martedì 10 luglio 2012

San Benedetto e la città armoniosa / seconda parte

Il mistico

I Dialoghi ci riportano la sua visione del mondo in un raggio della luce di Dio, la sua penetrazione delle anime le più nascoste e il suo dono di profezia; la vita angelica che ha condotto in un’incessante contemplazione, solo con Dio soltanto, nel deserto di Subiaco. Ma quel che ci fa riconoscere in san Benedetto le più alte grazie dell’unione mistica non è soltanto il privilegio di una visione, bensì che tutte le occupazioni del monaco come le ha descritte sono miracolosamente collegate da un filo invisibile e come sospese a Dio che è l’origine di tutto. Si può dire senza timore d’imbrogliarsi che l’intero monastero, con la sua organizzazione, il suo regolamento, le sue consuetudini, il suo ufficio liturgico, la sua gerarchia, addirittura la sua architettura, non è altro che un immenso apparecchio respiratorio della vita divina, un culto, un’ininterrotta liturgia in presenza di Dio. E questo senza abilità, senza prestazioni, senza nulla da cui traspaia la forza o l’ostentazione, ma per la semplicità di un’antica tradizione trasmessa dai monaci dell’Oriente cristiano, di cui san Benedetto è l’erede e il continuatore: grazie all’ordinamento tutto romano di una vita calma, regolare, sedentaria, diremmo contadina, tutto sale a Dio giorno e notte come l’odore soave dell’incenso.
Sottolineiamolo con cura: se san Benedetto può essere considerato uno dei più grandi mistici di tutti i tempi, ciò non accade per la testimonianza di libri, di profezie o di rivelazioni di cui sarebbe l’autore, ma perché, avendo sposato il pensiero di Dio sulla natura e la santità della vocazione battesimale, egli vi ha dato un’iscrizione storica di carattere universale, capace di toccare le anime nella loro profondità attraverso tutti i secoli e in ogni parte del globo. Fino alla fine dei tempi, anime cristiane rinate al fonte battesimale – uomini e donne tormentate da una sete d’assoluto – troveranno nella corrente della grazia benedettina la realizzazione del disegno primordiale che presiede alla salvezza dell’umanità. Ossia: fare di tutta la propria esistenza, attraverso le nebbie dell’esilio, un’instancabile ricerca del volto di Dio, un’anticipazione della vita eterna, “un umile e nobile servizio della maestà divina nel recinto del monastero”, diventato nel dolce pensiero del patriarca dei monaci il paradiso claustrale; la famiglia di Dio, riunita in Cristo, si esercita mediante la carità e la lode a imitare i costumi degli abitanti del Cielo. Programma sublime che non è stato possibile se non perché san Benedetto fu non soltanto un mistico, ma un osservatore realista, un incomparabile conoscitore degli uomini.

Il conoscitore degli uomini

Dopo tre anni di eremitismo durante i quali il santo visse solitario in presenza di Dio alla maniera degli angeli, egli fu raggiunto nella sua grotta da un gruppo di monaci venuti da Vicovaro, che gli chiesero di diventare il loro abate. Sappiamo come, poco tempo dopo, giacché erano impauriti dall’esigenza del santo, cercarono di avvelenarlo. Se riportiamo questo episodio ben noto è perché esso illumina di una luce cruda la terra ingrata in cui san Benedetto ebbe la missione di coltivare e raccogliere i frutti delle anime per conto del Padre celeste.
L’umanità con la quale san Benedetto ebbe a che fare, quella che nel corso dei secoli verrà a bussare alla porta dei monasteri, non proviene da uno scenario diverso rispetto al nostro; è un’umanità peccatrice, sono poveri peccatori in via di conversione che il patriarca dei monaci inizia a guidare verso la perfezione. Giacché ecco la sfida, ecco il paradosso: il fine assegnato dalla Regola è l’amore perfetto che vince il timore, caritas perfecta quae foras mittit timorem (“mittere foras”: espellere, cacciare fuori). Una tale carità perfetta, che è esattamente il regime del Cielo, è proposta a uomini grossolani, ai quali san Benedetto ricorda delle prescrizioni assai elementari, enumerate al capitolo IV della Regola: non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non essere superbo, non essere dedito al vino, non essere dormiglione né pigro
Nel capitolo LXV è questione del priore, al quale è raccomandato di non fomentare le risse, le divisioni, di non occasionare scandali, di non entrare in rivalità con il suo abate. E se non intenderà starsene quieto e sottomesso in comunità, che sia addirittura espulso dal monastero: “Quod si et postea in congregatione quietus et oboediens non fuerit, etiam de monasterio pellatur”.
Tutta l’arte di san Benedetto, profondo psicologo, conoscitore avvertito delle miserie e dei recessi nascosti del cuore umano, ma anche delle profonde risorse, fu di organizzare la vita in comunità, autentica sfida lanciata a una natura ferita dal peccato originale, in maniera tale che – da una parte – le tracce delle nostre cadute siano combattute e neutralizzate dalla direzione ferma, vigilante, talvolta rigorosa dell’autorità, e – dall’altra – che i talenti, le ricchezze latenti di ciascuno siano osservate con una paterna benevolenza in vista di un dispiegamento dell’anima. Da qui quei contrasti che riempiono i capitoli della Regola, contrasti che colpiscono e che sono quasi continuamente il libero sfogo di un sentimento filiale – come appare nel capitolo LXXII, “Il buon zelo dei monaci” – e le severe prescrizioni del codice penitenziale, la sorveglianza esercitata dagli anziani sui giovani, la disciplina regolare, la battitura con la verga.
Può darsi che non abbiamo ancora sottolineato ciò che ha fatto l’essenziale di questa organizzazione della comunità e di questa educazione dell’anima. Un aspetto mi sembra capitale e merita di essere posto in evidenza: questo modo di educazione spirituale non si basa tanto su delle industrie umane, bensì sulle energie divine, che hanno la loro fonte in Dio. San Benedetto fonda il meglio della sua azione sull’irradiamento trasfiguratore della luce divina nelle anime, che invoca due volte all’inizio del prologo e che chiama “quella luce divina”: “Apertis oculis nostris ad deificum lumen”, il monaco deve progredire “aprendo gli occhi a quella luce divina”.
Un altro esempio è rivelatore: il posto della bontà e della misericordia nell’esercizio del governo abbaziale. Non vi è qui come una prova tangibile dell’origine celeste di un’istituzione che sembra, in diversi aspetti pratici, appartenere al tempo, ma le cui radici profonde affondano nell’eternità? Riteniamo di potere applicare alla vita benedettina ciò che Padre Humbert Clérissac O.P. dice di tutto quello che partecipa un po’ profondamente alla vita della Chiesa. Così dice: “Vi si sente il sigillo di una grazia d’unzione, di tenerezza e di gioia, e come un accento paradisiaco”.

[Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), La cité harmonieuse, 25 luglio 1987, in Benedictus. Tome III. Lettres aux oblats, Éditions Sainte-Madeleine, Le Barroux 2011, pp. 31-42 (qui pp. 35-39), trad. it. di fr. Romualdo Obl.S.B. / 2 -continua]

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