venerdì 5 novembre 2021

Considerazioni sul motu proprio «Traditionis custodes»

L’intenzione del Papa, con il motu proprio «Traditionis custodes», è quella di mettere al sicuro o di ripristinare l’unità della Chiesa. Lo strumento proposto a tal fine è l’unificazione totale del rito romano nella forma del Messale di Paolo VI [1963-1978], con le variazioni che ha successivamente subito. Pertanto, la celebrazione della Messa nella forma straordinaria del rito romano, come introdotta da Papa Benedetto XVI [2005-2013] con il motu proprio Summorum pontificum, del 2007, sulla base del Messale esistente da Pio V [1566-1572], nel 1570, a Giovanni XXIII [1958-1963], nel 1962, è stata drasticamente limitata. Il chiaro intento è quello di condannare la forma straordinaria all’estinzione nel lungo periodo.
Nella sua Lettera ai vescovi di tutto il mondo, che accompagna il motu proprio, Papa Francesco cerca di spiegare i motivi che lo hanno indotto, in quanto insignito della suprema autorità della Chiesa, a limitare la liturgia nella forma straordinaria. Al di là della presentazione delle sue reazioni soggettive, però, sarebbe stata opportuna anche un’argomentazione teologica stringente e logicamente comprensibile. Perché l’autorità papale non consiste nell’esigere superficialmente dai fedeli una mera obbedienza, cioè una sottomissione formale della volontà, ma, molto più essenzialmente, nel permettere ai fedeli di essere convinti anche con il consenso della mente. Come disse san Paolo, garbato verso i suoi Corinzi spesso piuttosto indisciplinati, «ma in assemblea preferisco dire cinque parole con la mia intelligenza per istruire anche gli altri, che diecimila parole con il dono delle lingue» (1 Cor. 14, 19).
Questa dicotomia fra buona intenzione e cattiva esecuzione emerge sempre quando le obiezioni degli addetti competenti sono percepite come un ostacolo alle intenzioni dei loro superiori e, dunque, non vengono più neppure espresse. Per quanto graditi possano essere i riferimenti al Vaticano II, bisogna fare attenzione a che le affermazioni del Concilio siano usate con precisione e nel loro contesto. La citazione di sant’Agostino [354-430] sull’appartenenza alla Chiesa «secondo il corpo» e «secondo il cuore» (Lumen gentium, 14), si riferisce alla piena appartenenza alla Chiesa della fede cattolica. Essa consiste nell’incorporazione visibile al corpo di Cristo — comunione creaturale, sacramentale, ecclesiastico-gerarchica — e nell’unione del cuore, nello Spirito Santo. Ciò che questo significa, tuttavia, non è l’obbedienza al Papa e ai vescovi nella disciplina dei sacramenti, ma la grazia santificante, che ci coinvolge pienamente nella Chiesa invisibile come comunione con il Dio Trino.
Poiché l’unità nella confessione della fede rivelata e la celebrazione dei misteri della grazia nei sette sacramenti non richiedono affatto una sterile uniformità in una forma liturgica esteriore, come se la Chiesa fosse qualcosa di paragonabile a una delle tante catene alberghiere internazionali con i loro design omogenei. L’unità dei credenti fra di loro è radicata nell’unità in Dio attraverso la fede, la speranza e l’amore e non ha nulla a che fare con l’uniformità nell’aspetto esteriore, il passo di marcia di una formazione militare, o il pensiero di gruppo dell’era del «big-tech».
Anche dopo il Concilio di Trento [1545-1563] vi è sempre stata una certa diversità — musicale, celebrativa, regionale — nell’organizzazione liturgica delle Messe. L’intenzione di Papa Pio V non era quella di sopprimere la varietà dei riti, ma piuttosto di frenare gli abusi che avevano portato a una devastante mancanza di comprensione fra i riformatori protestanti riguardo alla sostanza del sacrificio della Messa: il suo carattere sacrificale e la Presenza Reale. Nel Messale di Paolo VI, l’omogeneizzazione ritualistica — detta anche rubricistica — viene spezzata, proprio per superare un’esecuzione meccanica a favore di una partecipazione attiva interiore ed esteriore di tutti i fedeli nelle loro rispettive lingue e culture. L’unità del rito latino, tuttavia, deve essere conservata attraverso la stessa struttura liturgica di base e il preciso orientamento delle traduzioni all’originale latino.
