martedì 11 gennaio 2022

Pur stando così le cose, si comunicarono l’un l’altro

Fu sollevata in quel tempo una questione non indifferente, perché le diocesi di tutta l’Asia pensarono, in base ad una tradizione più antica, che si dovesse osservare per la festa della Pasqua del Salvatore il quattordicesimo giorno della luna, nel quale venne ordinato agli Ebrei di sacrificare l’agnello, e che in esso fosse assolutamente necessario porre fine al digiuno, qualunque fosse il giorno della settimana. Nelle Chiese di tutto il resto del mondo, invece, non v’era l’abitudine di celebrare in questo modo, poiché rifacendosi alla tradizione apostolica, esse mantennero l’usanza, conservatasi fino ad oggi, secondo cui non è giusto terminare il digiuno in un giorno diverso da quello della risurrezione del Salvatore.
A questo proposito si tennero numerosi sinodi ed assemblee di vescovi, e tutti all’unanimità formularono per lettera una regola ecclesiastica, per i fedeli di ogni nazione, in base alla quale il mistero della risurrezione del Signore non si sarebbe celebrato in altro giorno che in domenica, e in questa soltanto avremmo osservato la fine del digiuno pasquale.
Possediamo ancor oggi una lettera di quanti si riunirono allora in Palestina sotto la presidenza di Teofilo, vescovo della diocesi di Cesarea, e di Narciso, vescovo di Gerusalemme; e similmente ve n’è un’altra di quanti si riunirono a Roma per la stessa questione, che indica Vittore quale vescovo; e una dei vescovi del Ponto, presieduti da Palmas in qualità di più anziano; e una delle diocesi della Gallia, di cui era vescovo Ireneo;
e inoltre una dei vescovi dell’Osroene e delle città di quella regione; e specialmente quella di Bacchillo, vescovo della Chiesa di Corinto, e poi quelle di moltissimi altri che espressero una sola e identica opinione e decisione, e diedero lo stesso voto.
E una sola fu la determinazione dei suddetti: quella già riferita. Ma i vescovi dell’Asia, guidati da Policrate, continuarono a sostenere che era necessario mantenere l’usanza che era stata loro tramandata dall’antichità. Policrate stesso, nella lettera che scrisse a Vittore e alla Chiesa di Roma, espone in questi termini la tradizione pervenutagli:
“Celebriamo quindi scrupolosamente quel giorno, senza aggiungere né togliere niente. Grandi luminari riposano infatti in Asia. Essi risorgeranno il giorno della venuta del Signore, quando scenderà in gloria dai cieli a richiamare tutti i santi:
Filippo, uno dei dodici apostoli, è sepolto a Hierapolis con due sue figlie che si serbarono vergini tutta la vita, mentre la terza, vissuta nello Spirito Santo, riposa ad Efeso; e anche Giovanni, colui che si abbandonò sul petto del Signore, che fu sacerdote e portò il petalon, martire e maestro, giace ad Efeso;
e inoltre, a Smirne, Policarpo, vescovo e martire; e anche Trasea, vescovo e martire di Eumenia, riposa a Smirne.
Ed è necessario che parli di Sagari, vescovo e martire, sepolto a Laodicea, e del beato Papirio, e dell’eunuco Melitone, che visse sempre nello Spirito Santo, e giace a Sardi nell’attesa della visita dai cieli, nella quale risusciterà dai morti?
Tutti questi osservarono il quattordicesimo giorno della Pasqua in conformità col Vangelo, senza discostarsene, ma seguendo la regola della fede. E anch’io, Policrate, il più piccolo di tutti voi, vivo secondo la tradizione dei miei fratelli, di alcuni dei quali sono successore. Sette, infatti, sono stati vescovi, e io sono l’ottavo; e i miei fratelli hanno sempre celebrato il giorno in cui il popolo si astiene dal pane lievitato.
Perciò io, fratelli, che ho sessantacinque anni nel Signore e ho avvicinato i fratelli di tutto il mondo e ho letto tutta la santa Scrittura, non mi lascio intimorire da chi cerca di spaventarmi, perché questi uomini più grandi di me hanno detto: bisogna obbedire a Dio anziché agli uomini”.
