sabato 28 novembre 2015

Meditazione per il tempo di Avvento

Eccoci dunque entrati nel tempo santo dell’Avvento, che è per eccellenza un tempo monastico, giacché i monaci sono dei guardiani, uomini dell’attesa e del desiderio, non del possesso o della soddisfazione. Prova ne sia che ogni volta in cui per il mondo ci sono «riusciti», ogni volta che si sono installati, pensando ingenuamente che il benessere temporale avrebbe loro permesso una più ampia facilità per il servizio delle anime, sono rimasti preda dei beni terrestri. I beni che possediamo finiscono a loro volta per possederci. È la storia di tutte le riforme monastiche, altrettanto numerose quanto le decadenze: un gruppo di monaci si distacca e riannoda i legami con le origini, alla ricerca di Dio, ma in una più grande solitudine e in una maggiore povertà.
La nostra vera ricchezza è la nostra attesa dei beni futuri. Non siamo veramente ricchi che di ciò che ci manca. Quella che potremmo chiamare l’età d’oro del popolo eletto, la fase della sua vita in cui si è costituito, non furono certamente gli anni prestigiosi della costruzione del Tempio di Salomone, quando gli sguardi ammirati erano fissi su Gerusalemme, ma i quarant’anni nel deserto in cui Dio attirava a sé Israele e gli parlava al cuore.
Sicché il tempo d’Avvento mi sembra il più propizio di tutti per risvegliare in noi questa spiritualità dell’attesa in cui, malgrado il rumore tutto attorno, nulla dovrebbe distrarre la nostra anima dal suo faccia a faccia con Dio.
Non è forse Giovanni Battista, l’uomo del deserto, il personaggio principale di questo dramma liturgico di cui la Chiesa vuole che siamo, oggi stesso, con lei, gli attori viventi? A partire dalla seconda domenica d’Avvento il Messia interroga i suoi apostoli: «Che cosa siete andati a vedere nel deserto?» (Mt 11,7). A sua volta è Giovanni Battista che per mezzo dei suoi discepoli manda a dire a Gesù: «Tu es qui venturus es, an alium expectamus?», «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?» (Mt 11,3). Vi è in questa frase, indirizzata a Gesù dai discepoli di Giovanni, tutta l’attesa dell’Antico Testamento, tutta l’attesa dei patriarchi e dei profeti; più ancora, la domanda fondamentale che tormenterà l’umanità fino alla fine dei tempi. Nella terza e quarta domenica d’Avvento è ancora questione di Giovanni nel deserto. Perché? Perché il deserto non è solo la mortificazione e la penitenza, ma è ancor più il desiderio del riposo e della pace, l’ascesa verso le fonti, la visione lontana delle oasi. Il deserto è il silenzio che dà alla voce lo spazio per il suo grido; «Vox clamantis in deserto» (Mc 1,3), così si definisce il profeta: «Voce di uno che grida nel deserto». Questo clamore che si eleva da un mondo in angoscia assumerà nei giorni che precedono la Natività la forma di un richiamo impressionante: sono le Grandi Oantifone O dell’Avvento»), le antifone che la Chiesa lancia sette volte verso il Cielo come una solenne esortazione. Non potrete prepararvi meglio al grande mistero della venuta di Dio fatto uomo che rileggendo con frutto questi appelli strazianti. Leggete lentamente e tenete nella memoria queste parole gravide della meditazione dei secoli, che ci rivelano a noi stessi e ci rivelano il mistero di Dio.
Cari amici, alla ricezione di questa lettera v’immagino un po’ inquieti, oppure impreparati, all’idea del poco tempo che avete a disposizione per immergervi in questi testi; se lo faceste, mancherebbe ancora qualcosa a quel che stiamo dicendo, perché ancor più degli avvertimenti di Giovanni Battista e le profezie di Isaia, vi è proprio al cuore di questo tempo santo dell’Avvento una figura silenziosa che – anch’essa – guarda il Cielo e attende. Lei ha 14 o 15 anni, che era l’età della prima maternità in Palestina e nei Paesi del Vicino Oriente. Lei ha ricevuto lo Spirito Santo, lei è tutta pura, tutta ricolma di Dio, lei attende la promessa. Lei è proprio l’immagine della Santa Speranza, lei tiene fra le sue mani la chiave d’oro della nostra felicità, che è in noi e davanti a noi, ma che lei ci darà solo se noi le presenteremo la nostra anima da aprire. Le anime aperte alla grazia sono rare. Siamolo. È sufficiente fare un po’ di silenzio e rimanere piccini. Allora forse nascerà in noi questa qualità del desiderio che è la misura della nostra vera grandezza.

[Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), Le mystère de  l’Avent, 2 dicembre 1990, in Benedictus. Tome III. Lettres aux oblats, Éditions Sainte-Madeleine, Le Barroux 2011, pp. 67-69, trad. it. di fr. Romualdo Obl.S.B.]

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sabato 21 novembre 2015

Ordo Divini Officii 2016

Domenica 29 novembre 2015 inizia il Tempo dell’Avvento ed entra così in vigore il nuovo calendario liturgico. Per quanti desiderano recitare l’Ufficio monastico – che, lo ricordiamo, può essere ascoltato in diretta  e seguire il calendario liturgico nella forma extraordinaria del Rito romano in uso nell’abbazia Sainte-Madeleine di Le Barroux, è ora disponibile online in formato pdf lOrdo 2016 (il cui link permanente rimane durante l'anno anche nel menu "Liturgica" del blog Romualdica).



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domenica 25 ottobre 2015

La nostra fede è straordinaria quanto il rito che celebriamo?

Pubblichiamo qui di seguito l'omelia del Padre Abate dell’abbazia Notre-Dame di Fontgombault, Dom Jean Pateau O.S.B., pronunciata a Roma il 25 ottobre 2015 (Festa di Cristo Re), presso la chiesa della Ss.ma Trinità dei Pellegrini, in chiusura della quarta edizione del Pellegrinaggio Summorum Pontificum. 

