domenica 28 febbraio 2016

Memoria di Dom Gérard

[Oggi 28 febbraio 2016 ricorre l'ottavo anniversario della morte di Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), fondatore e primo abate del monastero Sainte-Madeleine di Le Barroux. Lo ricordiamo nelle preghiere e lo raccomandiamo a quelle dei lettori. Offriamo di seguito l'articolo commemorativo pubblicato il 3 aprile 2008 sul quotidiano francese Présent, del pensatore e scrittore cattolico francese Jean Madiran (1920-2013) – raffigurato nella foto a fianco assieme a Dom Gérard –, oblato benedettino dell'abbazia del Barroux. La presente traduzione si basa sulla versione del testo comparsa in Reconquête. Revue du Centre Charlier et de Chrétienté-Solidarité, n. 247-248, aprile-maggio 2008, pp. 39-44, trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B.]

Quando ho conosciuto Gérard Calvet a Maslacq, egli era un allievo dotato, fantasioso e scherzoso, un po’ chiassoso ma di buona condotta: fuoriuscito da una grande famiglia di provincia, a Bordeaux, come Benedetto da Norcia e la sua famiglia degli Anicii in Umbria. Amava le arti plastiche. A scherma, prendeva lezioni di fioretto. Con lui ho giocato al “rugby-Roches” [dal nome dell’École des Roches, situata per l’appunto a Maslacq], una specialità locale offerta quale spettacolo alle famiglie per la Pentecoste; ho anche fatto della boxe contro di lui, con i guanti e secondo le regole della nobile arte. Di quell’epoca ho soprattutto due ricordi. Gérard Calvet era considerato come colui che avrebbe potuto un giorno scrivere la storia straordinaria della Maslacq di André Charlier, cosa che in effetti fece più tardi. A lezione di filosofia, un segno distintivo della sua personalità: non vedeva il bene morale nella tensione di un volontarismo stoico, ma al contrario come un dono ricevuto in uno spirito disteso, una specie d’inclinazione – naturale, pensavo – che affermava senza troppo spiegarla. Ho sempre ignorato – l’ho saputo da Dom Louis-Marie soltanto il lunedì delle esequie – che già da bambino aveva costruito un oratorio dove pregare Nostra Signora per la Francia. Ma André Charlier sapeva: “Gérard Calvet, con la sua intuizione così giusta”, scriveva nel 1949.

