lunedì 8 gennaio 2018

Frutti della grazia del motu proprio Summorum Pontificum per la vita monastica e la vita sacerdotale / terza parte

I gesti

Mentre abbiamo sottolineato l’aspetto contemplativo della forma extraordinaria, può sembrare paradossale soffermarci ora al posto del corpo, sollecitato da un gran numero di gesti: genuflessioni, riverenze, segni di croce. La liturgia è un’azione!
Osserviamo che la giornata monastica associa anch’essa ampiamente il corpo alla preghiera, in una liturgia che si estende dal mattino alla sera.
Il mondo, peraltro così attivo, si è accomodato a uno svilimento del gesto, accentuato dai mezzi moderni di comunicazione. In maniera paradossale, l’uomo moderno si muove, è più attivo, ma svolge meno gesti. La riforma liturgica aveva in un certo senso anticipato questo fenomeno della società. Al contrario, come non notare l’importanza che il Signore dà ai gesti, sia nei suoi miracoli sia nei suoi rapporti con il prossimo (“Chi mi ha toccato?”, dice a riguardo della donna che aveva perdite di sangue, Lc 8,45). La fede del sacerdote, quella dei fedeli, guadagnano alla presenza dei segni sensibili, compiuti in verità, al fine di essere stimolati, attenti, presenti (cfr. san Tommaso d’Aquino, Summa Theologica, IIIa Q.85, a.3).
A partire dalla consacrazione, i gesti, compiuti attorno alle specie del pane e del vino, imprimono fino nel corpo il richiamo costante della realtà del Calvario rappresentato e reso realmente presente. A condizione di dare a ciascuno di essi, senza affettazione, il peso del significato spirituale che gli conviene, il corpo si associa in maniera intensa allo spirito e all’anima, incarnando la parola, manifestando l’umiltà di colui che è di fronte al mistero di Dio presente. Il timore reverenziale s’installa allora nel cuore, dando all’uomo il suo giusto posto. La messa non è solo una cena, è anche un sacrificio.
Compiuti in maniera negligente, questi stessi gesti accuseranno senza pietà il ministro.
Attraverso la celebrazione della forma extraordinaria, i sacerdoti riscopriranno l’importanza dell’ars celebrandi e sapranno trarne beneficio per una migliore celebrazione nell’una o nell’altra forma. “L’apparente minuzia richiesta dal rito… non spinge il celebrante in una rigida camicia di forza, ben al contrario, il sacerdote si trova in un quadro stabilito che non lascia spazio alle iniziative personali e gli dà quindi una grande libertà di spirito per essere attento al grande mistero che si compie sull’altare e di cui è il ministro e il servitore” (Dom Antoine Forgeot, premessa all’opuscolo di don Pierre-Emmanuel Desaint, Apprendre la célébration de la Messe basse selon le Missel de 1962, Editions Petrus a Stella, Abbaye Notre-Dame de Fontgombault 2009). Di fatto, la forma extraordinaria è più lunga, più esigente da apprendere. In seguito, essa libera il celebrante. Paradossalmente, la forma ordinaria – lasciando spazio a una maggiore libertà – può condurre a una certa esagerazione liturgica dannosa per l’incontro del Mistero nel suo spogliarsi.
Così scriveva san Giovanni Paolo II: “la Sacra Liturgia esprime e celebra l'unica fede professata da tutti ed essendo eredità di tutta la Chiesa non può essere determinata dalle Chiese locali isolate dalla Chiesa universale” (Ecclesia de Eucharistia, 51). A fortiori, essa non è la proprietà del sacedote o di un’équipe liturgica. Il rito liturgico va sempre recepito umilmente. Comprenderlo necessita la conversione evocata in esordio, che in prima battuta può respingere. Vi è là come un passo da fare nella fede, nella fiducia inoltre nella pedagogia della Chiesa, che sa come condurre l’uomo verso il mistero.