Cari fratelli e sorelle,
“Cristo vince, Cristo regna, Cristo impera”. Le acclamazioni carolingie non mettono forse a dura prova la nostra fede?
Nel 1935 Stalin rispondeva così a Pierre Laval, che gli chiedeva di rispettare le libertà religiose: “Quante divisioni ha il Papa?”. Oggi molti uomini di Stato fanno implicitamente, e qualche volta esplicitamente, la stessa riflessione. Nel presente frangente, in cui la libertà religiosa, la famiglia, la vita nascente o giunta al termine, sono sotto attacco nella maggior parte dei Paesi del mondo, e anche all’interno stesso della Chiesa, la festa di Cristo Re viene a sollecitare un atto di fede da parte di coloro che sarebbero tentati dalla disperazione.
Il Vangelo ha ricordato il faccia a faccia di Gesù e Pilato, il dialogo di uno che ritiene di detenere ogni potere con un uomo schernito, deriso, sconfitto: “Tu sei il Re dei Giudei?... Dunque, tu sei Re?”. La risposta di Gesù svela una regalità ignorata dagli uomini, un Re testimone della verità: “Tu lo dici, io sono Re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce” (Gv 18,37).
Sono 2000 anni che, in gran numero, stupefatti, beffardi, provocatori… uomini di compromesso, di calcolo, o semplicemente nel dubbio hanno posto questa domanda a Gesù. La risposta di Cristo rimane sempre la stessa: “Io sono Re”.
Con san Paolo, siamo nell’azione di grazie poiché:
“Per mezzo di lui sono state create tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili: Troni, Dominazioni, Principati e Potestà. Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte sussistono in lui. Egli è anche il capo del corpo, cioè della Chiesa” (Col 1,16-18).
Durante il rito del battesimo il sacerdote interroga il catecumeno: “Che cosa chiedi alla Chiesa?”. Quegli risponderà: “La fede”. Una risposta che deve essere il fermo proposito di una vita. Il fallimento della speranza e della carità dipende spesso da una mancanza di fede, da una visione troppo umana delle circostanze che dimentica l’abbandono al piano di Dio.
Il riconoscimento da parte degli Stati, delle nazioni, della regalità di Cristo, comincia con l’accettazione di questa regalità su ciascuno di noi. Il motu proprio Summorum Pontificum di Sua Santità il Papa Benedetto XVI ci permette di attingere nella pace alle ricchezze liturgiche della forma extraordinaria. Alla nostra gratitudine si aggiunge un dovere che oso riassumere in una domanda: la nostra fede è altrettanto extraordinaria quanto il rito che celebriamo? Ricentrare la liturgia su Cristo non ha che uno scopo: diventare noi stessi dei veri testimoni della regalità di Cristo, vivere di Cristo e per Cristo, a tal punto che tutti dovrebbero poter dire: “è Cristo che vive in loro”.
Questo pellegrinaggio di azione di grazie ci conduce a Roma mentre si conclude la XIV Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi sul tema: “La vocazione e la missione della famiglia nella Chiesa e nel mondo contemporaneo”.
Re di ogni uomo, Cristo è anche Re delle famiglie.
In più occasioni, per esempio nel corso delle udienze del mercoledì, Sua Santità il Papa Francesco ha proposto una ricca e profonda riflessione sulla famiglia. Durante il suo recente viaggio in Ecuador, il Vangelo delle nozze di Cana gli ha dato occasione di affrontare il tema:
“Le nozze di Cana, diceva il Papa, si rinnovano in ogni generazione, in ogni famiglia, in ognuno di noi e nei nostri sforzi perché il nostro cuore riesca a trovare stabilità in amori duraturi, in amori fecondi, in amori gioiosi. Facciamo spazio a Maria, ‘la madre’, come afferma l’evangelista. E facciamo ora insieme a lei l’itinerario di Cana. Maria è attenta… Maria è Madre… Maria prega… Ella ci insegna a porre le nostre famiglie nelle mani di Dio: ci insegna a pregare, alimentando la speranza che ci indica che le nostre preoccupazioni sono anche preoccupazioni di Dio. E, alla fine, Maria agisce. Le parole ‘fate quello che vi dirà’, rivolte a quelli che servivano, sono un invito rivolto anche a noi, a metterci a disposizione di Gesù, che è venuto per servire e non per essere servito. Il servizio è il criterio del vero amore. Chi ama serve, si mette a servizio degli altri. Questo si impara specialmente nella famiglia… (Santa Messa per le famiglie, Parque de los Samanes, Guayaquil, lunedì 6 luglio 2015)”.
Essere attenti, pregare e servire, sono le indicazioni dateci da Maria.
San Luca ricorda l’atteggiamento di Maria: Ella “serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore” (Lc 2,19). La parola latina per “meditandole” è “conferens”, letteralmente “portandole tutte insieme nel suo cuore”. Il cuore di Maria è il luogo di una alchimia d’amore. È là che Ella rende grazie, là che prega, ed è ancora là che ella soffre e che si offre.
Mentre si avvicina l’anno giubilare della Misericordia, i nostri cuori sono il luogo di un dialogo con Cristo Re? Portiamo in essi gli avvenimenti gioiosi, luminosi, dolorosi e gloriosi delle nostre vite, meditandoli in segreto per derivarne una regola per il nostro agire?
“Quante divisioni ha il Papa?”. Stalin avrebbe potuto dire: “Quanti cuori?”. Perché un cuore donato a Cristo è molto più temibile di una divisione?
In questi giorni in cui i genitori di santa Teresa del Bambin Gesù sono appena stati canonizzati, mi sovvengono alcune parole di loro figlia, e ve le lascio come viatico in questa santa città di Roma, cuore della cristianità:
“Considerando il corpo mistico della Chiesa, non mi ero riconosciuta in alcuno dei membri descritti da san Paolo, o piuttosto volevo riconoscermi in tutti… La Carità mi dette la chiave della mia vocazione. Capii che, se la Chiesa ha un corpo composto da diverse membra, l’organo più necessario, più nobile di tutti, non le manca, capii che la Chiesa ha un cuore, e che questo cuore arde d’amore. Capii che l’amore solo fa agire le membra della Chiesa, che, se l’amore si spegnesse, gli apostoli non annuncerebbero più il Vangelo, i martiri rifiuterebbero di versare il loro sangue… Capii che l’amore racchiude tutte le vocazioni, che l’amore è tutto, che abbraccia tutti i tempi e tutti i luoghi… In una parola che è eterno! Allora, nell’eccesso della mia gioia delirante, esclamai: Gesù, Amore mio, la mia vocazione l’ho trovata finalmente, la mia vocazione è l’amore!” (Manoscritto B, folio 3, verso).
Amen.

