mercoledì 6 luglio 2011

Carmen in Laudem S. Benedicti

[Avvicinandosi la solennità di san Benedetto, che l’11 luglio viene festeggiato quale Patrono d’Europa, riproduciamo una lunga poesia – 33 distici – dedicata al patriarca del monachesimo occidentale da un poeta di nome Marco, del quale si conosce pochissimo. La datazione è incerta, ma pare comunque da porsi tra il VI e l’VIII secolo.
Al di là della datazione più o meno vicina alla morte del santo – tradizionalmente datata il 21 marzo 547 –, si tratta comunque dell’unico testo che si proponga come testimonianza della vita di san Benedetto, al di fuori del secondo libro dei Dialoghi di san Gregorio Magno (ca. 540-604).
Ne proponiamo la versione italiana del latinista Marco Galdi (1880-1936), così come utilizzata dall’abate Dom Placido Lugano O.S.B. Oliv. (1876-1947) nella sua Antologia Benedettina (Istituto Padano di Arti Grafiche, Rovigo 1948, pp. 174-178), precedendola dall’introduzione al testo dello stesso monaco olivetano (ibid., pp. 171-172).
Un particolare ringraziamento per l’aiuto a Cristiano Andreatta.]

Il carme di Marco poeta

Il carme di Marco in onore del S. Patriarca, rinvenuto nel cenobio benedettino di Mantova e pubblicato per la prima volta nel 1590 nel vol. III dei Carmina vetera del bresciano Prospero Martinengo, fu accolto da Angelo della Noce in calce al Cronicon di Leone Ostiense, dal Muratori (RR. II. SS., IV, 605-6), dal Migne (P. L., LXXX, 184), dal Mabillon (Acta SS. O.S.B., I, 28-9) e dal Tosti (Della Vita di S. Benedetto, 1892, p. 343-5).
In questi ultimi anni è stato oggetto di studio. Già il Tosti, nell’utilizzare la sostanza, dichiarò questi pochi distici, «scritti con tanta intenzione di affetto, che ogni sillaba getta uno sprazzo di luce sui fatti del suo maestro» (p. 168). D. Giuseppe De Luca, che ne ha dato un’ottima versione italiana, li dice «pieni di commozione vera e rallegrati qua e là da una luce autentica di poesia» (S. Benedetto, Vita e Regola in antichi volgarizzamenti, Firenze, 1923, p. 169). Marco Galdi gli ha dedicato un succoso studio (Il Carme di Marco poeta e l’apoteosi di san Benedetto, Napoli, Luigi Loffredo editore, 1929, pp. 44), in cui sottopone i trentatrè distici ad un diligente esame storico e filologico, ritenendo questo carme per il «più antico documento sulla vita e sull’attività prodigiosa del Santo di Norcia», e giudicando che questi versi «sono un efficace e animato commento di alcuni fatti che più colpirono l’immaginazione del poeta, e più ne commossero il cuore; un abbozzo poetico, schizzato con agile mano e con pennellate sicure e potenti» (p. 10). Egli riconosce che il poeta ha un gusto e una sensibilità indiscutibilmente superiori alla sua età e che principali suoi modelli sono Virgilio e Ovidio.
Il card. I. Schuster ha dedicato a questo carme il cap. LVIII della sua Storia di san Benedetto e dei suoi tempi (Milano, Vita e Pensiero, 1943, pp. 377-386), mettendo in rilievo che il carme deve essere stato scritto dopo la morte del Santo e che esso rappresenta una tradizione parallela, ma indipendente da quella gregoriana. Vi si descrive il soggiorno di San Benedetto a Subiaco e a Montecassino; l’opera sua missionaria a Cassino e i lavori intrapresi per la costruzione del monastero. Secondo l’affermazione del carme, a Cassino si rendeva culto anche a Giove, ma i vecchi templi cadevano in rovina e non vi accedeva oramai che la stola plebe rusticana; nel viaggio a Cassino, il Santo fu accompagnato da tre corvi, suoi vecchi amici e commensali; lo stesso Cristo gli fu guida e due giovani angeli ad ogni bivio gli mostravan la via; le popolazioni sublacensi rimpiangono la partenza del Patriarca; lo seguono e ritornan desolate. Ma il Santo nella nuova sede è intento a lavori per mutare il luogo dissacrato in una rocca di vita eterna, a provvedere di acqua la sommità delle montagne, a rovesciare gli idoli, a consacrare al Dio vivo e vero i templi antichi, a spianare la vetta, ridurla a coltivazione e munirla di strade. Cassino è tramutato in fiorito giardino, coltivato dai monaci, che in coro cantano le divine lodi mentre il Maestro sta assorto in colloquio con Dio.
Questo il fondo del carme. Il poeta si rivela nel nome: Marco. Visse sotto la disciplina di san Benedetto, venuto a lui, oppresso da colpe, ma colla speranza di godere della vita superna in virtù della preghiera del Santo, al quale chiede il miracolo di una rigenerazione spirituale, mutandogli in frutto le spine maligne che ne squarciavano il torpido cuore.
Paolo diacono, nell’Historia Longobardorum, ha tenuto conto del carme di Marco.

