetto mi sembra capitale e merita di essere posto in evidenza: questo modo di
educazione spirituale non si basa tanto su delle industrie umane, bensì sulle
energie divine, che hanno la loro fonte in Dio. San Benedetto fonda il meglio
della sua azione sull’irradiamento trasfiguratore della luce divina nelle
anime, che invoca due volte all’inizio del prologo e che chiama “quella luce divina”: “Apertis oculis
nostris ad deificum lumen”,
il monaco deve progredire “aprendo gli occhi a quella luce divina”.
Un
altro esempio è rivelatore: il posto della bontà e della misericordia
nell’esercizio del governo abbaziale. Non vi è qui come una prova tangibile
dell’origine celeste di un’istituzione che sembra, in diversi aspetti pratici,
appartenere al tempo, ma le cui radici profonde affondano nell’eternità?
Riteniamo di potere applicare alla vita benedettina ciò che Padre Humbert Clérissac
O.P. dice di tutto quello che partecipa un po’ profondamente alla vita della
Chiesa. Così dice: “Vi si sente il
sigillo di una grazia d’unzione, di tenerezza e di gioia, e come un accento
paradisiaco”.
[Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), La cité harmonieuse, 25 luglio 1987, in Benedictus. Tome III. Lettres aux oblats, Éditions Sainte-Madeleine, Le Barroux 2011, pp. 31-42 (qui pp. 35-39), trad. it. di fr. Romualdo Obl.S.B. / 2 -continua]