Quest’estate, durante un campo scout, una piccola chiesa delle Alpi ha ripreso vita. Messa, adorazione eucaristica, rosario: la sperduta parrocchia di montagna non aveva più visto qualcosa di simile da molto tempo. Ciò che è parso più stupefacente, agli occhi dei residenti, è stato il morale d’acciaio dei ragazzi, i quali cantavano e sorridevano nonostante una pioggia incessante. Soprattutto – lo credereste? – la brava gente del posto non ricordava più d’incontrare dei giovani che sanno ancora dire buongiorno.
In effetti, la cortesia sembra essere completamente scomparsa dal nostro mondo, a profitto di una scortesia amorfa e indifferente. Quando riaffiorano un po’ le buone maniere, sembra un’aurora piena di promesse e la speranza di un domani migliore.
Certamente, la cortesia non è innata. San Benedetto lo sapeva bene. L’esperienza gli aveva fatto perdere ogni illusione sulla natura umana decaduta dopo il peccato originale. Così, «l’uomo di Dio» aveva compreso che la cortesia è un’arte di vivere che si trasmette, e che va mantenuta, poiché tutto va ricominciato a ogni generazione.
Egli aveva perciò piena coscienza che la cortesia ha bisogno di un ambito indispensabile per svilupparsi. Essa è come un granello che esige una terra accogliente per dare frutti di civiltà. Per esempio, la buona terra della vita monastica. Dom Gérard lo ha notato: la cortesia ha posto radici nei chiostri e di là si è diffusa in tutta la cristianità. Attraverso un complesso di piccoli codici di vita comune, la Regola di san Benedetto ha levigato un po’ alla volta i caratteri grezzi dei monaci e di quanti venivano in contatto con loro.
Un esempio lungimirante di queste buone maniere è fornito nel capitolo dedicato all’accoglienza degli ospiti. Il rituale è definito con cura: «Quindi, appena viene annunciato l'arrivo di un ospite, il superiore e i monaci gli vadano incontro, manifestandogli in tutti i modi il loro amore; per prima cosa preghino insieme e poi entrino in comunione con lui, scambiandosi la pace. […] Nel saluto medesimo si dimostri già una profonda umiltà verso gli ospiti in arrivo o in partenza […] con il capo chino o il corpo prostrato a terra» (RB, LIII,3-7).
La cortesia benedettina non riguarda solo gli estranei: essa feconda tutta la vita comunitaria, l’intera quotidianità. Perché, ammettiamolo, è più facile essere cortesi con uno sconosciuto durante il tempo di un breve incontro, piuttosto che con i propri fratelli durante la vita intera. San Benedetto vi si applica tramite minuziose indicazioni. Quando due fratelli s’incontrano, si salutano con un’inclinazione del capo; «quando passa un monaco anziano, il più giovane si alzi e gli ceda il posto, guardandosi bene dal rimettersi a sedere prima che l'anziano glielo permetta» (RB, LXIII,16); «quando si chiamano tra loro, nessuno si permetta di rivolgersi all’altro con il solo nome, ma gli anziani diano ai giovani l'appellativo di “fratello” e i giovani usino per gli anziani quello di “padre” [“nonni”; il termine nonnus, d’origine egizia, è stato abbandonato dai benedettini nel corso dei secoli, ma è rimasto in uso presso alcuni cistercensi]» (RB, LXIII,11-12). Le consuetudini hanno inoltre precisato che i fratelli non debbano interrompersi mentre dialogano e parlare a qualcuno a parte in presenza di terzi; a tavola sono invitati a offrire al proprio vicino la parte migliore; e così via.
Ciò nonostante, agli occhi di san Benedetto, la cosa più importante rimane lo spirito soprannaturale con il quale si compiono tali prescrizioni. Il nostro legislatore svela questo spirito nel capitolo dedicato all’accoglienza degli ospiti: «Tutti gli ospiti che giungono in monastero siano ricevuti come Cristo, poiché un giorno egli dirà: “Sono stato ospite e mi avete accolto”» (RB, LIII,1). San Benedetto voleva che i suoi monaci vedessero Cristo presente in ogni uomo, e soprattutto nei sacerdoti, i religiosi e i poveri. Affinché un tale atto di fede s’incarni davvero nella vita di tutti i giorni, egli l’ha inscritto in un insieme di costumi concreti. La cortesia vissuta in spirito di fede diventa così quel fiore di carità capace di spalancare le porte alla presenza di Dio. In tal modo, essa trasfigura i cuori e il mondo.
Vedete come un semplice sorriso può salvare un’anima o, almeno, ricordarle la sua dignità di figlio di Dio! Notate ancora come il gesto di rispetto accordato a un sacerdote o a un superiore richiama chi siamo e i doveri che ne derivano! Quando un Padre Abate in ritardo vede tutta la comunità alzarsi per accoglierlo, egli si ricorda che rappresenta Cristo. Questa luce di fede rinforza il suo coraggio d’essere fedele alla propria missione.
Il Signore Gesù si dona a noi con profusione. Noi lo sappiamo presente nel tabernacolo, nella Sacra Scrittura o in taluni avvenimenti della nostra vita. Che arricchisca perciò ognuna delle nostre relazioni di una cortesia ispirata alla fede e alla carità! Lui solo conosce il benefico irradiamento che potremo perciò esercitare.
[Dom Louis-Marie Geyer d’Orth O.S.B., abate del monastero Sainte-Madeleine di Le Barroux, Politesse et civilisation, editoriale di Les amis du monastère, n. 139, 15 settembre 2011, pp. 1-2, trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B.]