Carme in lode di S. Benedetto

Allor che il cieco vulgo forme profane adorava
e i propri manufatti credeva fosser numi;
un giorno avea qui eretto sacrari su diruti altari,
ove cruente vittime caddero all’empio Giove.
Ma qui giunse ispirato dal cielo e all’invito del colle
san Benedetto e il suolo purificò dai riti.
E i marmi sculti infranse, rovesciò le statue e volle
che in questo luogo un tempio sorgesse al vero Dio.
Qui venga chi gli spazi del ciel contemplare desia
né del sentier l’asprezza mai gli distolga il voto.
Costantemente il grande con aspro lavoro si acquista,
stretta una strada adduce alla vita beata.
Qui non appena io venni sotto il grave peso di colpe,
libero mi sentii del pesante fardello.
E credo anch’io felice di godere un giorno cielo,
se pel tuo Marco preghi, san Benedetto mio.
Un dì la stola plebe avea questo luogo nomato
la «rocca», dedicandola a deità di marmo.
Pur se qualcun si fosse del verace nome servito,
ben lo avrebbe appellato un infernale caos.
Al quale d’ogni parte correvano in frotte gli stolti
a sciorre turpi voti pel mortifero Giove.
Ma penso che a quest’inclita sede ben fu apposto quel nome
chiamando «rocca» il tempio che qui adesso si ammira
Dove la porta è chiusa ormai dell’eterna geena,
e rocca è della vita l’arce che fu di morte.
Arce da cui si tocca la porta del cielo stellato,
mentre felice il popolo intona canti angelici.
Di qui tu al vero Dio parli, o Benedetto, del monte
abitatore e duce solitario del coro.
E d’altro colle venendovi per ispirazione divina,
nell’ermo ti guidava Cristo che è duce e via.
Infatti ad ogni bivio mandava due angeli innanzi,
perché ti assicurassero il cammin da seguire.
Ed al sol uomo giusto che qui si trovava Egli disse:
lasciamo questo colle, un altro amico arriva.
Or che ascendesti al cielo, s’avviluppa in tenebre il monte
e livido s’è fatto come le nebbie sue.
Versando abbondantissime lacrime ora gemono gli antri
e le caverne struggonsi di pianto ne’ lor seni.
Commossi di dolore ti piangono i limpidi laghi
e la selva le chiome lacere sparge al vento.
Si penserà ch’io inventi; ma perché sol non partisse,
tre corvi meritarono d’accompagnarti al cielo.
Qui ti cercano i popoli, qui dentro rinchiuso, e lo attesti
quando aspetti le veglie pie della notte sacra.
Come orfani non cessano di piangere con rauche loquele,
perché furono orbati della presenza tua.
Ma innanzi al tuo passaggio cedetter le rupi e i pruni
e zampillò dell’arida terra mirabil’acqua.
Certo il monte di Cristo, che su tutti gli altri sovrasta,
Ecco che a’ piedi tuoi il suo vertice umilia.
E perché sulla vetta il tuo culto prosperi e cresca,
esso abbassa la cima ed appiana il terreno.
E ad evitar fatica per chi, Benedetto, a te viene,
piega in dolce declivio ovunque i fianchi obliqui.
Giusto onore ti rende questo monte al quale recasti
tanto ben divenendo il suo maggior decoro.
Tu qui l’aride zolle trasformi in ameni giardini,
Le nude rocce copri di pampini fecondi.
Si ammiran sulle rupi le biade ed insoliti frutti,
e verdeggia la selva di fruttifere chiome.
Così gli sterili atti degli uomini in frutti converti,
di salutari linfe rigando gli arsi cuori.
Così, ti prego, in messi trasforma le spine moleste,
che lacerano il cuore del tuo inerte Marco.

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