lunedì 9 agosto 2010

Alle fonti del monachesimo - II

[In una pagina precedente abbiamo proposto la cosiddetta "versione alessandrina" del racconto delle origini apostoliche del monachesimo a opera di Giovanni Cassiano (360 ca.-435), tratta da Le istituzioni cenobitiche. In questa seconda occasione riproduciamo invece la "versione gerosolimitana", tratta dalle Conferenze ai monaci]

La vita cenobitica ebbe dunque il suo inizio al tempo della predicazione apostolica. Infatti tale risultò quell’intero gran numero dei credenti in Gerusalemme, così descritto negli Atti degli Apostoli: “La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuore solo e un’anima sola, e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune” [At 4,32]. “Vendevano proprietà e sostanze, e ne facevano parte, secondo il bisogno di ciascuno” [At 2,45]. E ancora: “Nessuno tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi e case, li vendevano, portavano l’importo di ciò che era stato venduto ai piedi degli apostoli; e veniva distribuito poi a ciascuno secondo il bisogno” [At 4,34-35]. Tale, dirò ancora, era allora tutta la Chiesa, quale, al tempo nostro, è difficile riscontrare, se non in numero molto ridotto proprio nei cenobi. Infatti dopo la morte degli Apostoli, la moltitudine dei credenti cominciò a intiepidirsi, quelli specialmente che erano confluiti alla fede di Cristo dal di fuori, dalle parti cioè dei gentili, ed erano coloro, dai quali gli Apostoli, in vista degli stessi rudimenti della fede e data l’inveterata tradizione della stessa loro vita pagana, nulla più richiedevano al di fuori delle norme seguenti: “Astenersi dalle carni offerte agli idoli, dalla fornicazione, dal sangue e dagli animali soffocati” [At 15,29]; una tale libertà, concessa ai gentili per la debolezza della loro fede appena iniziata, cominciò a contaminare un po’ per volta anche la Chiesa che s’era formata a Gerusalemme, e così, raffreddatosi il fervore della fede primitiva per il crescente numero di quanti ogni giorno vi affluivano, giudei o estranei che fossero, finirono per rilassarsi da quella austerità non solo quanti avevano aderito alla fede di Cristo, ma anche coloro che erano stati preposti alla guida della Chiesa.
Alcuni infatti, ritenendo lecito anche per loro quello che vedevano concesso ai gentili in vista della loro debolezza, credettero di non incorrere in nessun male, se avessero conservato il possesso dei loro beni, continuando a professare la fede di Cristo. Invece coloro che conservavano ancora il vero fervore, memori com’erano di quella primitiva perfezione, separatisi dalle loro città e dal consorzio di quanti ritenevano lecito per loro e per la Chiesa di Dio la negligenza d’una vita rilassata, presero a dimorare in luoghi periferici alle città e in siti separati, e a osservare privatamente e personalmente quelle norme che essi ricordavano dettate dagli Apostoli in forma generale per tutto il corpo della Chiesa; venne così a crearsi quella disciplina, di cui sto parlando, tutta propria dei discepoli che si erano sottratti al contagio in precedenza richiamato. Essi, separatisi col progresso del tempo dalle folle dei credenti per il fatto che si astenevano dalle nozze e venivano separati dalla comunione dei parenti e del mondo, vennero denominati monaci, ossia monázontes, per l’austerità della loro vita così singolare e solitaria. Ne derivò ovviamente che dalla comunione di vita da loro condotta, essi furono chiamati cenobiti, e le loro celle e i loro alloggi furono detti cenobi.
Fu dunque unicamente questa la specie più antica dei monaci, la prima non soltanto in ordine di tempo, ma anche della grazia; fu quella che perdurò inviolabile per moltissimi anni fino all’età di Paolo e di Antonio. Di essa noi vediamo perdurare i resti ancora al tempo nostro nei monasteri più osservati dei cenobiti.

[Giovanni Cassiano, Conferenze ai monaci, [Libro III, Conf. XVIII,5], traduzione e note a cura di Lorenzo Dattrino, 2 voll., Città Nuova, Roma 2000, vol. 2, pp. 234-236]

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