Per il monaco sacerdote, la ricchezza dei riti del messale tridentino è senza fine. È già difficile esprimere brevemente ciò che si sperimenta giorno dopo giorno lungo la vita nell’intimità che procura al monaco sacerdote la messa, quale che sia il rito; ma non meno difficile provare a mettere in luce ciò che apporta in quest’ambito un rito sapientemente codificato a partire da una tradizione di oltre dieci secoli e che ha forgiato così tanti santi.
Dal primo momento, le preghiere ai piedi dell’altare invitano a lasciare la parte anteriore del tempio – il profano – per raggiungere il luogo santo, l’altare di Dio: Introibo ad altare Dei. Il sacerdote è chiamato a fare propria l’angoscia del giardino degli ulivi: Judica me, Deus, et discerne causam meam de gente non sancta... tristis est anima mea... Egli è al contempo nell’anima del Salvatore e in quelle di tutti i peccatori, compassionevole per la loro miseria e presentandola al sangue redentore. Bisognerebbe seguire i riti passo dopo passo: numerosi commentatori lo hanno fatto, in particolare nel Medioevo; poi sono stati screditati da sapienti liturgisti, che sezionando le cause storiche dei riti, hanno dimenticato che lo Spirito Santo opera per mezzo delle cause seconde e può fare adottare certi gesti o talune formule per ragioni certamente umanamente spiegabili, ma dando loro un significato e delle conseguenze spirituali molto più profonde di quanto la ragione immediata non può lasciare intendere.
Da questo punto di vista, la riscoperta del messale del 1962 è stata vissuta dai monaci di Fontgombault come un arricchimento. Che invito, per il monaco che non ha null’altro da fare che lasciarsi prendere dal mistero e trascorrervi del tempo…
Consentitemi una riflessione in vista di un esame di coscienza. L’argomento che consente di stabilire che il messale del 1962 non può essere abrogato è la natura della riforma, che rimodella profondamente quel messale e in cambio gli dà il diritto di sussistere come tale. Nella lettera ai vescovi di Benedetto XVI in occasione della pubblicazione del motu proprio, è scritto: “Nella storia della Liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura. Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso. Ci fa bene a tutti conservare le ricchezze che sono cresciute nella fede e nella preghiera della Chiesa, e di dar loro il giusto posto”. Perché tante ricchezze lasciate da parte, si dice oggi? La vera domanda non sarà piuttosto: perché tanti sacerdoti che all’epoca celebravano secondo il messale del 1962 non hanno avuto coscienza di svendere l’eredità liturgica della Chiesa? Celebrare un rito quindi non basta? Hanno incontrato abbastanza il mistero?
Con il motu proprio Summorum Pontificum Benedetto XVI invita a correggere due errori liturgici: il razionalismo che disseziona e il formalismo rubricista.
Ricordiamo inoltre il primo articolo del motu proprio, in cui è detto: “Queste due espressioni della ‘lex orandi’ della Chiesa non porteranno in alcun modo a una divisione nella ‘lex credendi’ (‘legge della fede’) della Chiesa”. Di fatto, la Chiesa cresce come prega. L’unità del rito che si esprime sotto due forme partecipa dell’unità della fede. Al contempo, ogni forma ha il dovere di esprimere al meglio l’unità del rito, e così di partecipare dell’unica fede. Se il Concilio Vaticano II ha promosso un’apertura della Chiesa al mondo, gli ultimi Papi hanno altresì ricordato che quest’apertura non poteva andare a scapito della confessione integrale del mistero di Dio e di Gesù Cristo, senza correre il rischio per la Chiesa di diventare una semplice ONG (cfr. la prima omelia di Papa Francesco, 14 marzo 2013).

