Quando il sole d’autunno getta i suoi raggi sugli ultimi mesi dell’anno, la liturgia del mese di novembre dà alla preghiera cristiana un sapore d’eternità: la grande festa di Ognissanti allarga le nostre prospettive e conduce i nostri sguardi sulla Chiesa trionfante, in splendoribus Sanctorum, in questo splendore dei santi la cui visione sarà, dopo quella di Dio, la ragione più elevata della nostra beatitudine. L’oggetto della festa non consisterà dunque nel celebrare in una sola volta la totalità numerica dei beati, come per non dimenticarne nessuno, quanto piuttosto lodare, esaltare e festeggiare questa Chiesa gloriosa, il cui mistero così dolce e a tal punto amato dai fedeli, detto comunione dei santi, permette di riversare sulla Chiesa militante una pioggia invisibile di grazie. In virtù di questa medesima comunione dei santi, l’indomani del primo di novembre, la Chiesa, più grave, volge i nostri sguardi verso un aldilà che non risplende ancora la luce di gloria.
Ma le anime del Purgatorio sono sante, approvano il fuoco purificatore che le consuma, felici di soddisfare la giustizia divina di cui percepiscono in maniera superiore la santità infinita.
Qualche giorno dopo, il 9 novembre, dedicazione dell’arcibasilica del Santissimo Salvatore. Il mese di novembre sarà punteggiato da tali feste di dedicazione, che sono altrettante feste del Cielo. In favore dell’anniversario di consacrazione di questa o quella chiesa, la liturgia celebra l’altra Chiesa, la Chiesa di lassù, la città-Sposa, quella Gerusalemme celeste detta Visione di Pace, costruita con pietre vive (vivis ex lapidibus) e circondata di angeli come in corteo nuziale (et Angelis coronata ut sponsata comite), interamente consacrata a Dio, città diletta, ripiena di canti (omnis illa Deo sacra et dilecta civitas, plena modulis)! Ecco in quale atmosfera si dispiegano gli inni della dedicazione.
Fino ad anni recenti, il 13 novembre aveva luogo una festa particolare dell’Ordine benedettino: nei monasteri di tutto il mondo si celebrava con grande giubilo la festa di tutti i santi dell’Ordine.
Nell’irradiamento di Ognissanti, era una festa di famiglia, una festa di pietà filiale in cui la comunità monastica si vedeva ricostituita nell’eternità. Ah!, quali consolazioni, quante dolcissime lacrime sono scese, quando i monaci nel mezzo di tante traversie dovute alle amarezze e alle tristezze dell’esilio, alzavano gli occhi verso i loro Padri pervenuti alla gloria. In primo luogo i grandi santi dell’Ordine, e in seguito tutti i religiosi che avevano vissuto le medesime prove, combattuto le stesse battaglie, subito identiche tentazioni, occupati da allora a fare, nella visione, ciò che un tempo facevano nella fede: l’ininterrotta celebrazione dell’ufficio di lode. Così, oggi ancora, per i monaci fedeli alla tradizione, nel mezzo del mese di novembre il cielo si apre nuovamente e mentre la comunità canta debordante d’allegria l’introito Gaudeamus, i figli guardano i loro padri nella gloria, i cantori della terra guardano verso quelli dell’eternità: è per mezzo di questo sguardo dal basso in alto che i benedettini svolgono l’apprendistato del cielo.
Perché al loro seguito non guardare anche noi questa luce che illumina i nostri lumi, questo beato soggiorno in cui saranno assenti grida e gemiti, questa Patria celeste verso la quale c’incamminiamo piangendo e a tentoni, come gli ebrei verso la Terra promessa? Che i primi monaci, questi fuggiaschi della città terrestre, siano diventati i Padri della nostra civiltà occidentale, non ci deve stupire! Più che un paradosso, è il mistero della nostra vocazione cristiana, che Gesù ci ha lasciato in un solenne enunciato:
«Cercate anzitutto il regno di Dio, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta».
Cercate anzitutto. Quaerite primum.
Fermiamoci un istante su questa massima essenziale che da quattordici secoli non ha cessato di affascinare i nostri Padri, e chiediamo loro il segreto della pace interiore che irradia dal loro canto, dalla loro architettura, dal loro sorriso e dalla loro gioia austera. Oh, monaci dei tempi antichi, ci viene detto delle vostre virtù di carità, umiltà e obbedienza; del vostro amore per la Croce, la povertà, le austerità. Ci viene detto dei vostri lavori, della vostra perseveranza, della vostra resistenza al freddo e al caldo; ci è stato detto che avete bonificato le paludi, ripulito le foreste: i nostri villaggi portano ancora il nome dei vostri lavori e delle vostre preghiere. Avete letto, meditato e commentato la Sacra Scrittura. Avete popolato i deserti di società serene, ritmate dalla preghiera; avete insegnato l’arte del lavoro in comune, nella concertazione e nella dolcezza. I barbari vi hanno imitato. Voi avete fondato l’Europa. Ma quale visione interiore vi abitava? Giacché vi siete volontariamente nascosti nella notte della storia, come le stelle invisibili nel mezzo delle costellazioni: la vostra umiltà è d’illuminare tutto insieme e di nascondervi nella luce. La risposta ci è data da mille testimonianze: liturgia, simbolismo dell’architettura, sermoni, composizioni letterarie, affreschi raffiguranti il Cristo in gloria; altrettanti monumenti dei quali si può dire che formano nel corso della storia quella punta avanzata della spiritualità cattolica che è il desiderio del Cielo.
Un tale desiderio non è esclusivo dei monaci; fiorisce in tutti gli stati di vita, ma come stupirsi che sbocci meglio presso coloro per i quali l’ascesi è fatta in gran parte di ritiro dal mondo, di fuga dalle sollecitazioni esteriori e di unione a Dio? Lo stesso chiostro riceveva il nome di Paradiso claustrale (Paradisus claustralis), poiché nulla veniva a distrarre il monaco da questo possesso di Dio, che non si dona se non facendosi desiderare a esclusione di ogni altra realtà.
[Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), Un certain goût du ciel, in Itinéraires, n. 287, novembre 1984, poi in Benedictus. Ecrits Spirituels. Tome I, Editions Sainte-Madeleine, Le Barroux 2009, pp. 375-385 (qui pp. 375-379), trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B. - 1 / continua]