Ci rallegriamo
di vedere la nostra famiglia accogliere regolarmente dei nuovi membri, con una
simpatica proporzione di giovani famiglie. Non è forse soprattutto per loro che
il soccorso dell’oblatura si rivela profittevole? Come non salutare di
passaggio questi spazi vergini, queste speranze intatte che non hanno ancora
incontrato le delusioni della vita, affrontato un mondo coalizzato contro il
loro progetto, contro il loro ideale, contro i loro princìpi cristiani? Poiché
alcuni di voi mi hanno chiesto di definire lo statuto proprio degli oblati di
san Benedetto, profitto di questa lettera per rispondere a tale desiderio,
felice di potere forse dare qualche rassicurazione ai meno attrezzati fra di
voi, a quanti e quante lottano nel combattimento spirituale, più rude – al dire
del poeta – delle battaglie umane.
L’oblatura
benedettina non è assimilabile né a una confraternita né a un raggruppamento
per l’apostolato; non è nemmeno un ordine di terziari, concepito dal fondatore,
con degli statuti precisi e delle obbligazioni giuridiche. L’oblatura è
anzitutto uno spirito. Lo spirito di san Benedetto. Uno spirito così semplice,
così potentemente radicato nelle prime epoche del cristianesimo, che può
facilmente espandersi dal tronco fino ai rami più lontani.
L’oblato,
attirato dalla perfezione della vita cristiana – la medesima che esige la
grazia del suo battesimo – si collega a una famiglia monastica e al suo abate
mediante un legame morale e spirituale analogo all’antico vincolo feudale che
univa un tempo il signore e il suo homme
lige; impegno assai forte, fondato sulla parola, in un’epoca in cui la
parola era un valore certo. Tempo felice in cui la parola data oltrepassava in
forza gli atti notarili!
Questo impegno
a vivere secondo lo spirito della Regola comporta un’esigenza al contempo assai
elevata e flessibile, consentendo una grande ricchezza d’adattamento secondo
gli stati di vita; ma comporta ugualmente dei diritti e dei doveri. Il dovere
consiste essenzialmente per l’oblato a mostrarsi degno della confidenza che gli
è stata offerta, mediante una preoccupazione costante d’ispirarsi alla
tradizione benedettina nella propria vita personale, e attraverso una
dipendenza affettuosa e leale nei confronti della propria famiglia monastica e
del suo abate, non secondo la forza del voto, ma secondo l’influenza dello
spirito. Egli gode, in contropartita, di un diritto netto: beneficiare delle
preghiere del monastero, essere aiutato, consigliato e sostenuto dalla
comunità, secondo lo spirito di carità dolce e delicata che regola i rapporti
fra i membri di una medesima famiglia.
Lo spirito
benedettino dovendo un poco alla volta trasformare la vita dell’oblato, cosa
c’è di più necessario di lasciarsene penetrare, e perciò di conoscerne a fondo
la natura e le esigenze? È ciò che proveremo a fare in questa circostanza.
Non vorrei,
cari fratelli e amici, che voi consideriate queste righe, amichevoli e
familiari, come un programma esaustivo. Preferirei procedere a piccoli passi,
nel corso di queste lettere periodiche che riceverete ogni trimestre.
Oggi mi
limiterò a parlarvi dello spirito benedettino, andando direttamente a ciò che
costituisce l’anima della vita monastica, a quel centro ardente da cui procede
tutto il resto: il gusto di Dio.
Per andare dritti
all’essenziale, diciamo che lo spirito benedettino inclina il monaco a cercare
Dio in maniera ostinata e concreta, a organizzare tutta la propria esistenza
secondo la volontà di Dio, sotto lo sguardo di Dio, al servizio di Dio. Il
benedettino è un animale religioso che costruisce la sua casa – fosse pure
modesta – come un tempio di lode e ammirazione, in cui il chiostro e il
refettorio fanno parte del santuario, dove tutti gli atti hanno un valore
liturgico; un tempio nel quale l’architettura parla di Dio, conduce a Dio,
esprime la regalità di Dio sul mondo, sulle anime e sui corpi, intrapresa
totalizzante che si protrae fino a fare della vita monastica un’anticipazione
dell’eternità. In un universo ricostruito secondo il piano originario di Dio
sulla sua creazione, in un universo in cui tutte le occupazioni sono dunque
totalmente riferite al Signore, si comprende come non sia necessario attardarsi
sull’analisi delle virtù morali e sugli stati psicologici. San Benedetto regola
la vita del monaco in maniera tale che Dio ne sia il fondamento e la chiave di
volta. L’intero edificio è stato fissato a questo punto di sostegno: tale è la
forza della sua architettura; ma tutto crolla seppure un poco s’indebolisce
l’idea di Dio. È la sola spiegazione dei periodi di decadenza monastica nel
corso delle epoche. Umiltà, obbedienza, castità, preghiera personale, vita
liturgica, e tutte le grandi osservanze che compongono la fisionomia del
monaco, si spiegano a partire da questo presupposto iniziale, ovvero il senso di
Dio. L’umiltà è misurata dalla fede nella grandezza di Dio; l’obbedienza è
misurata dalla santità della volontà divina, e così via. Ciò che costituisce la
forza dei monaci, la santità e l’irradiamento dell’istituzione monastica, non
sono i risultati sociali, culturali o artistici, i quali non sono che
conseguenze. Il gusto di Dio, la passione di essere solo suoi, il desiderio e
la sete d’incontrare il suo volto: ecco lo spirito benedettino. Tutto il resto
è letteratura. Come conservare e coltivare quest’orientamento a Dio, questo
desiderio, questo gusto fondamentale? Con la preghiera. Ne riparleremo.
[Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), Lettre aux oblats, n. 1, 1985, in Benedictus. Tome III. Lettres aux oblats, Éditions Sainte-Madeleine, Le Barroux 2011, pp. 16-19,
trad. it. di fr. Romualdo Obl.S.B.]