La Messa letta

Un ultimo punto merita di essere affrontato, riguardante l’uso della concelebrazione. Dopo avere ricordato che la concelebrazione “manifesta in modo appropriato l’unità del sacerdozio”, la costituzione Sacrosanctum Concilium (nn. 57-58) ne ha esteso la facoltà, sebbene entro limiti precisi e relativamente ristretti (n. 57). In ambito monastico, il testo è stato inteso come un invito alla concelebrazione quotidiana.
Questa facoltà ormai quasi generalizzata ha semplificato e concentrato il lavoro dei sacristi. Ha altresì decongestionato l’impiego del tempo mattutino dei monaci.
Forse sarebbe necessario chiedersi se questi non soffrono in cambio di un detrimento alla loro pietà liturgica?
Tenere ogni giorno nelle proprie mani l’ostia santa e immacolata, il calice prezioso del sangue del Signore, sostenere l’azione della messa, il dialogo con il Padre eterno, o partecipare a una concelebrazione con i propri fratelli, non sono affatto la medesima cosa. Nel caso di una comunità numerosa, il monaco sacerdote può sperare di presiedere tuttalpiù una decina di volte l’anno la messa conventuale.
Al contrario, al termine dei lunghi uffici di Mattutino e delle Lodi, la celebrazione quotidiana di messe lette da ciascuno dei sacerdoti, compie come la conclusione naturale la preghiera diurna e apre alla comunione sacramentale e ai santi misteri che nutrono la Chiesa. È a questa comunione, spirituale questa volta, che l’assistenza alla messa conventuale diurna convoca i monaci.
In questo senso il motu proprio favorisce la pietà liturgica mediante un ritorno delle messe lette. Sembra tuttavia che ciò sia stato poco recepito in ambiente monastico.
In conclusione di questa prima indagine, la forma extraordinaria appare come rivolta a Dio, sollecitando l’uomo al contempo nella grandezza e nella debolezza della sua umanità.

[Dom Jean Pateau O.S.B., Padre Abate dell’abbazia Notre-Dame di Fontgombault, “Fruits de la grâce du motu proprio Summorum Pontificum pour la vie monastique et la vie sacerdotale”, conferenza in occasione del V Convegno sul motu proprio Summorum Pontificum, dal titolo Il Motu proprio Summorum Pontificum di Benedetto XVI: Una rinnovata giovinezza per la Chiesa, svoltosi a Roma, presso la Pontificia Università San Tommaso d’Aquino, il 14 settembre 2017. Trad. it. di fr. Romualdo Obl.S.B. / 3 - continua (la prima parte qui; la seconda parte qui)]

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venerdì 5 gennaio 2018

L’Epifania più ricca del Natale?

Il tempo liturgico del Natale continua fino al 2 febbraio; occorrerebbe dunque che durante l’intero mese di gennaio noi potessimo respirarne il profumo e, con l’aiuto dei testi del messale e dell’antifonario, orientassimo lo sguardo della nostra anima verso il miracolo della nascita di Dio. Ma abbiamo quella che chiamerei la devozione ai testi?

[...]

Natale è l’esplosione di una gioia popolare interamente volta all’ammirazione e alla gratitudine. La nascita del Salvatore, dopo i secoli dell'attesa, è l’aurora della nostra speranza, il principio di un ottimismo che ricorda, ogni 25 dicembre, che gli angeli cantavano sopra la stalla di Betlemme. Ma l’Epifania commemora la manifestazione del Signore ai Magi, il suo battesimo nel Giordano e il suo primo miracolo a Cana. Perciò l’Epifania è strutturalmente più teologica del Natale. Non ci servirebbe a nulla celebrare la nascita di un salvatore se costui non si fosse rivelato a noi come oggetto di contemplazione e di conoscenza. Ora, questa manifestazione è l’essenza medesima del mistero dell’Epifania.
Ricordiamolo: Gesù Cristo si manifesta ai Magi, come Signore sovrano nell’ordine sociale delle grandezze terrestri.
Si manifesta come Re universale al livello dell’universo cosmico: una stella indica il luogo della sua nascita, egli cambia l’acqua in vino, e le pietre si creperanno al momento della sua morte.
Egli si manifesta come capo della Chiesa: “Sorgi, o Gerusalemme, sii raggiante: poiché la tua luce è venuta, e la gloria del Signore è spuntata sopra di te” (epistola della festa).
Come iniziatore dei sacramenti, quando santifica le acque del Giordano, simboleggiando le acque del battesimo; e a Cana, egli associa sua Madre alla dispensazione della grazia.
Ancora, egli appare come Signore allorizzonte della fine dei tempi: Ecco, giunge il sovrano Signore: e ha nelle sue mani il regno, la potestà e l’impero” (introito della festa).
Infine, alla teofania del Giordano, Dio Padre rivela Gesù come il Figlio eterno, oggetto della sua compiacenza: Questi è il Figlio mio, lamato: in lui ho posto il mio compiacimento”. L’Epifania è unentrata nel mistero della Trinità. Questa è linsondabile ricchezza del mistero.

[Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), Fragments autour de Noël, 12 gennaio 1992, in Benedictus. Tome III. Lettres aux oblats, Éditions Sainte-Madeleine, Le Barroux 2011, pp. 74-78 (qui 74 e 76-77), trad. it. di fr. Romualdo Obl.S.B.]

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venerdì 29 dicembre 2017

Frutti della grazia del motu proprio Summorum Pontificum per la vita monastica e la vita sacerdotale / seconda parte

Una forma volta a Dio, ma a misura d’uomo

Proseguiamo l’indagine sugli elementi propri della forma extraordinaria che favoriscono la presa di coscienza della presenza del sacro.

Il rito

Raccoglimento, adorazione, silenzio

In primo luogo, vengono le disposizioni di raccoglimento, di adorazione e di silenzio religioso. In tal senso, così scrive il cardinale Robert Sarah in La forza del silenzio:
“Vorrei fare un appello a una vera conversione! Cerchiamo con tutto il nostro cuore di diventare in ciascuna delle nostre celebrazioni eucaristiche ‘un’Ostia pura, un’Ostia santa, un’Ostia immacolata’! Non dobbiamo avere paura del silenzio liturgico. Come mi piacerebbe che i pastori e i fedeli entrassero con gioia in questo silenzio pieno di sacro rispetto e di amore del Dio indicibile. Come mi piacerebbe che le chiese fossero luoghi in cui regna il grande silenzio che annuncia e rivela la presenza adorata di Dio. Come mi piacerebbe che i cristiani, nella liturgia, potessero fare l’esperienza della forza del silenzio!” (La forza del silenzio, trad. it., Cantagalli, Siena 2017, n. 265, p. 163).
Queste righe sono illustrate dalla recita silenziosa del canone. Analogicamente, essa è nella forma extraordinaria ciò che è l’iconostasi per i nostri fratelli orientali: questo luogo, questo momento, è sacro.
Se i monaci di Fontgombault, dopo avere praticato per circa dieci anni il messale del 1969, hanno desiderato un ritorno al messale del 1962, è perché tale messale sembrava loro in particolare armonia con la vita monastica, la ricerca di Dio nel silenzio del chiostro, la comunione profonda in un cuore a cuore, preludio del faccia a faccia dell’eternità. Il carattere più contemplativo di questa forma promuove la dimensione verticale della liturgia, che è “cammino dell’anima verso Dio” (Benedetto XVI). Così, che gioia la riscoperta della liturgia dell’ottava di Pentecoste!

