martedì 22 novembre 2011

L'oblato e lo spirito di san Benedetto

Ci rallegriamo di vedere la nostra famiglia accogliere regolarmente dei nuovi membri, con una simpatica proporzione di giovani famiglie. Non è forse soprattutto per loro che il soccorso dell’oblatura si rivela profittevole? Come non salutare di passaggio questi spazi vergini, queste speranze intatte che non hanno ancora incontrato le delusioni della vita, affrontato un mondo coalizzato contro il loro progetto, contro il loro ideale, contro i loro princìpi cristiani? Poiché alcuni di voi mi hanno chiesto di definire lo statuto proprio degli oblati di san Benedetto, profitto di questa lettera per rispondere a tale desiderio, felice di potere forse dare qualche rassicurazione ai meno attrezzati fra di voi, a quanti e quante lottano nel combattimento spirituale, più rude – al dire del poeta – delle battaglie umane.
L’oblatura benedettina non è assimilabile né a una confraternita né a un raggruppamento per l’apostolato; non è nemmeno un ordine di terziari, concepito dal fondatore, con degli statuti precisi e delle obbligazioni giuridiche. L’oblatura è anzitutto uno spirito. Lo spirito di san Benedetto. Uno spirito così semplice, così potentemente radicato nelle prime epoche del cristianesimo, che può facilmente espandersi dal tronco fino ai rami più lontani.
L’oblato, attirato dalla perfezione della vita cristiana – la medesima che esige la grazia del suo battesimo – si collega a una famiglia monastica e al suo abate mediante un legame morale e spirituale analogo all’antico vincolo feudale che univa un tempo il signore e il suo homme lige; impegno assai forte, fondato sulla parola, in un’epoca in cui la parola era un valore certo. Tempo felice in cui la parola data oltrepassava in forza gli atti notarili!
Questo impegno a vivere secondo lo spirito della Regola comporta un’esigenza al contempo assai elevata e flessibile, consentendo una grande ricchezza d’adattamento secondo gli stati di vita; ma comporta ugualmente dei diritti e dei doveri. Il dovere consiste essenzialmente per l’oblato a mostrarsi degno della confidenza che gli è stata offerta, mediante una preoccupazione costante d’ispirarsi alla tradizione benedettina nella propria vita personale, e attraverso una dipendenza affettuosa e leale nei confronti della propria famiglia monastica e del suo abate, non secondo la forza del voto, ma secondo l’influenza dello spirito. Egli gode, in contropartita, di un diritto netto: beneficiare delle preghiere del monastero, essere aiutato, consigliato e sostenuto dalla comunità, secondo lo spirito di carità dolce e delicata che regola i rapporti fra i membri di una medesima famiglia.
Lo spirito benedettino dovendo un poco alla volta trasformare la vita dell’oblato, cosa c’è di più necessario di lasciarsene penetrare, e perciò di conoscerne a fondo la natura e le esigenze? È ciò che proveremo a fare in questa circostanza.
Non vorrei, cari fratelli e amici, che voi consideriate queste righe, amichevoli e familiari, come un programma esaustivo. Preferirei procedere a piccoli passi, nel corso di queste lettere periodiche che riceverete ogni trimestre.
Oggi mi limiterò a parlarvi dello spirito benedettino, andando direttamente a ciò che costituisce l’anima della vita monastica, a quel centro ardente da cui procede tutto il resto: il gusto di Dio.
Per andare dritti all’essenziale, diciamo che lo spirito benedettino inclina il monaco a cercare Dio in maniera ostinata e concreta, a organizzare tutta la propria esistenza secondo la volontà di Dio, sotto lo sguardo di Dio, al servizio di Dio. Il benedettino è un animale religioso che costruisce la sua casa – fosse pure modesta – come un tempio di lode e ammirazione, in cui il chiostro e il refettorio fanno parte del santuario, dove tutti gli atti hanno un valore liturgico; un tempio nel quale l’architettura parla di Dio, conduce a Dio, esprime la regalità di Dio sul mondo, sulle anime e sui corpi, intrapresa totalizzante che si protrae fino a fare della vita monastica un’anticipazione dell’eternità. In un universo ricostruito secondo il piano originario di Dio sulla sua creazione, in un universo in cui tutte le occupazioni sono dunque totalmente riferite al Signore, si comprende come non sia necessario attardarsi sull’analisi delle virtù morali e sugli stati psicologici. San Benedetto regola la vita del monaco in maniera tale che Dio ne sia il fondamento e la chiave di volta. L’intero edificio è stato fissato a questo punto di sostegno: tale è la forza della sua architettura; ma tutto crolla seppure un poco s’indebolisce l’idea di Dio. È la sola spiegazione dei periodi di decadenza monastica nel corso delle epoche. Umiltà, obbedienza, castità, preghiera personale, vita liturgica, e tutte le grandi osservanze che compongono la fisionomia del monaco, si spiegano a partire da questo presupposto iniziale, ovvero il senso di Dio. L’umiltà è misurata dalla fede nella grandezza di Dio; l’obbedienza è misurata dalla santità della volontà divina, e così via. Ciò che costituisce la forza dei monaci, la santità e l’irradiamento dell’istituzione monastica, non sono i risultati sociali, culturali o artistici, i quali non sono che conseguenze. Il gusto di Dio, la passione di essere solo suoi, il desiderio e la sete d’incontrare il suo volto: ecco lo spirito benedettino. Tutto il resto è letteratura. Come conservare e coltivare quest’orientamento a Dio, questo desiderio, questo gusto fondamentale? Con la preghiera. Ne riparleremo.

[Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), Lettre aux oblats, n. 1, 1985, in Benedictus. Tome III. Lettres aux oblats, Éditions Sainte-Madeleine, Le Barroux 2011, pp. 16-19, trad. it. di fr. Romualdo Obl.S.B.]

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