La Chiesa romana non deve scaricare la sua responsabilità per l’unità del culto sulle conferenze episcopali. Roma deve vigilare sulla traduzione dei testi normativi del Messale di Paolo VI, come anche dei testi biblici, che potrebbero oscurare i contenuti della fede. Le pretese di «migliorare» i verba domini — per esempio pro multis, «per molti», alla consacrazione, l’et ne nos inducas in tentationem, «e non ci indurre in tentazione», nel Padre Nostro — contraddicono la verità della fede e l’unità della Chiesa molto più che celebrare la Messa secondo il Messale di Giovanni XXIII. La chiave per una comprensione cattolica della liturgia sta nell’intuizione che la sostanza dei sacramenti è data alla Chiesa come segno visibile e mezzo della grazia invisibile in virtù della legge divina, ma che spetta alla Sede Apostolica e, in conformità alla legge, ai vescovi, ordinare la forma esteriore della liturgia, nella misura in cui non esiste già dai tempi apostolici (Sacrosanctum Concilium, 22 § 1).
Le disposizioni di Traditionis custodes sono di natura disciplinare, non dogmatica e possono essere nuovamente modificate da qualsiasi Pontefice futuro. Naturalmente il Papa, nella sua preoccupazione per l’unità della Chiesa nella fede rivelata, è da sostenere pienamente quando la celebrazione della Santa Messa secondo il Messale del 1962 è espressione di resistenza all’autorità del Vaticano II, cioè quando la dottrina della fede e l’etica della Chiesa sono relativizzate o addirittura negate nell’ordine liturgico e pastorale.
In Traditionis custodes il Papa insiste giustamente sul riconoscimento incondizionato del Vaticano II. Nessuno può dirsi cattolico se vuole tornare a prima del Vaticano II — o di qualsiasi altro concilio riconosciuto dal Papa —, identificato come il tempo della «vera» Chiesa, o se vuole lasciare alle spalle quella Chiesa che sarebbe solo stata un passo intermedio verso una «nuova Chiesa». Qualcuno potrebbe mettere a confronto la volontà di Papa Francesco di riportare all’unità i cosiddetti, deplorati «tradizionalisti» — cioè coloro che si oppongono al Messale di Paolo VI — con la sua determinazione a porre fine agli innumerevoli abusi «progressisti» della liturgia — rinnovata secondo i dettami del Vaticano II — che equivalgono ad atti di blasfemia. La paganizzazione della liturgia cattolica — che nella sua essenza non è altro che il culto del Dio Uno e Trino — attraverso la mitologizzazione della natura, l’idolatria dell’ambiente e del clima, così come lo spettacolo della Pachamama [la Madre Terra, in lingua amerindia quechua], sono stati piuttosto controproducenti per il ripristino di una liturgia dignitosa e ortodossa che rifletta la pienezza della fede cattolica.
Nessuno può chiudere gli occhi sul fatto che, oggi, vengono ampiamente denigrati come tradizionalisti anche sacerdoti e laici che celebrano la Messa secondo le rubriche del Messale di san Paolo VI. Gli insegnamenti del Vaticano II sull’unicità della redenzione in Cristo, la piena realizzazione della Chiesa di Cristo nella Chiesa Cattolica, l’essenza interna della liturgia cattolica come adorazione di Dio e mediazione della grazia, la Rivelazione e la sua presenza nella Scrittura e nella Tradizione Apostolica, l’infallibilità del Magistero, il primato del Papa, la sacramentalità della Chiesa, la dignità del sacerdozio, la santità e l’indissolubilità del matrimonio: tutto ciò viene ereticamente negato in aperta contraddizione con il Vaticano II da una maggioranza di vescovi e funzionari laici tedeschi, pur con il camuffamento di frasi a intento pastorale.
E, nonostante tutto l’apparente entusiasmo che esprimono per Papa Francesco, costoro stanno negando categoricamente l’autorità conferitagli da Cristo come successore di Pietro. Il documento della Congregazione per la Dottrina della Fede sull’impossibilità di legittimare le unioni omosessuali ed extra-coniugali attraverso una benedizione è ridicolizzato da vescovi, preti e teologi tedeschi — e non solo tedeschi — come mera opinione di funzionari curiali poco qualificati. Qui siamo di fronte a una minaccia all’unità della Chiesa nella fede rivelata, che ricorda per dimensioni la secessione protestante da Roma nel secolo XVI. Data la sproporzione fra la risposta relativamente modesta ai massicci attacchi all’unità della Chiesa presenti nella «via sinodale» tedesca — così come in altre pseudo-riforme — e il duro trattamento punitivo adottato nei confronti della minoranza legata al rito antico, viene in mente l’immagine del vigile del fuoco mal consigliato, che — invece di salvare la casa in fiamme — salva prima il piccolo fienile accanto ad essa.