Ripetizioni e sobrietà

Secondariamente, osserviamo che il messale del 1962, come gli altri riti anteriori alla riforma liturgica, non teme le ripetizioni, i doppioni, le insistenze. Esso si prende il suo tempo, perché l’uomo ha bisogno del tempo, sollecitando instancabilmente uno spirito errante per riportarlo all’essenziale.
Il Vangelo c’insegna che la Vergine Maria meditava conservando fedelmente nel suo cuore (cfr. Lc 2,19;51) gli avvenimenti che segnarono la nascita del suo Figlio. Ugualmente dev’essere per il contemplativo, per il monaco: non multa sed multum, non la quantità, ma la qualità.
Amica della tradizione monastica, Hélène Lubienska de Lenval (1895-1972) sosteneva una pedagogia fondata essenzialmente sul silenzio e i riti. Così scriveva:
“La liturgia è lenta: essa ama la minuzia, le ripetizioni e i preparativi interminabili. Essa trae il suo ritmo dalla pedagogia divina che ha modellato il popolo eletto per mezzo di un rituale lento e minuzioso. Quando si affretta sotto la pressione della vita moderna – frenetica perché infeodata alla materia – essa perde la sua efficacia psicologica e diventa formale… Essa resta operante là ove mantiene il suo proprio ritmo, presso i monaci. La liturgia combatte al contempo la pesantezza dei muscoli e l’impazienza dei nervi; essa impone al medesimo tempo il movimento e la lentezza. Ed è attraverso la lentezza che la liturgia domina il tempo. Perché tempo e materia sono correlati, e non si può vincere l’uno senza l’altro. L’uomo moderno va in senso inverso e cerca di sventare il tempo con la velocità. Ahimè, lungi dal dominare la materia, vi s’impantana” (L’entraînement à l’attention, Spes - Centre d’études pédagogiques, Parigi 1953, pp. 85- 86).
Aggiungiamo una riflessione a proposito del lezionario del messale del 1962, ritenuto povero. L’arricchimento della lettura della Sacra Scrittura uscita dalla riforma liturgica, la lunghezza di talune pericopi, non saranno di ostacolo alla contemplazione? Certamente, i laici che hanno sempre meno tempo da dedicare alla lectio divina, forse anche i sacerdoti secolari, schiacciati dal ministero, ne trarranno profitto. Per i monaci, l’abbondanza e la varietà delle letture, gustate da alcuni e sicuramente non senza valore, appaiono piuttosto generalmente come eccessive. Questo partito preso sacrifica la ripetizione delle pericopi rilette, ruminate, imparate a memoria, mai esaurite. La moltiplicazione dei Prefazi potrebbe suscitare un’analoga riflessione. Il cardinale Ratzinger ha suggerito saggiamente “alcuni nuovi prefazi della Messa, un lezionario esteso – più scelta di prima, ma non troppa” (Lettera al prof. Heinz-Lothar Barth del 23 giugno 2003), ciò che potrebbe essere adottato nella forma extraordinaria: non multa sed multum. La sobrietà invita alla contemplazione.

L’offertorio

Fra le ricchezze del messale del 1962, molti sottolineano la profondità delle preghiere dell’offertorio. Come scrive il cardinale Sarah, “[esso] è, però, il momento in cui, come indica il suo nome, tutto il popolo cristiano si offre, non solo insieme a Cristo, ma in Lui, mediante il suo sacrificio che sarà realizzato nella consacrazione” (La forza del silenzio, cit., n. 266, p. 164).
Suscipe sancte Pater... quam ego indignus famulus tuus... In spiritu humilitatis et animo contrito... Grandezza del mistero, del sacro, e umile condizione del servitore di cui il Signore vuole avere bisogno, si affiancano. Sarà così fino al Placeat finale: sacrificium quod oculis tuae majestatis indignus obtuli.


[Dom Jean Pateau O.S.B., Padre Abate dell’abbazia Notre-Dame di Fontgombault, “Fruits de la grâce du motu proprio Summorum Pontificum pour la vie monastique et la vie sacerdotale”, conferenza in occasione del V Convegno sul motu proprio Summorum Pontificum, dal titolo Il Motu proprio Summorum Pontificum di Benedetto XVI: Una rinnovata giovinezza per la Chiesa, svoltosi a Roma, presso la Pontificia Università San Tommaso d’Aquino, il 14 settembre 2017. Trad. it. di fr. Romualdo Obl.S.B. / 2 - continua (la prima parte qui)]

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lunedì 4 dicembre 2017

Ordo Divini Officii 2018

Domenica 3 dicembre 2017 è iniziato il Tempo dell’Avvento ed è perciò entrato in vigore il nuovo calendario liturgico. Per quanti desiderano recitare l’Ufficio monastico – che, lo ricordiamo, può essere ascoltato in diretta – e seguire il calendario liturgico nella forma extraordinaria del Rito romano in uso presso l’abbazia Sainte-Madeleine di Le Barroux, è ora disponibile online in formato pdf l’Ordo Divini Officii 2018 (il cui link permanente rimane durante l’anno anche nel menu “Liturgica” del blog Romualdica).













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giovedì 23 novembre 2017

L’anima del monaco

Giovanni Nardini, L’anima del monaco. Vita nell’Eremo di Minucciano, Pezzini Editore, Viareggio (Lucca) 2017, 96 pp. in grande formato. Con testi di Fra Mario Rusconi, Don Mauro Lucchesi, Angela Rosi, Giovanni Nardini.