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lunedì 19 ottobre 2015

Et semper superexaltet misericordiam iudicio

Bernardo Luca Sanz (c. 1650-c. 1710),
San Benedetto, olio su tela del 1700, presso
il Monastero San Benedetto di Bergamo
Il codice penitenziale della Regola di san Benedetto

Consentitemi di parlarvi del codice penitenziale della Regola, che rappresenta una parte alquanto lunga e apparentemente spaventosa dell’opera di san Benedetto. Ma il santo fondatore ci rassicura immediatamente. Il codice penitenziale è al cuore di una visione più grande e più luminosa. Il monastero è fondamentalmente una scuola al servizio del Signore e una strada che segue un orientamento positivo. Nello spirito di san Benedetto, Dio ha messo del bene in noi, ci invita a seguirlo nella gloria e ad aprire i nostri occhi alla luce che divinizza. San Benedetto parla inoltre della dolcezza della virtù e della carità che scaccia ogni timore. Infine, egli conclude la sua Regola sul buon zelo e su un’umile constatazione: non tutto è contenuto nei 73 capitoli della Regola. Egli lascia così dei grandi confini in prospettiva.
Ma san Benedetto sa anche che il monaco è un peccatore, che egli sia abate, priore, ufficiale, fratello anziano, adulto o novizio. Se il peccato non è al centro della sua spiritualità, esso rimane comunque là, assai presente. Ecco perché, come padre colmo di saggezza realista, egli dedica una parte non trascurabile della sua Regola a un codice penitenziale, che respira con i suoi due polmoni: la giustizia e la misericordia.

La giustizia

San Benedetto fonda anzitutto il suo codice penitenziale sulla giustizia, in tre modi.

a) Un contratto

Il monaco che fa la sua professione conosce la Regola, riferimento oggettivo per tutti. Essa dev’essere letta spesso, per escludere ogni pretesa d’ignoranza. La Regola non è un regolamento di caserma, ma una regola di vita con un regolamento conosciuto e accettato. Si sa quel che si può fare e ciò che non si deve fare. A Vicovaro, il monastero dove egli ha esercitato il suo primo ministero d’abate, san Benedetto non permise più ciò che era interdetto dalla Regola in vigore in quel luogo. Questo gli valse un tentativo di assassinarlo da parte dei suoi monaci.
Il riferimento alla Regola si oppone alla decadenza della comunità, come pure all’arbitrarietà e alle passioni dei superiori: collera, gelosia e abuso o, in altro senso, accecamento, indolenza e affetto particolare troppo indulgente. Si tratta di una medesima Regola e quindi della stessa luce per tutti: perché la giustizia è fondamentalmente oggettiva.
Infine, compete all’autorità, e non a qualunque fratello, il diritto e il dovere di correggere. Del resto, quelli che correggono gli altri senza mandato, saranno essi stessi corretti, e così la Regola vale per tutti.

b) Una giusta proporzione

Non si tratta del precetto “occhio per occhio, dente per dente” dell’antica legge – che d’altro canto frenava l’esagerazione della vendetta –, ma della giusta proporzione fra la dose del rimedio da applicare e l’ampiezza del male da sradicare.
I fatti pubblici dovranno essere riparati pubblicamente. Dom Gérard ci disse un giorno in capitolo che la legge morale era un po’ come una barriera. Rompendola, anche solo una volta, la comunità poteva immaginare di non esistere più. È quindi necessario riparare pubblicamente, rimettere in sesto questa barriera, per l’edificazione di tutti, ma anche per una più grande onta del colpevole, al fine di guarirlo. In questo modo il bene comune è rispettato.
Più la colpa è grave o più volte essa è ripetuta – il fratello mostrando in ciò una mancanza di buona volontà –, maggiormente la penitenza dovrà essere importante. Per esempio, i ritardi meritano la pena leggera di rimanere all’ultimo posto in coro. Ma la disobbedienza scandalosa merita fino all’esclusione. In sintesi, la pena sarà tanto più rigorosa quanto più la colpa è grave.
Quanto più il fratello ha delle responsabilità, maggiormente si deve applicare il codice penitenziale, perché la corruzione dei migliori è sempre la peggiore. Occorre in effetti tenere conto del cattivo esempio e le inevitabili prese di parte della comunità che possono conseguirne.
Due ragioni spiegano l’imposizione rapida della pena: da una parte perché il vizio o la cattiva abitudine contratta non ingrandiscano. D’altro canto, affinché il nesso fra la colpa e la sanzione sia sensibile. Giacché non serve a nulla rimproverare a qualcuno una colpa commessa da sei mesi!
Concretamente, devo precisare che le colpe menzionate da san Benedetto sono: il mormorare, disobbedire, la mancanza di puntualità, le colpe di canto al coro, o di cura per i più piccoli, i malati o gli anziani, l’infedeltà nella lettura, le mancanze nel silenzio e nella clausura, e infine la negligenza per le cose materiali, che devono essere trattati come i vasi sacri.

