mercoledì 11 luglio 2012

San Benedetto e la città armoniosa / terza e ultima parte

Il padre

Pensiamo che questa gioia purissima, fatta di carità e di tenerezza, abbia per principio un disegno particolarissimo di Dio sull’Ordine di san Benedetto, visibile soprattutto attraverso il carattere paterno di un’autorità la cui dolcezza tempera il rigore del combattimento spirituale. Il dispiegamento di questa grazia è stato possibile perché essa ha attraversato, per giungere sino a noi, il cuore di un padre. È questo il nostro terzo punto. Senza soffermarci sull’assai verosimile influenza romana del paterfamilias sull’istituzione benedettina – influenza così spesso e giustamente invocata –, come non percepire il carattere di potenza paterna dell’autorità, al contempo biblica e romana, così come l’ha concepita il nostro santo legislatore? Le prime parole del prologo della Regola non sono forse “Ascolta, figlio mio, […] accogli volentieri i consigli ispirati dal suo amore paterno”? La chiave di volta della famiglia monastica come essa appare nelle Regola, è l’autorità paterna dell’abate. Ci si trova davanti a una specie di sacramento della bontà di Dio. Per designare il soggetto dell’autorità monastica, la regola ha mantenuto la parola ebraica abba, che vuol dire padre, un termine che ritroviamo ripetutamente sulle labbra di Gesù, un titolo dato agli anziani presso i monaci del deserto, un titolo infine che è confluito nel vocabolario religioso ed ecclesiale per designare semplicemente i sacerdoti, come se ogni autorità non potesse che essere paterna. La parola “autorità”, d’altro canto, che ha la medesima radice del verbo latino augere, auctum (aumentare), suggerisce l’idea di crescita, di elevazione, di sviluppo. Non vediamo con ciò nobilitata la nozione d’autorità? L’autorità essendo non quello che opprime, ma che libera, ciò che fa essere di più. L’autorità paterna sprigiona le forze della crescita che l’infanzia contiene.
Due eccessi si oppongono all’educazione dell’uomo: da una parte la volontà di potenza di un’autorità abusiva che annichila le forze in crescita del piccolo essere umano; e dall’altra l’eccesso inverso, l’assenso lassista davanti alle spinte anarchiche dello sviluppo infantile. La Regola di san Benedetto e lo spirito del grande patriarca soggiacente a quattordici secoli di tradizione monastica, evitano questi due scogli mediante la congiunzione di due forze vitali: quella della bontà paterna e quella della pietà filiale, l’una davanti all’altra, come il dito di Dio raggiunge l’indice del primo uomo svegliandolo alla vita, come appare nel grande affresco della Cappella Sistina.
Poiché noi siamo qui per ricordarci delle gentilezze che, avendo attraversato il cuore di un padre, sono giunte fino a noi, ci pare che non possiamo fare di meglio per rendere grazie, che essere – nell’accezione piena del termine – riconoscenti: si tratta di ri-conoscere, di conoscere meglio, di procedere oltre nell’atto di conoscenza che è la condizione della gratitudine.
Signore Dio, Padre di Nostro Signore Gesù Cristo, siate benedetto, voi che ci avete donato in san Benedetto un’immagine della vostra sapienza e della vostra bontà, voi che gli avete ispirato di cercare “di essere più amato che temuto”; di fare “trionfare la misericordia sulla giustizia”; di “detestare i vizi, ma amare i suoi fratelli” e di mostraci il cammino della “carità, che quando è perfetta, scaccia il timore”; voi che, per mezzo di lui, ci avete esortati a “correre per la via dei precetti divini col cuore dilatato dall’indicibile sovranità dell’amore”; voi che avete ispirato a tutti i discepoli del patriarca dei monaci una tenera sollecitudine per i piccoli e gli anziani, per gli ospiti e i pellegrini e soprattutto per i più poveri – perché in essi principalmente noi vediamo un’immagine del vostro figlio Gesù Cristo –, siate benedetto per sempre.
Cari amici e fratelli oblati, benediciamo insieme il Signore di avere suscitato Benedetto come il virgulto della primavera della Chiesa, nel momento in cui le ondate barbariche si abbattevano sull’Impero e sui miasmi di una civiltà decadente. In maniera tale che l’Ordine benedettino, fedele alle sue origini, possa continuare la sua missione, ovvero di richiamare senza sosta al mondo che invecchia che, per la fioritura gioiosa delle virtù del Vangelo e per la dolcezza della sua liturgia – malgrado il crollo di un mondo di cui Satana accelera la rotta –, il Regno di Dio è fra noi. Quel Regno che Gesù ci dipinge come delle nozze, come un banchetto e come una famiglia in festa; quel Regno di cui Gesù ci ha aperto le porte mediante il sangue della Croce; quel Regno nel quale lo stesso Signore asciugherà tutte le lacrime dagli occhi, in cui l’armonia rimpiazzerà il caos; quel Regno interamente di pace, di luce e di amore è già instaurato, è già presente nelle anime pure. Non resta che a noi, se la nostra fede è ancora viva, se il nostro cuore è ancorato nella santa speranza, di fare della nostra vita un’anticipazione dell’eternità; non rimane che a noi, giorno dopo giorno, nella freschezza dell’amore che perdona, non resta che a noi, ogni mattino, di risvegliarci nel Paradiso.

[Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), La cité harmonieuse, 25 luglio 1987, in Benedictus. Tome III. Lettres aux oblats, Éditions Sainte-Madeleine, Le Barroux 2011, pp. 31-42 (qui pp. 39-42), trad. it. di fr. Romualdo Obl.S.B. / 3 - fine]

Share/Save/Bookmark