[Dalla presentazione redazionale:] Il libro, composto da 83 immagini, ci conduce in uno dei luoghi più suggestivi della Garfagnana: l’Eremo di Minucciano, l’ultimo eremo abitato da monaci eremiti che si ispirano alla regola benedettina dell’Ora et Labora. Nardini ha avuto il permesso/privilegio di entrare in questo luogo riservato e attraverso intensi scatti in bianco e nero ci rappresenta i momenti della vita di ogni giorno: la preghiera, la lettura, le varie attività lavorative, fino ai momenti di meditazione nelle celle dei monaci. Osservando i volti, i gesti di questi monaci, si avverte una luce particolare, che la foto mette in risalto, ma che è la luce della quiete e dell’interiorità, la luce dell’“anima del monaco”. Nardini è entrato con rispetto e delicatezza in questo mondo e con lo stesso rispetto e accortezza accompagna prendendo per mano chi questa realtà non la conosce e ha il piacere di scoprirla tramite l’incanto delle sue fotografie.








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martedì 14 novembre 2017

«Chi è l’uomo che vuole la vita e desidera vedere giorni felici?»

[...] Nel tramonto della civiltà antica, mentre le glorie di Roma divenivano quelle rovine che ancora oggi possiamo ammirare in città; mentre nuovi popoli premevano sui confini dell’antico Impero, un giovane fece riecheggiare la voce del Salmista: «Chi è luomo che vuole la vita e desidera vedere giorni felici?» (Regola, Prologo, 15; cfr. Sal 33,13). Nel proporre questo interrogativo nel Prologo della Regola, san Benedetto pose all’attenzione dei suoi contemporanei, e anche nostra, una concezione dell’uomo radicalmente diversa da quella che aveva contraddistinto la classicità greco-romana, e ancor più di quella violenta che aveva caratterizzato le invasioni barbariche. L’uomo non è più semplicemente un civis, un cittadino dotato di privilegi da consumarsi nell’ozio; non è più un miles, combattivo servitore del potere di turno; soprattutto non è più un servus, merce di scambio priva di libertà destinata unicamente al lavoro e alla fatica.
San Benedetto non bada alla condizione sociale, né alla ricchezza, né al potere detenuto. Egli fa appello alla natura comune di ogni essere umano, che, qualunque sia la sua condizione, brama certamente la vita e desidera giorni felici. Per Benedetto non ci sono ruoli, ci sono persone: non ci sono aggettivi, ci sono sostantivi. È proprio questo uno dei valori fondamentali che il cristianesimo ha portato: il senso della persona, costituita a immagine di Dio. A partire da tale principio si costruiranno i monasteri, che diverranno nel tempo culla della rinascita umana, culturale, religiosa ed anche economica del continente.
[...] È proprio quanto fece san Benedetto, non a caso da Paolo VI proclamato patrono d’Europa: egli non si curò di occupare gli spazi di un mondo smarrito e confuso. Sorretto dalla fede, egli guardò oltre e da una piccola spelonca di Subiaco diede vita ad un movimento contagioso e inarrestabile che ridisegnò il volto dell’Europa. Egli, che fu «messaggero di pace, realizzatore di unione, maestro di civiltà» (Paolo VI, Lett. ap. Pacis Nuntius, 24 ottobre 1964), mostri anche a noi cristiani di oggi come dalla fede sgorga sempre una speranza lieta, capace di cambiare il mondo.

[Estratto del discorso di Papa Francesco ai partecipanti alla Conferenza (Re)Thinking Europe. Un contributo cristiano al futuro del progetto europeo, promosso dalla Commissione degli Episcopati della Comunità Europea (COMECE) in collaborazione con la Segreteria di Stato, del 28 ottobre 2017]

