Mikalojus Konstantinas Čiurlionis (1875-1911), Rex, 1909 |
Ogni anno celebriamo due
volte la festa del nostro glorioso patriarca. Il 21 marzo, giorno della sua
preziosa morte, ci piace evocare qualche tratto della sua fisionomia conservato
dal suo primo biografo, san Gregorio Magno, Papa benedettino del secolo VI. La
seconda festa, che chiamiamo “San Benedetto d’estate”, cade l’11 luglio. In
tale ricorrenza abbiamo a cuore non solo d’esaltare le virtù dell’eremita di
Subiaco e del patriarca dei monaci, ma anche di mettere in luce il genio di
colui che la Chiesa considera come il Padre dell’Europa e l’ispiratore della
civiltà occidentale, al quale Cassiodoro ha conferito il titolo di “fundator placidae quietis”, fondatore
del tranquillo riposo, maestro della pace interiore. Ecco quel che è stato san
Benedetto al dire dei suoi contemporanei. Dobbiamo collocare questa espressione
nel contesto della società antica, così fortemente marcato da un carattere
sociale, familiare e comunitario, a tal punto che essa potrebbe essere
felicemente tradotta con “fondatore della città armoniosa”.
Il sogno di una città
armoniosa non ha mai cessato di fecondare l’immaginazione degli antichi.
Reminiscenza di ciò che fu o intuizione di quel che sarà? Un’età dell’oro
appare profeticamente in quasi tutti i racconti mitologici. In Virgilio troviamo
una misteriosa profezia:
“Già la novella prole discende dall’alto del cielo […] il bambino nascituro con cui cesserà l’età
del ferro e in tutto il mondo sorgerà quella dell’oro […] se resta traccia dei nostri delitti […] e reggerà il mondo pacato dalle virtù del
padre”.
Nell’opera di Platone,
presso il quale l’idea fiorente in immagine dà nascita al mito, esiste una
mirabile descrizione della città armoniosa. La si trova nel Crizia ed è l’evocazione di Atlantide,
quella favolosa città inghiottita nel fondo del mare, simbolo della felicità
umana scomparsa per una misteriosa fatalità. Dando libero corso alla sua
ispirazione, il filosofo descrive, in una specie di Paradiso perduto, i costumi
politici di una società ideale. Ognuno dei dieci re che presiede al destino
delle proprie città esercita fra di essi mutuamente la funzione di giudice,
ciascuno giudicando l’altro in uno sforzo estremo di giustizia.
“Quando
scendevano le tenebre e il fuoco dei sacrifici si era consumato, indossavano
tutti una veste azzurra, bella quant’altre mai, sedendo in terra, accanto alle
ceneri dei sacrifici per il giuramento. Di notte, quando ormai il fuoco intorno
al tempio era completamente spento, venivano giudicati e giudicavano se uno di
loro avesse accusato un altro di violare qualche legge; dopo aver formulato il
giudizio, all’apparire del giorno, incidevano la sentenza su una tavola d’oro
che dedicavano in ricordo insieme alle vesti”.
Può essere che il torto di
Platone sia di avere concepito il fondamento e le leggi della sua Repubblica
per uomini perfetti, o almeno in procinto di diventarlo; la società civile,
così alta sia l’idea che se ne può avere, non è assimilabile a un monastero, e
le sue leggi non possono impunemente mutare in regole monastiche. La città
terrestre, al contrario, reclama più spesso leggi e punizioni rigorose per
proteggere i cittadini e per impedire ai disonesti di prevalere.
In compenso, può essere
che appartenga alla sapiente istituzione benedettina, per quanto essa sia
interamente orientata al Cielo, di concedere alla terra il segreto della sua
armonia e di rilanciare l’intuizione profetica del filosofo greco, di cui il
poeta Charles Péguy ha sottolineato il ruolo provvidenziale:
I sogni di Platone si erano fatti strada per Lui.
Per Lui solo canta il gigantesco Eschilo.
I canti si sono però
taciuti e i sogni si sono estinti. La fiaccola della civiltà passò allora
rapidamente in mani latine. Coincidenza significativa: nel 529 l’imperatore
Giustiniano chiude la scuola d’Atene e nello stesso anno san Benedetto fonda a
Montecassino il primo monastero d’Occidente. La scuola d’Atene era stata
fondata dagli iniziatori dell’ellenismo, da uomini interamente kaloskagathòs, un programma – lo sapete
– in cui si congiunge la bontà dell’essere all’eleganza del suo dispiegamento.
Il monastero benedettino,
definito da san Benedetto una scuola del servizio del Signore e da san Bernardo
come una scuola d’amore (schola amoris),
completamente indirizzato verso un sapere più alto mediante la preghiera, la
carità, la bellezza del culto e un’ardente ricerca di Dio, senza cessare di
essere un arco teso verso il Cielo, rileverà da una retorica morente per
diventare – come ha detto un antico – un’accademia della pace, di silenzio e di
libertà. Come? Essenzialmente per il rispetto delle anime, la carità fraterna,
l’assopimento delle passioni; la casta tinta di una preghiera sacramentale che
si accorda alla bellezza del giorno; insegnando ai barbari quant’è dolce il
Signore e com’è dolce vivere tra fratelli nell’amicizia di Dio.
Un fedele abituato a
soggiornare nei nostri chiostri, rileggendo la Regola di san Benedetto, vi ha
scoperto per i moderni una carta, un’arte di vivere assieme, un’arte di
stabilire l’uomo nella pace. Così dice: “Lo
spirito benedettino è apparentato a quello di Virgilio, è la misura dei Greci,
l’atarassia degli stoici; è la fede di Abramo e di Mosè penetrata di senso
umano; è l’affettuosa intimità; è soprattutto la bellezza di tutte le ore del
giorno, come se ciascuna fosse una piccola eternità” (Jean Guitton).
A cosa dobbiamo attribuire
il successo di questa invasione pacifica che ha colonizzato l’Europa del
Medioevo e ha modellato lo spirito civilizzatore medievale? Non cadiamo
nell’errore tipicamente moderno di cercare il segreto di una riuscita soprannaturale
nella congiunzione di avvenimenti di ordine psicologico o sociale. Il segreto
dei benedettini è tutto intero nella Regola e il segreto della Regola è nell’anima
del nostro santo patriarca; è la che occorre cercare. Vi è che l’anima del Nostro
Santo Padre Benedetto era quella di un mistico, di un conoscitore d’uomini e di
un padre.
[Dom Gérard Calvet O.S.B.
(1927-2008), La cité harmonieuse, 25 luglio 1987, in Benedictus. Tome
III. Lettres aux oblats, Éditions Sainte-Madeleine, Le Barroux 2011, pp.
31-42 (qui pp. 31-35), trad. it. di fr. Romualdo Obl.S.B. / 1 - continua]