Erede lui stesso

È stato all’età di 43 anni che Dom Gérard è entrato nella storia, per il medesimo atto decisivo del Nostro Santo Padre Benedetto: come lui, si fece eremita, ritirandosi nella solitudine, per un rifiuto analogo. Nel caso di san Benedetto, fu per scappare dai costumi delle grandi scuole romane, poi a dei monasteri nei quali la vita religiosa era caduta molto in basso. Per Dom Gérard, già monaco da una ventina d’anni, fu per sfuggire al mondo della “rivoluzione d’ottobre nella Chiesa”. Lo fece dopo molti anni di peregrinazioni in Brasile e in Francia, e con l’autorizzazione del suo Padre Abate di Tournay. Cercava un mezzo stabile di rimanere fedele alle osservanze del suo Ordine, in procinto di cadere in desuetudine o di essere colpito da interdizioni. Attraverso varie peripezie, l’intrapresa è identica, e identico il risultato: i postulanti spontanei si moltiplicano attorno all’eremita, reclamando di vivere in comunità sotto la sua direzione. Così è cominciato Bédoin, nel mese di agosto 1970.
Ma attenzione. Se l’approccio iniziale è radicale, esso non è una rottura, non è un “ripartire da zero”. Al contrario, è il rifiuto della rottura devastatrice circostante rispetto al patrimonio naturale e soprannaturale che aveva ricevuto in eredità.
Come il giovane Gérard Calvet, il giovane Benedetto non era stato una specie di sessantottardo anarchico e autodidatta. Aveva compiuto dei buoni studi nelle grandi scuole di Roma come esse continuavano a esistere negli ultimi anni del secolo V. L’atmosfera, l’ideologia, i costumi erano pagani e dissoluti. Ma vi si poteva ancora incontrare la filosofia greca, il diritto romano, la letteratura latina, la tradizione di un’arte di parlare e di scrivere, come lo si constata nella redazione della Regola. Quando Benedetto abbandona questo mondo universitario e se ne va “scienter nescius et sapienter indoctus” [san Gregorio Magno, Libro II dei Dialoghi, prologo], non se ne va da ignorante, non se ne va da barbaro, ma sapienter e scienter alla ricerca di un sapere superiore e di una vita interamente rivolta a Dio. Sappiamo che egli non cessò di apprendere, ma si fermò in un primo momento in una buona parrocchia della piccola cittadina di Enfide, nella diocesi di Preneste, dove lavorava e s’istruiva sotto la direzione di un buon curato.
(Non sto dicendo nulla che non sia già conosciuto, ma v’insisto, poiché ricordando la prodigiosa avventura di san Benedetto, è in sostanza quella di Dom Gérard che racconto, e alcuni sanno bene che questo parallelo mi perseguita da molto tempo.)
Il suo desiderio di donarsi a Dio nella solitudine spinse Benedetto a lasciare Enfide e lo rimise in cammino fino a Subiaco, dove un vecchio monaco lo prese sotto la sua protezione, lo nascose in una grotta della montagna, dove gli portava nutrimento e insegnamento. Aveva allora circa trent’anni. Un insieme di pastori del circondario iniziò a venire a cercare presso di lui quella che diventerà la vita monastica benedettina.
Ugualmente Dom Gérard.
È stato istruito alla scuola di André Charlier, nella cultura classica e nel canto gregoriano, nell’arte di pensare e di scrivere; con Albert Gérard ha imparato a disegnare e a dipingere secondo il pensiero e l’esempio di Henri Charlier. Costui abitava dal 1920 a Le Mesnil-Saint Loup, parrocchia che era stata convertita da Padre Emmanuel, la cui tradizione e l’esempio sono rimasti presenti nell’anima di Dom Gérard: egli ha sempre fatto leggere in refettorio la pagina del giorno dell’anno liturgico di Padre Emmanuel; e fu inoltre un figlio di Padre Muard e di Dom Romain Banquet, tant’è che faceva venire qualche vecchio monaco da En Calcat per insegnare la vita benedettina alla sua giovane comunità. Come san Benedetto, è stato un erede.

Bédoin

Gli anni di Tournay furono quelli della vita nascosta del futuro fondatore, che nulla sembrava annunciare in questo artista. Henri Charlier gli diede da terminare i propri affreschi nell’oratorio del Padre Abate. Si cominciava tuttavia a conoscerlo per la sua accoglienza in foresteria, dove confortava gli ospiti di passaggio con una profonda comprensione delle grandezze e delle miserie del mondo. Ma è a Bédoin che egli è diventato ciò che i nostri occhi ciechi non erano ancora stati capaci di discernere in lui. E Bédoin non è stato che il primo passo della sua fondazione.
Bédoin non sarà mai dimenticato in seguito. Dom Louis-Marie l’ha notato: “Era Bédoin con il suo fascino indefinibile dei primi passi. Coloro i quali hanno conosciuto Bédoin agli inizi ne portano una certa nostalgia”. Il che fa pensare all’addio a Maslacq di André Charlier: “Vi era a Maslacq un fascino che tutti quanti vi sono passati hanno percepito […]. In verità questi luoghi ci sono entrati nell’anima e non ne possono più uscire. Ma l’attaccamento alle cose, così naturale al cuore dell’uomo e che è per lui una fonte inestinguibile di malinconia, deve oltrepassare le apparenze fuggitive per conservare nella sua purezza la sostanza di ciò che non passa”. Un giorno d’estate del così duro anno climaterico 1988, Dom Gérard mi scrisse dal Barroux una rapida frase su una cartolina, senza dubbio presa a caso, perché l’aveva fra le mani: sta di fatto che raffigurava la cappella di Bédoin, con stampata la didascalia “Ste-Madeleine, Bédoin, Vaucluse”. Dom Gérard vi mise in postilla: “Culla del nostro monastero. È terribile ingrandire!”.

