mercoledì 25 agosto 2010

Un itinerario tra storiche abbazie. Da Solesmes a Fontgombault

Solesmes è un grazioso villaggio bretone, adagiato sulle rive della Sarthe, che s'incontra appena fuori la cittadina di Sablé nella direzione di Joigny. Costeggiando il fiume si vedono d'improvviso spuntare, dalla rigogliosa vegetazione di pioppi e salici, i pinnacoli e gli arditi spioventi d'imponenti edifici che evocano la grandiosità del palazzo dei Papi ad Avignone. Rifatta in stile gotico, ormai da quasi due secoli, la millenaria abbazia benedettina di Saint-Pierre — ricorre proprio quest'anno il millennio della sua fondazione — specchia la propria facciata nord nelle placide acque della Sarthe e cela tra torri e contrafforti la radice ben più antica, del monastero. Nell'abbaziale si distinguono la navata dell’XI secolo e il transetto del XV con i celeberrimi gruppi scultorei dei santi di Solesmes. Ma l'abbazia oggi è famosa ai più per l'operazione culturale di «restauro» del canto gregoriano. Allorquando nell'agosto del 1986, con un gruppo di amici, intrapresi un viaggio a Solesmes nulla sapevo di quale magnifico posto fosse per natura e per paesaggio, nessuna fotografia mi era nota degli edifici abbaziali; anzi fu per caso che, la vigilia della partenza, scoprimmo che il Solesmes verso il quale ci saremmo dovuti dirigere non era nei pressi di Cambrai. La mia conoscenza si limitava a un nome posto in calce a un librone dalla copertina nera con le pagine rosse donatomi, il giorno del mio ingresso in seminario, da un sacerdote cieco, a conoscenza della mia passione per la musica. Quel Liber usualis aveva un fascino del tutto particolare vergato com'era a matita dal sacerdote che da seminarista, prima della cecità, evidentemente l'usava. Non avevo ancora appreso dagli studi di liturgia che l'abbazia era famosa per quel dom Prosper Guéranger che l'aveva rifondata e che si era strenuamente opposto alla diffusione del rito neogallicano radicatosi in Francia all'indomani del concilio di Trento. Non sapevo che Guéranger era, di fatto, l'iniziatore di quel movimento liturgico che attraversò tutto il XX secolo giungendo fino al Vaticano II, e quindi fino a noi, seppure in modo diverso da come lui aveva pensato. Non sapevo che scopo della sua vita fu il recupero per tutta la Chiesa latina della liturgia romana nel suo uso più puro. Mi spinse a partire solo la consapevolezza che se un'abbazia cura e stampa libri come l’Usualis, in quell'abbazia la liturgia doveva manifestarsi come il punto di convergenza della vita di fede di un cristiano. La sorpresa fu grande. Scoprii una comunità numerosa come non avevo mai visto. Scoprii che il canto gregoriano era la forma normale della liturgia monastica delle ore e della messa in latino celebrata solennemente tutti i giorni con il messale di Paolo VI. Mi colpirono i monaci nel loro dir messa, silenziosamente, la mattina presto nelle cappelle. Il posto mi piacque: vi tornai molte volte anche per l'amicizia che i monaci mi dimostravano. Una volta notai in coro due giovani monaci con una rasatura di capelli diversa dagli altri — componeva una specie di corona intorno al capo — che li faceva manifestamente appartenenti a un altro monastero. Mi si disse che portavano la tonsura dei monaci dell'abbazia Sainte-Madeleine di le Barroux, un luogo dove si celebrava con il messale antico, e che erano lì ad apprendere il canto gregoriano. Udii per la prima volta, che nella Chiesa cattolica, in qualche parte del mondo, il messale di san Pio V era vivo. In quegli anni di studio della teologia sentivo, sì, parlare del rito antico e del suo messale, ma come qualcosa di superato e morto, in termini pressoché negativi. Fu una vera sorpresa trovarmi innanzi due monaci «vivi», appartenenti a un monastero «vivo», che non celebravano qualcosa di morto e nella Chiesa cattolica. L'amico monaco vide il mio stupore e un po' a malincuore aggiunse che pure un'abbazia dipendente da Solesmes aveva ripreso l'usus antiquior del messale: Notre-Dame di Fontgombault. Pensai che prima o poi sarei andato anche là: se un semplice Liber usualis mi aveva portato a Solesmes, due monaci in carne e ossa, testimoni di un mondo dato per morto, non erano da trascurare. A Fontgombault ci andai per la settimana santa del 2002. Arrivai sul far della sera quando in chiesa la comunità dei monaci, numerosa più di Solesmes, cantava il vespro. Il canto dei monaci elevava un mirabile inno alla bellezza dell'Onnipotente perfettamente aderente alla costruzione in pietra dell'abbaziale. Nell'intatta abside romanica del XII secolo innestata nel transetto, con il coro a deambulatorio su colonne sormontate da un'elegante tribuna si aprivano le cappelle radiali — dai giardini dell'abbazia il giro delle absidi trasmette un'emozione straordinaria. La solenne austerità delle tre navate, sebbene frutto dell'imponente restauro ottocentesco seguito alla rovina in cui versò l'abbazia dopo la rivoluzione, s'accordava perfettamente alle parti più antiche. La monumentale luminosità di quell'architettura mi comunicava la stessa trasparenza e forza che governano il pensiero della Summa Theologiae di Tommaso d'Aquino o la poesia della Commedia di Dante Alighieri. L'apprensione carica d'interrogativi circa il rito antico che m'aveva accompagnato fin lì s'attenuò già in quel primo vespro in cui non vidi nulla di strano rispetto a Solesmes. La tensione si sciolse la mattina seguente allorquando vidi la lunga fila dei sacerdoti celebrare, come a Solesmes e a San Pietro in Vaticano, la messa privata sugli innumerevoli altari della chiesa. Ogni perplessità si dileguò alla messa conventuale. La celebrazione del divin sacrificio, salvo che per l'orientamento della preghiera del sacerdote all'altare, il canone in silenzio e qualche altra piccola variazione, m'apparve non molto differente dalle messe di Solesmes. Scomparso ogni timore sentivo anche irrazionale l'ostracismo riservato all'usus antiquior del messale. Al mio ritorno da Fontgombault un sacerdote non più giovane, che aveva dimostrato preoccupazione per quel mio soggiorno, rimase perplesso nell'udire che avevo trovato un comunità intensa e giovane che pregava con fede, un monastero del tutto normale e a proprio agio con un rito che m'appariva in nulla eccentrico e sorpassato. Quando posso a Solesmes, a Fontgombault e a Le Barroux ci torno sempre volentieri.

[Mons. Marco Agostini (cerimoniere pontificio, officiale della seconda sezione della Segreteria di Stato), L'Osservatore Romano, 14 agosto 2010]

Share/Save/Bookmark