lunedì 18 ottobre 2010

L'uomo e l'invisibile

Poiché i riti sono carichi di un significato preciso e profondo, un loro cambiamento può far scoppiare una guerra, uno scisma o un’eresia.
Il rito è un pensiero in atto. È il pensiero umano incarnato in un gesto, capace di un’intensa forza d’espressione come della più squisita delicatezza mentale.
Si dimentica che i riti, frutti carichi della bellezza di una civiltà, travolti dal suo declino o sopravissuti talvolta come un fiore raffinato e fragile — pensiamo alla persistente e desueta etichetta di corte —, furono originariamente il grande poema, grossolano e selvaggio, di un’umanità infantile che ha danzato la sua teologia prima ancora di saper scrivere, come espressione visibile, attraverso la notte dei tempi, che proviene dai nostri lontani avi. Perché prima ancora di ricevere da loro qualche iscrizione, qualche affresco o graffito, scopriamo negli antichi riti funebri la prima testimonianza, davvero emozionante, di una credenza nell’aldilà: il defunto, le gambe piegate sul ventre, come un feto, è di nuovo affidato alla Madre Terra come un seme dell’eternità.
Poema in azione, straordinario strumento d’espressione religiosa, il rito s’impadronisce dell’intera esistenza umana e la fa rifluire verso la sua fonte. Non sono solo i riti funebri a esprimere questo ritorno, ma anche quelli della preghiera e del sacrificio, del pasto e dell’ospitalità, i riti legati alla nascita e al matrimonio, il culto verso gli dèi della Città, verso i genitori e la patria.
Nel libro L’uomo e l’invisibile, l’etnologo Jean Servier scrive: «I selvaggi non esistono. Gli uomini sono uguali come valore intellettuale e nel pensiero. Ci sembrano più curiosi dei beni invisibili piuttosto che dei beni di questo mondo, a dispetto di ogni determinismo geografico, economico, sociale o storico»; e ancora: «Tutte le proiezioni dell’uomo nel mondo portano il sigillo dell’invisibile. Le tombe sono più numerose delle case e i templi sono costruiti con criteri di solidità»; per poi concludere: «L’invisibile spiega l’uomo delle civiltà tradizionali come l’aria spiega l’uccello. La morte gli appare così familiare come il tramonto del sole, così pure è necessario il ciclo della sua redenzione quanto la sua nascita. L’iniziazione che subisce imprime nella sua carne il sigillo della Patria invisibile con riti identici da un capo all’altro dello spazio e del tempo, con un simbolismo sempre identico».
Lungo tutta la storia, questi riti manifestano con costanza il loro duplice carattere religioso e comunitario: il sociale era sacro. Lavorare o morire per la città era un atto religioso.
Per cogliere bene la nozione di liturgia, che ci sembra così familiare, bisogna percepire che le sue radici affondano in un terreno culturale antichissimo. Quando l’uomo della città antica s’incaricava di equipaggiare una nave da guerra, o meglio quando scriveva una composizione in onore degli dèi, come quella de I Persiani, nella quale Eschilo celebra la vittoria di Salamina, questa specie di prestazione pubblica al servizio dello Stato riceveva il nome di Leitourgia (da laos, popolo, ed ergon, opera) da cui deriva il termine «liturgia». Preso nella sua accezione originaria, il termine liturgia significa dunque sia carica, funzione sacra, ministero pubblico, e così si capirà meglio che la liturgia, è essenzialmente un atto sociale.
Eccoci prossimi a una definizione della liturgia; essa è, ci dice dom Prosper Guéranger, «l’insieme dei simboli, dei canti e degli atti secondo i quali la Chiesa esprime e manifesta la sua religione verso Dio». L’abate di Solesmes insiste: «(Essa) non è semplicemente la preghiera, ma la preghiera considerata come atto sociale» [1].
Nell’enciclica Mediator Dei Pio XII aggiunge una precisazione che mette in luce il ruolo regale e sacerdotale di Cristo in ogni atto liturgico: «La santa liturgia è il culto pubblico che il nostro Redentore rende al Padre come capo della Chiesa… è il culto integrale del Corpo mistico di Gesù Cristo, cioè del Capo e dei suoi membri».
Si potrebbero unire le due definizioni e racchiudere tutto in una formula che esalta l’unione nuziale di Cristo con la sua Chiesa. Si dirà allora che la liturgia è il canto dello Sposo e della Sposa.

[1] Istituzioni liturgiche, cap. 1.

[Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), Le patrimoine de l'humanité, in Benedictus. Ecrits Spirituels. Tome I, Editions Sainte-Madeleine, Le Barroux 2009, pp. 236-239, trad. it. delle monache benedettine del Monastero San Benedetto di Bergamo]

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