Camerone

Non lontano da Bédoin s’incontra la città di Orange, con la sua caserma del 1° Reggimento straniero di cavalleria (1er REC) della Legione straniera. Il comandante di questa unità cercava in diocesi un sacerdote disponibile a celebrare una Messa per i legionari morti in combattimento. Non ne trovava nessuno. Coloro che egli avvicinava si rifiutavano per i motivi più diversi: un sacerdote non doveva compromettersi con degli uomini di guerra; d’altro canto, nulla provava che questi legionari fossero stati in maggioranza cattolici: non era onesto, senza averli democraticamente consultati, imporre loro una Messa per via d’autorità; infine il colonnello avrebbe dovuto comprendere l’ostacolo morale costituito dal fatto che la Legione era colpevole di avere partecipato a una guerra d’oppressione in Indocina e in Algeria. Questo spirito ecclesiastico aveva per origine principale la “pastorale” di molti vescovi, e non fra i minori, che aveva lungamente fuorviato il clero nell’“accompagnamento” delle condotte supposte umanitarie e pacifiste del partito comunista. Mentre stava per rinunciare, il colonnello fu incoraggiato a tentare la fortuna presso un sacerdote che guidava una piccola comunità a La Madeleine, vicino al villaggio di Bédoin. La Messa ebbe dunque luogo. Dom Gérard gratificò inoltre i legionari con un sermone fulminante di sette minuti – com’era suo costume – sulla vocazione militare. Conquistò tutti i cuori. Da allora fu invitato tutti gli anni, alla tribuna d’onore, per la celebrazione della battaglia di Camerone.

Il capitano Borella

“Lo scorso mese di luglio il nostro monastero ha ricevuto la visita del capitano Borella e dei suoi amici”, scriveva Dom Gérard nel 1975. Due mesi più tardi, Dominique Borella veniva ucciso in battaglia, a Beirut, dove combatteva nei ranghi dei falangisti cristiani.
A diciott’anni si era arruolato nell’esercito come volontario per l’Indocina. A Dien-Bien-Phu aveva ricevuto l’onoreficenza militare, il più giovane in Francia fra quanti ricevettero la medaglia.
“Poi – proseguiva Dom Gérard – si è guadagnato i suoi galloni, è diventato sottufficiale e ha lasciato l’Indocina nel 1956 con il corpo di spedizione dal coraggio leggendario, nei ranghi del quale si è coperto di gloria. Lo ritroviamo in piena guerra d’Algeria nel 2° Reggimento straniero di paracadutisti (2e REP). Non ha ancora 25 anni. Ascesa fulminante, dovuta allo straordinario stato di servizio che rivela un dono innato del comando… Entrato nell’Organisation de l’armée secrète (OAS) nei giorni tristi della politica d’abbandono, continuerà dopo l’indipendenza, in tutti i campi, la lotta contro il comunismo internazionale. Nel 1974 è capitano dell’Esercito repubblicano della Cambogia per 3.000 riel al mese (circa 75 franchi francesi [12 euro di oggi]). Si vede affidare il comando e soprattutto la formazione della prima brigata paracadutista cambogiana”.
A Dom Gérard che nel luglio 1975 gli chiede cosa farà adesso, egli risponde:
“Vado ad aiutare i villaggi cristiani del Libano, dove i sacerdoti fanno il coprifuoco con i giovani per difendere le loro chiese, le loro scuole e le loro case contro i terroristi fedayn. Parto sulle tracce dei crociati. Diceva questo – commenta Dom Gérard – con una voce calma e tranquilla, come se si trattasse della cosa più naturale al mondo. Ci sembrò felice e grave. Così pure un tempo dovevano essersene andati, senza tornare, i cavalieri della Terrasanta, con l’indulgenza plenaria e il disprezzo della morte”.
“La storia non erigerà alcuna stele a questo colono, partigiano di una guerra senza odio, che sapeva scorgere, come Lyautey, nell’avversario di oggi l’amico di domani. Senza dubbio, la notte che si è distesa sul suo corpo lo ruba per sempre alla nostra amicizia, e servirebbe un miracolo perché il suo ricordo fosse strappato all’oblio delle generazioni. Ma un’altra gloria veglia su di lui: i suoi fratelli d’armi venuti ad accoglierlo in una grande luce, che gli fanno segno di entrare nella Patria eterna, ed ecco santa Giovanna d’Arco tutta bardata sulla soglia del Paradiso, con lo stendardo in mano, gli sorride e lo saluta con la spada”.
Con la firma di “Benedictus”, questo articolo di Dom Gérard è comparso nel numero 199 della rivista Itinéraires (gennaio 1976).
Perché anche questo era Dom Gérard.
Quando parlava ai suoi postulanti, diceva loro che alla fedeltà del monaco “si collegano altre fedeltà, come una grande catena che risale fino a Dio: la fedeltà degli sposi, quella degli uomini d’armi e quella dei principi che ci governano”.