Senza mostrare la minima forma di empatia, si ignorano i sentimenti religiosi dei partecipanti — spesso giovani — alle Messe secondo il Messale di Giovanni XXIII, del 1962. Invece di apprezzare l’odore delle pecore, il pastore qui le colpisce duramente con il suo bastone. Sembra anche semplicemente ingiusto abolire le celebrazioni del «vecchio» rito solo perché attira alcune persone problematiche: abusus non tollit usum.
Ciò che merita particolare attenzione in Traditionis custodes è l’uso dell’assioma «lex orandi-lex credendi», «regola della preghiera, regola della fede». Questa frase appare per la prima volta nell’Indiculus anti-pelagiano — Contro le superstizioni e il paganesimo — nel passo riguardante i «sacramenti delle preghiere sacerdotali, tramandati dagli apostoli per essere celebrati uniformemente in tutto il mondo e in tutta la Chiesa cattolica, così che la regola della preghiera è la regola della fede» ([HEINRICH] DENZINGER [e PETER] HÜNERMANN, Enchiridion symbolorum, 3). Ciò si riferisce alla sostanza dei sacramenti (in segni e parole), ma non al rito liturgico, esistendone diversi — e con diverse varianti — in epoca patristica. Non si può semplicemente dichiarare che l’ultimo Messale sia l’unica norma valida della fede cattolica senza distinguere fra la «parte che è immutabile in virtù dell’istituzione divina e le parti che sono soggette a cambiamenti» (Sacrosanctum Concilium, 21). I riti liturgici che cambiano non rappresentano una fede diversa, ma testimoniano l’unica e medesima fede apostolica della Chiesa nelle sue diverse espressioni.
La lettera del Papa conferma che questi permette la celebrazione secondo la forma più antica a certe condizioni. Egli indica giustamente la centralità del canone romano nel Messale più recente come cuore del rito romano. Ciò garantisce la continuità cruciale della liturgia romana nella sua essenza, nello sviluppo organico e nell’unità interna. Sicuramente, ci si aspetta che i cultori dell’antica liturgia riconoscano la liturgia rinnovata; così come i sostenitori del Messale di san Paolo VI devono anche confessare che pure la Messa secondo il Messale di san Giovanni XXIII è una vera e valida liturgia cattolica, cioè contiene la sostanza dell’Eucaristia istituita da Cristo e, quindi, vi è e può esservi solo «l’unica Messa di tutti i tempi».
Un po’ più di conoscenza della dogmatica cattolica e della storia della liturgia potrebbe scongiurare l’infelice formazione di partiti contrapposti e anche salvare i vescovi dalla tentazione di agire in modo autoritario, senza amore e con mentalità ristretta, contro i sostenitori della «vecchia» Messa. I vescovi sono designati come pastori dallo Spirito Santo: «Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge di cui lo Spirito Santo vi ha fatto custodi. Siate pastori della chiesa di Dio, che Egli si è comprata con il proprio sangue» (At. 20, 28). Essi non sono semplici rappresentanti di un ufficio centrale, con possibilità di avanzamento. Il buon pastore si riconosce dal fatto che si preoccupa più della salvezza delle anime che di raccomandarsi a un’autorità superiore con un «buon comportamento» servile. (1 Pt 5, 1-4) Se la legge di non contraddizione si applica ancora, non si può logicamente castigare il carrierismo nella Chiesa e allo stesso tempo promuovere i carrieristi.
Speriamo che le Congregazioni per i Religiosi e per il Culto Divino, con la loro nuova autorità, non si inebrino di potere pensando di dover condurre una campagna di distruzione contro le comunità del vecchio rito, nella sciocca convinzione che così facendo stanno rendendo un servizio alla Chiesa e promuovendo il Vaticano II.
Se la Traditionis custodes deve servire all’unità della Chiesa, ciò può significare solo un’unità nella fede, che ci permette di «giungere alla perfetta conoscenza del Figlio di Dio», cioè all’unità nella verità e nell’amore (cfr. Ef. 4, 12-15).

[Card. Gerhard Ludwig Müller, prefetto emerito della Congregazione per la Dottrina della Fede, trad. it. con l’autorizzazione dell’autore dell’articolo pubblicato su The Catholic Thing, il 19 luglio 2021, in Cristianità. Organo ufficiale di Alleanza Cattolica, anno XLIX, luglio agosto 2021, pp. 71-75. Le inserzioni fra parentesi quadre e il titolo sono redazionali]

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