Continua poi così dicendo a proposito dei vescovi che erano con lui quando scriveva e condividevano la sua opinione: “Potrei ricordare i vescovi che sono qui con me, che avete chiesto fossero da me convocati e che io ho convocato: i loro nomi, se li scrivessi, sarebbero un bel numero. Pur conoscendo la mia pochezza di uomo, essi hanno approvato la mia lettera, consapevoli che non porto invano i capelli bianchi, ma che ho vissuto sempre in Cristo Gesù”.
Allora Vittore, che presiedeva alla Chiesa di Roma, cercò immediatamente di escludere in massa dall’unità comune le diocesi di tutta l’Asia insieme con le Chiese vicine, in quanto eterodosse, e stigmatizzò con lettere tutti i fratelli indistintamente là riuniti, dichiarandoli scomunicati.
Ma questo dispiacque a tutti i vescovi, che a loro volta lo esortarono a pensare alla pace, all’unione e all’amore per il prossimo; e possediamo ancora le parole con cui essi rimproverarono piuttosto aspramente Vittore.
Tra loro anche Ireneo, scrivendo in nome dei fratelli cui era preposto in Gallia, raccomanda di celebrare soltanto di domenica il mistero della risurrezione del Signore, ma esorta poi opportunamente Vittore a non escludere intere Chiese di Dio perché mantengono una tradizione di antica consuetudine, e continua quindi dicendo:
“La controversia non è solamente sul giorno, ma anche sulla forma stessa del digiuno. Alcuni, infatti, ritengono di dover digiunare un solo giorno, altri due, altri più giorni ancora; certi, infine, calcolano il loro giorno di quaranta ore, tra diurne e notturne.
E una tale variazione nell’osservanza del digiuno non è sorta ai nostri giorni, ma molto prima, al tempo dei nostri predecessori, che, a quanto sembra, confermarono senza troppa precisione questa consuetudine basata su semplicità e preferenza personale, e la stabilirono per il futuro; ma nessuno visse mai meno in pace, e anche noi viviamo ora in pace gli uni con gli altri, e la differenza del digiuno conferma la concordia della fede”.
Ireneo aggiunge poi un’osservazione che mi pare appropriato riferire, ed è di questo tenore: “Tra loro vi furono anche i presbiteri anteriori a Sotero che presiedettero la Chiesa che tu governi ora, cioè Aniceto, Pio, Igino, Telesforo e Sisto, che non osservarono essi stessi il quattordicesimo giorno, né imposero la sua osservanza a quanti li seguirono, ma pur non osservandolo essi stessi, non furono affatto meno in pace con quanti giungevano tra loro dalle diocesi in cui esso veniva osservato. Eppure l’osservarlo era un contrasto ancora maggiore per coloro che non l’osservavano.
E nessuno fu mai respinto per questa ragione, ma anzi quegli stessi che non l’osservavano, cioè i presbiteri che ti hanno preceduto, inviarono l’Eucaristia a quelli delle diocesi che l’osservavano.
E quando il beato Policarpo soggiornò a Roma al tempo di Aniceto, pur avendo avuto l’uno con l’altro piccole divergenze su altre questioni, si rappacificarono subito, non desiderando essere in disaccordo su questo argomento. Aniceto non riuscì infatti a persuadere Policarpo a non osservare il quattordicesimo giorno, come aveva sempre fatto con Giovanni, discepolo del Signore nostro, e con gli altri apostoli con cui era vissuto; né Policarpo persuase Aniceto ad osservarlo, poiché quest’ultimo diceva che bisognava mantenere la consuetudine dei presbiteri a lui anteriori.
E pur stando così le cose, si comunicarono l’un l’altro, e nella Chiesa Aniceto concesse l’Eucaristia a Policarpo, evidentemente per riguardo, e si separarono l’uno dall’altro in pace, poiché tanto gli osservanti quanto i non osservanti avevano pace nell’intera Chiesa”.
E Ireneo fu degno del nome che portava, essendo paciere di nome e di fatto, ed esortò ed intercedette per la pace delle Chiese, poiché in merito alla questione sollevata discusse per lettera non solo con Vittore, ma anche, uno dopo l’altro, con numerosi altri capi di Chiese.

[Eusebio di Cesarea (260/265-339/340), Storia ecclesiastica, V 23-24]

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