Il dono della parola e l’arte di scrivere

Artista, il capomastro del Barroux lo era anche per la sua arte di scrivere. L’esordio della sua storia di Maslacq – “Siamo arrivati quand’era scesa la notte, seguendo da Orthez a Maslacq un carro di muli che avanzava lentamente sotto una pioggia fine. Come mi batteva il cuore, entrando nel grande castello nero! Fortunatamente, il mio fratello maggiore era anch’egli là…” –, un tale inizio potrebbe avere il suo posto fra i più celebri della letteratura in prosa: “Era a Megara, sobborgo di Cartagine, nei giardini di Amilcare…” [Salambò, di Gustave Flaubert]; “A lungo, mi sono coricato di buonora…” [Alla ricerca del tempo perduto, di Marcel Proust].
Forse si riterrà vano fermare un istante il proprio sguardo sulle qualità letterarie del monaco che ha fondato Le Barroux. Ma trascurarle, non significherebbe disprezzare i doni di Dio? Dom Gérard li ha impiegati per confortare, illuminare, insegnare alle anime che soffrono, le anime che cercano, nell’abbandono e la preoccupazione in cui li hanno sprofondati le profonde mancanze dei corpi costituiti, delle istituzioni, delle élite ufficiali. La sua opera scritta è abbondante: diversi libri, in testa Demain la Chrétienté; ma anche numerosi articoli: la maggior parte non ancora riuniti in volume*, alcuni ripresi in opuscoli, puri monumenti di poesia e di grazia, di comprensione delle situazioni temporali e di speranza soprannaturale, come L’oraison du jour (1977), Lettre aux jeunes mamans de l’an qui vient (1982), Mères de famille ayez confiance (1986), Le chant des psaumes (1991). L’arte di scrivere porta la parola di Dom Gérard come per onde successive attorno al Barroux, presso i fedeli incerti o scoraggiati, disorientati per tante anomalie trionfanti nelle parrocchie, nelle scuole, nella vita pubblica. In mezzo alle oscurità, egli è stato come il Nostro Santo Padre Benedetto reso visibile per i nostri tempi. Per molti sacerdoti e laici egli lo è stato soprattutto nei trentasette anni di asfissia che vanno dall’interdetto della Messa tradizionale nel 1970 al suo progressivo ristabilimento nel suo pieno diritto, infine decretato nel 2007.
* [Dopo la pubblicazione di questo articolo, nel 2008, la quasi totalità degli scritti sparsi di Dom Gérard è stata raccolta nei seguenti tre volumi: Benedictus. Ecrits Spirituels.Tome I (2009), Benedictus. Ecrits Spirituels. Tome II (2010), Benedictus. Tome III. Lettres aux oblats (2011); si segnala altresì la pubblicazione in Italia, nel 2011, del libro di Dom Gérard La santa liturgia]

