[Annunciamo
con vero piacere l’uscita, il 30 ottobre 2016, della prima traduzione italiana
del romanzo di Joris-Karl Huysmans
(1848-1907), L’oblato, decimo titolo
della collana “Magna Europa” diretta da Giovanni Cantoni, pubblicato da
D’Ettoris Editori, tradotto dalle monache benedettine del Monastero San
Benedetto di Bergamo, con ampia ed erudita Presentazione
(pp. 7-33) di Ferdinando Raffaele (Crotone 2016, pp. 396, euro 21,90, ordini diretti
tramite la e-mail info@dettoriseditori.it).
Autentico
“romanzo liturgico”, com’è stato autorevolmente definito, e terzo della
cosiddetta “trilogia di Durtal”, L’oblato mette in scena il personaggio che costituisce il
doppio letterario dell’autore, convertitosi alla fede cattolica dopo avere
accostato gli abissi della magia e del satanismo, come narrati nel romanzo L’abisso. Oblato, come indica il titolo,
presso l’abbazia benedettina di Val des Saints – nome di fantasia per
descrivere l’abbazia di Ligugé, dove Huysmans visse egli stesso come oblato –,
Durtal è l’espediente narrativo attraverso il quale l’autore tesse la storia
del rapporto fra il personaggio e la comunità monastica, e mediante il quale
Huysmans descrive in memorabili pagine la liturgia cattolica, le sue idee sul
cattolicesimo contemporaneo e soprattutto le sue riflessioni sulle questioni
centrali della fede, fra cui il tema nodale della sofferenza.
Joris-Karl Huysmans è stato uno scrittore e critico
d’arte francese. In questa duplice veste ha preso parte attiva alla vita
letteraria e artistica, influenzando lo sviluppo del romanzo decadente e
promuovendo l’arte impressionista e simbolista. Nell’ultima parte della sua
vita, convertitosi al cattolicesimo, si lega alla tradizione della letteratura
mistica, e il suo incontro con la fede si spinge fino a mutare le forme
espressive dei suoi romanzi, come testimonia la “trilogia di Durtal”, iniziata con Per strada (1895), proseguita con La cattedrale (1898) e che si conclude
con L’oblato (1903). Muore a Parigi,
sua città natale, dopo essersi fatto oblato benedettino.
Offriamo in anteprima un brano del capitolo VII
(qui pp. 186-188), invitando calorosamente i lettori di Romualdica a leggere e diffondere questo
importante “romanzo
liturgico”.]
E, di colpo,
l’organo echeggiò in una marcia trionfante; l’Abate entrò nella navata,
preceduto da due cerimonieri tra i quali camminava quello che portava il
pastorale, in alba con le spalle coperte dalla vimpa, una sciarpa di seta
bianca con delle pieghe rosso ciliegia i cui tre lunghi panni, riportati sul
petto, servivano per afferrare l’impugnatura del pastorale; e l’Abate, il cui
lungo strascico nero era sollevato da un novizio, passando benediceva i fedeli
inginocchiati che si segnavano.
E lui stesso
era andato a inginocchiarsi insieme a tutta la sua corte di cerimonieri,
cappieri, religiosi in alba, e si vedeva solo una voluta dorata, dominante
un’estensione come di lune morte, il pastorale al di sopra delle teste dalle
larghe tonsure, rotonde e bianche.
Tutti si
alzarono a un segnale del padre d’Auberoche, con un leggero tocco di mani;
l’Abate raggiunse il suo trono vicino al quale si misero al loro posto i tre
diaconi d’onore; e l’inginocchiatoio verde fu spostato.
Il coro era
pieno; i due ranghi di stalli in alto erano occupati, su ciascun lato, dalle
cocolle nere di professi e novizi, quelli in basso dalle cocolle brune dei
conversi e, sopra di loro, su due banchi, spiccavano gli abiti vermigli dei
bambini del coro; nello spazio lasciato vuoto era un andare e venire di cerimonieri
e portapastorale; e di altri portainsegne, del portabugia e del portamitria; e
questi movimenti erano regolati con così tanta perizia che, in un passaggio
così stretto, tutti sfilavano e si incrociavano, senza mai intralciarsi gli uni
con gli altri.
L’Abate
diede inizio all’Ufficio.
Così come
aveva previsto padre Felletin, l’incanto dell’Invitatorio coinvolse sin da
subito Durtal. Veniva cantato come di consueto il salmo Venite exultemus che
convocava i cristiani ad adorare il Signore, inframmezzato dopo ogni strofa dal
ritornello sia abbreviato, “Cristo è nato per noi”, sia completo “Cristo è nato
per noi, venite, adoriamo”.
E Durtal
ascoltava questo salmo magnifico, ricordandosi la creazione del Signore e i
suoi diritti. Su di una melodia che aveva vagamente qualcosa di dolente e con
un sentimento di consenso e rispetto, si elencavano le meraviglie di Dio e si
rimpiangeva l’ingratitudine del suo popolo.
La voce dei
cantori enumerava i suoi prodigi: “Suo è il mare, egli l’ha fatto, le sue mani
hanno plasmato la terra. Venite, prostrati adoriamo, in ginocchio davanti al
Signore che ci ha creati”.
E il coro
riprendeva: “Cristo è nato per noi, venite, adoriamo”.
E, dopo
l’inno glorioso di sant’Ambrogio, il Christe Redemptor, l’Ufficio solenne si aprì
davvero. Si divideva in tre veglie o notturni, composti di salmi, letture o
lezioni, e di responsori. Questi notturni svelavano un senso speciale. Durando,
l’anziano vescovo di Mende del secolo XIII, li spiega con lucida chiarezza. Il
primo notturno allegorizza il tempo trascorso prima della legge data a Mosè e,
nel Medioevo, l’altare era nascosto sotto un velo nero che simbolizzava le
tenebre della legge mosaica e la condanna pronunciata contro l’uomo nell’Eden;
il secondo significava il tempo passato dopo la legge scritta, allora l’altare
era occultato sotto un tessuto bianco perché l’Antico Testamento rischiarava
già con le luci furtive dei suoi Profeti l’uomo decaduto; il terzo specificava
l’amore della Chiesa, la grazia del Paraclito e perciò l’altare si vestiva con
una nappa color porpora, emblema dello Spirito Santo e del sangue del
Salvatore.
L’Ufficio
era in parte salmodiato e in parte cantato. Era un insieme splendido; ma la sua
massima bellezza la riservava specialmente per il canto o il recitativo delle
sue Lezioni.
Un monaco
scendeva dal suo stallo, condotto da un cerimoniere, davanti al leggio posto in
mezzo al coro, e là cantava o recitava – non si saprebbe quale termine
impiegare – poiché non era più solo una salmodia e non era ancora canto. La
frase si spiegava su di una specie di melodia grave e languida, lenta e piana
e, chiudendo gli occhi, ascoltando queste arie appena fluttuanti, era uno
strano dondolarsi dell’anima, uno stringersi del cuore molto dolce, un cullarsi
che finiva improvvisamente come con una lacrima su di una nota triste.