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martedì 7 novembre 2017

La contentezza

S.Em. il card. Robert Sarah in visita all’abbazia
Notre-Dame de l’Annonciation (Le Barroux), il 16 agosto 2017
Cari amici,
È stato scritto che la più grande confraternita del mondo è quella degli scontenti. Chi non ne fa parte? È così naturale osservare cosa non funziona nel mondo! “Scontento di tutti e scontento di me”, notava Baudelaire. Non stiamo parlando di una giusta indignazione di fronte al male – come sarebbe per esempio la tristezza ispirata dalla perdita delle anime –, ma di uno stato dello spirito insoddisfatto, del sentimento penoso di essere frustrati nelle proprie aspirazioni, nei propri diritti.
Da dove viene questo nostro essere scontenti? Abbiamo ricevuto grandi doni, ne riceviamo continuamente. Ma anziché accontentarci della realtà, restiamo insoddisfatti di ciò che abbiamo, spesso perché ci paragoniamo agli altri. Siamo come incapaci di trovare la gioia in quanto possediamo. Percepisco nella stia un’immagine di questa avidità: dei polli beccano con gioia; vedendo che i loro congeneri ricevono qualcosa, costoro accorrono a gambe levate per assaggiarlo, dimenticando il bene di cui gioivano!
Quanto a noi, disponiamo di ragione e di volontà, dunque della capacità di rinunciare a certi desideri. Per prevenire la depressione, male del secolo, chi svilupperà una spiritualità dell’accontentarsi? Chi saprà essere soddisfatto dei doni di Dio e ringraziarlo? Costui conoscerà la festa di cui parla il Libro dei Proverbi: “per un cuore felice è sempre festa” (15,15). Un maestro dei novizi benedettino ha spiegato come assaporare questo pasto festivo: “Dico ai miei novizi: in monastero si è contenti di quello che si riceve. Ogni tanto, fate un’orazione di contentezza, passando in rassegna tutto ciò che avete ricevuto in monastero, pur avendo fatto voto di povertà”.
In effetti, nel capitolo sull’umiltà della Regola, san Benedetto dichiara che il monaco umile “si contenta”, perché considerandosi un servo inutile, si ritiene sempre ben trattato. Così commenta Dom Romain Banquet: “Essere contenti di tutte le cose: di Dio, di noi stessi per i doni che Dio ci ha lasciato, dei nostri superiori, dei nostri fratelli, della salute, della malattia, della vita e della morte. Sempre contenti, sempre: giacché è questo il carattere proprio e il fondo della vita religiosa”.
D’accordo, diranno taluni, ma Dom Romain parlava per i religiosi! Certo, ma questa spiritualità non affonda le sue radici nel Vangelo, in particolare nelle Beatitudini? Coloro che non pongono la loro felicità né nel denaro né nel piacere, ma nella volontà divina, costoro sono ricchi di gioia. L’amore di Gesù informa le loro sofferenze, le loro gioie, le loro delusioni, i loro successi. Dà senso a tutto. Sì, solo lo sguardo della fede ci permette di aderire al piano di Dio, spesso sconcertante per i nostri occhi umani. “Lo capirai dopo”, dice Gesù a san Pietro. Anche noi spesso è “dopo” che percepiamo la Sapienza che ci guida. Legata alle virtù teologali di fede, speranza e carità, la contentezza si impara, si chiede come una grazia. Con essa, la vita è così più dolce!
Era questa l’idea maestra di Chesterton, come lo scrittore testimonia nella sua autobiografia: “Non dirò che è la dottrina che ho sempre insegnato, ma è la dottrina che avrei sempre amato insegnare. Questa idea, è di accettare tutte le cose con gratitudine, e non di reputarle come dovute” (Gilbert Keith Chesterton, L’homme à la clef d’or, Les Belles Lettres, Paris, 2015, p. 416).
Cari amici, smettiamola di appartenere alla confraternita degli scontenti. Basta! Natale, la meravigliosa festa dei doni, si avvicina. Non è il momento di sacrificare tutto ciò che in noi si oppone alla gioia di Dio? Nella santa Notte, il nostro Padre del Cielo ci offrirà il suo unico Figlio. Possiamo noi donargli questa buona volontà che porta la pace sulla terra, dicendogli, al seguito del padre Bourdaloue: “Signore, non so se siete contento di me. Ma ciò che io posso dire, e sono felice di darne pubblica testimonianza, è che io sono molto contento di voi”.

[Madre Placide Devillers O.S.B., Abbadessa di Notre-Dame de l’Annonciation, Le Barroux, La Font de Pertus. Lettre des moniales, n. 107, 26 ottobre 2017, pp. 1-3, trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B.]

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