Parentesi

Una volta, quando stavamo cambiando di secolo, Dom Gérard mi ha chiesto un libro. Lo voleva pubblicare presso le edizioni Sainte-Madeleine, che sono le edizioni del Barroux. Ma non un libro qualunque. Me ne fissò il soggetto, e quale soggetto inatteso: la pietà filiale. Gli dissi che nei miei libri, nei miei articoli, parlavo della pietà filiale da cinquant’anni, e che non avevo altro da dire sul tema. Insistette, come se non avessi detto nulla, e senza rispondere ai miei argomenti. “Ma allora non potrei fare altro che ripetermi!” – “Certo che no”, egli così si opponeva, senza alcuna ulteriore spiegazione. Non ne vedevo la possibilità. Ma si trattava di Dom Gérard. Scrivere un libro su commissione di Dom Gérard, senza altra ragione, mi parve come un atto di obbedienza pienamente gratuito; non vi ero tenuto. Insomma, il libro si è costruito da solo. Dom Gérard, che peraltro ne portava la prima responsabilità, non mi aiutò con una sola parola, né mi precisò cosa insomma si attendesse, né formulò alcuna obiezione o critica quando fu terminato. Esso fu approvato dal suo committente, che lo pubblicò immediatamente e ne fece un elogio pubblico. Di questo episodio un po’ particolare, conservo nel cuore una gratificazione.

La preghiera della Chiesa

La vocazione benedettina è che “non si anteponga nulla all’Opera di Dio” [RB XLIII,3], cioè che non si preferisca nulla alla preghiera della Chiesa, alla dottrina delle orazioni, al canto dei salmi, il tutto attorno al suo vertice, il santo sacrificio della Messa. Dom Gérard ne ha parlato in maniera ogni volta rinnovata. Nelle orazioni, “siamo illuminati su ciò che occorre domandare, come lo si deve chiedere, perché lo si deve chiedere”. Per i salmi, ciò che è anzitutto richiesto, è la fede: la fede nell’atto liturgico della recitazione. Non ci si pensa, eppure i salmi sono “la preghiera che il bambino Gesù ha appreso sulle ginocchia di sua Madre”; sono “cantare Dio con le parole di Dio”. La salmodia gregoriana “tocca l’anima nella sua sensibilità più profonda”, e “vi è una grande dolcezza nel pregare con le stesse parole e i medesimi accenti dei primi cristiani appena rinati nell’acqua battesimale”. Possiamo riaprire qualsiasi pagina del suo insegnamento. Ma c’è – c’è stato – ciò che non ritroveremo mai più.
Quando ci soffermavamo su tutte le cose conoscibili sulla terra e in cielo, e la campana annunciava Sesta entro cinque minuti, o i Vespri in un quarto d’ora, tutto s’interrompeva di colpo. Dom Gérard diceva con una dolcezza avvolgente, con un’intensa gioia contenuta: “Andiamo a pregare”. San Tommaso dice “Vacare Deo dulciter”. Si sentiva una grazia che cadeva dal cielo, come se si aprisse la porta del Paradiso. Tutto ciò che egli aveva potuto dire su qualsivoglia soggetto ne era come riassunto, trasfigurato. Un istante, e non esisteva più nient’altro. La sua anima diceva la sua ultima parola. Era l’ora attesa. Si marciava verso la presenza di Dio nella preghiera della Chiesa. Ritroveremo nei suoi scritti tutto quanto occorre averne appreso, averne capito, averne vissuto: ci ha lasciato il suo esempio vivente, il suo pensiero scritto. Ma non ascolteremo più su questa terra la voce di Dom Gérard che risponde alla campana dell’abbazia: “Andiamo a pregare”.

*   *   *

Dunque, Dom Gérard non ha innovato. Ha restaurato. Come san Benedetto: nel secolo V esisteva già una tradizione monastica, e da molto tempo una traduzione latina della Bibbia, trovandosi che la revisione predisposta da san Girolamo si concluse quando san Benedetto, all’età di circa sessant’anni, redige la sua Regola, fondazione di una nuova famiglia religiosa.
A sessant’anni Dom Gérard è al Barroux, ha fondato due monasteri, ben presto un terzo, ne ha redatto le costituzioni. Forse ne sorgerà, se Dio lo vuole, una nuova branca della famiglia benedettina.

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