Nell’ambito delicato della liturgia, in cui le
suscettibilità sono in agguato, il soggetto di questo intervento comporta un
vantaggio. Sganciato da ogni ideologia, esso si vuole risolutamente pragmatico.
Il contadino, quando pianta un seme, può avere un’ideologia. Quando raccoglie,
non è più lo stesso. Al contatto con il reale, con la natura, l’ideologia ha
contribuito alla nascita di un frutto. Un frutto che può raccogliere; un frutto
che può essere bello, piccolo, talora assente.
Dieci anni fa, Papa Benedetto XVI ha realizzato un
progetto maturato sin dai primi tempi del suo incarico di prefetto della
Congregazione per la Dottrina della Fede: ridare uno statuto ufficiale al
messale del 1962, attraverso la promulgazione del motu proprio Summorum Pontificum.
Mettiamoci umilmente al servizio non dei nostri
pensieri, ma della Chiesa, e più particolarmente della sua liturgia,
considerando i frutti di questo documento per la Chiesa universale.
In un primo momento, vorrei evocare la storia
liturgica dell’abbazia di Fontgombault, come una panoramica. Seguiranno delle
riflessioni sui frutti del documento pontificio secondo i punti di vista del
rito e della Chiesa.
Storia
Dom Jean Roy O.S.B. (1921-1977), Abate di
Notre-Dame di Fontgombault dal 1962 al 1977, accolse di buon grado il piccolo
convoglio di riforme dell’Ordo Missæ,
nel 1965. Non fu tuttavia senza qualche apprensione che seguì la fermentazione,
che sfocerà nel 1969 nella promulgazione di un nuovo Ordo Missæ, del quale percepì al contempo le qualità e i limiti.
Fedele al principio di non dire nulla che non sia
teologicamente certo, né di fare alcunché che non sia canonicamente in regola, e contro numerose e forte pressioni,
il Padre Abate mantenne l’uso del messale tridentino fino alla fine del 1974.
Secondo il documento di promulgazione del nuovo
messale, esso sarebbe diventato obbligatorio quando le conferenze episcopali
avessero ottenuto l’approvazione della traduzione. Fu questo il caso alla fine
di quell’anno. Il Padre Abate ottemperò, non senza reticenze, ma considerando
che i monaci non dovevano nemmeno dare l’impressione di disobbedire. Più tardi,
dirà che la sua decisione rilevava più dalla prudenza che dall’obbedienza,
poiché non era certo che il nuovo messale fosse obbligatorio e che il messale
tridentino fosse legittimamente interdetto. L’avvenire mostrerà che il suo
dubbio era giustificato.
Il Padre Abate raccomandò ai sacerdoti dell’abbazia
di conservare nella celebrazione dei santi misteri le disposizioni di pietà, di
rispetto, di senso del sacro che avevano acquisito alla scuola del messale
tridentino.
È in questo clima liturgico pesante che il Padre
Abate ha concluso la sua vita, in occasione di un Congresso benedettino a Roma,
nel 1977; una vita senza dubbio abbreviata, almeno parzialmente, dalla lotta che
non ha cessato di condurre per la difesa della santa Chiesa e della sua
Tradizione.
Mediante la lettera circolare Quattuor abhinc annos, del 3 ottobre 1984, inviata alle conferenze
episcopali, la Congregazione per il Culto divino faceva eco al desiderio del
Sommo Pontefice san Giovanni Paolo II (1920-2005), di dare soddisfazione ai
sacerdoti e ai fedeli desiderosi di celebrare secondo il messale romano
pubblicato nel 1962. A partire dalla festa dell’Annunciazione del 1985, i
sacerdoti del monastero – a condizione di farne personalmente richiesta
all’ordinario del luogo – ricevettero il permesso di dire la metà delle messe
della settimana secondo tale messale.
Una nuova tappa fu compiuta in seguito alle
infelici “consacrazioni di Ecône”, con la creazione della Pontificia
Commissione Ecclesia Dei. Al prezzo di trattative rese difficili in virtù di
persone influenti, Dom Antoine Forgeot O.S.B., successore del Padre Abate Jean,
ottenne dalla Commissione il rescritto del 22 febbraio 1989, autorizzando a
riprendere in maniera abituale il messale del 1962. Incoraggiata dalla
Commissione per tutto ciò che avrebbe potuto rappresentare un avvicinamento con
il messale del 1969, l’abbazia ha conservato il nuovo calendario per il
santorale, e ha adottato qualche nuova prefazio, una preghiera universale la
domenica… Queste usanze si riveleranno andare nella direzione del pensiero del
cardinale Joseph Ratzinger.
Il 7 luglio 2007, il motu proprio Summorum Pontificum ha reso il suo pieno
diritto di cittadinanza al messale del 1962. Se all’abbazia non fu occasione di
riunioni, già anticipate da più di vent’anni, esso ha aumentato la devozione
filiale e la gratitudine dei monaci nei confronti della Madre Chiesa e verso
Benedetto XVI.
Da questa data, un centinaio di sacerdoti desiderosi
d’imparare a celebrare nella forma extraordinaria – la cui età media è attorno
ai 30-40 anni –, sono venuti all’abbazia. Inviati dal loro vescovo in vista di
un ministero specifico, venuti da sé stessi al fine di rispondere alla
richiesta dei fedeli, o semplicemente desiderosi di celebrare in privato questa
forma venerabile per profittare della sua spiritualità, essi compiono il loro
soggiorno con la convinzione di avere scoperto un tesoro. Le difficoltà
incontrate riguardano l’uso della lingua latina e una presa di coscienza di una
“conversione” da compiere nella maniera di celebrare, sulla quale torneremo
oltre.
La gran parte di essi continueranno a praticare
abitualmente la forma ordinaria. Altri celebreranno regolarmente una o più
messe nella forma extraordinaria nella loro parrocchia – ciò che prevede il
motu proprio –, e non solo per dei fedeli relegati in una “piccola cappella”.
Come non vedere qui le primizie di un rinnovamento
della Chiesa orante, la nascita di sacerdoti e fedeli senza complessi, che
attingono generosamente alla fonte inesauribile della tradizione liturgica
della Chiesa, segnata almeno dalle preghiere del sacerdote – dette private –,
di spirito monastico. Il messale di san Pio V è un messale medievale. Beneficia
del clima di una società in cui il monachesimo ha svolto un ruolo capitale, sia
tramite Cluny sia attraverso Cîteaux. Arricchito dal contatto con la
tradizione monastica, esso è a immagine di ciò che san Benedetto chiede ai suoi
monaci: “non si anteponga nulla all’Opera di Dio” (RB 43,3).
Che dei sacerdoti riscoprano così il sacro, che i
fedeli se ne abbeverino, non può essere senza riverbero sulla società. Ecco già
uno dei primi frutti del motu proprio.
[Dom Jean Pateau O.S.B., Padre Abate dell’abbazia Notre-Dame di Fontgombault, “Fruits de la grâce du
motu proprio Summorum Pontificum pour
la vie monastique et la vie sacerdotale”, conferenza in occasione del V
Convegno sul motu proprio Summorum Pontificum, dal titolo Il Motu proprio Summorum Pontificum di Benedetto XVI: Una rinnovata
giovinezza per la Chiesa, svoltosi a Roma, presso la Pontificia Università
San Tommaso d’Aquino, il 14 settembre 2017. Trad. it. di fr. Romualdo Obl.S.B. / 1 - continua]