c) Fino in fondo

La pena dovrà seguire una progressione conforme al giudizio dell’abate: egli comincerà con un primo avvertimento, poi un secondo e infine – se necessario – un terzo. In seguito egli passerà alla correzione regolare, a una punizione da compiere, come una visita al santissimo sacramento o la recita del Salmo 22. Se, Dio non voglia, è necessario andare oltre, l’abate può deporre il monaco dalla sua carica. E se tutto questo risulta inefficace, l’abate dovrà spingersi fino all’espulsione del monaco dal monastero; misura estrema la cui procedura canonica assicura la difesa dell’accusato.
La giustizia dev’essere compiuta fino in fondo e non deve semplicemente coprire la colpa con un velo. San Benedetto chiede che il fratello riconosca la propria colpa e faccia penitenza fino a che il Padre Abate avrà giudicato sufficiente la soddisfazione. La giustizia di Dio è una giustificazione; essa rende giusto, trasforma il cuore in profondità, in vista di condurre una nuova vita, sotto la guida del Vangelo e al seguito di Cristo.

La misericordia

La misericordia è ben presente nella Regola e nell’applicazione della giustizia. Essa la precede, l’accompagna e la sorpassa. Si potrebbe dire che essa la compie.
a) La misericordia precede la giustizia, nel senso che la giustizia è una lotta preservante la carità, la virtù e il bene di ciascun fratello. La Regola chiede al superiore di fare un esame di coscienza prima di agire. Per esempio, nel capitolo sul priore, gli chiede di determinare se è la gelosia, la collera o il bene a ispirarlo. Il potere di rendere giustizia esige d’agire in coscienza e necessita una certa attitudine a entrare in sé stesso, al fine di fare prevalere la luce della ragione e della vera carità.
b) Essa l’accompagna, nel senso che la giustizia dev’essere applicata in maniera misericordiosa. Anzitutto, in maniera progressiva, come prima si è detto. Si previene una volta, due volte, se necessario tre volte, e se questo non basta la disciplina regolare ne consegue. Procedendo in tal modo, la giustizia piena di misericordia si richiama alla ragione e non alla brutalità.
La misericordia presta attenzione a non raschiare la ruggine, a non spegnere il lucignolo fumigante. Il Padre Abate deve ricordarsi che è egli stesso oggetto della misericordia di Dio, e che deve togliere la trave dal proprio occhio prima di togliere la pagliuzza dall’occhio dei fratelli. Qualora si giungesse al parossismo, Dio non voglia, e i legami si rompono, il Padre Abate invierà una “senpecta” – un amico fidato – che consolerà il monaco affinché non sia sommerso da eccessiva tristezza. E se tutto questo non sarà sufficiente, rimane infine la misericordia della preghiera, supplicando lo Spirito santo di riscaldare i cuori.
c) Infine, la misericordia sorpassa la giustizia. San Benedetto chiede che il Padre Abate cerchi di essere più amato che temuto. Egli deve sempre fare trionfare la misericordia sulla giustizia. Non fare scomparire la giustizia, ma credere che per convertire i cuori, la misericordia è più efficace della stretta giustizia, affinché i monaci non antepongano assolutamente nulla a Cristo, che ci conduca tutti insieme alla vita eterna.
Voi mi direte: ah!, ciò che chiede san Benedetto è impossibile: andare fino in fondo con la giustizia e fare sempre prevalere la misericordia. Non è impossibile, è il modo di agire della Provvidenza, che guida sempre fortiter e suaviter – con forza e dolcezza –, secondo lo stesso Spirito santo, e che san Gregorio Magno chiama “l’arte delle arti”.

[Dom Louis-Marie Geyer d'Orth O.S.B., abate del monastero Sainte-Madeleine di Le Barroux, Lettre aux oblats, n. 91, 5 ottobre 2015, pp. 1-2, trad. it. di fr. Romualdo Ob.S.B.]

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lunedì 12 ottobre 2015

Madre Abbadessa al Monastero San Benedetto di Bergamo

Siamo molto lieti di annunciare che in data odierna il Capitolo conventuale del Monastero San Benedetto di Bergamo ha eletto la nuova Madre Abbadessa: Sr. M. Cristina Picinali O.S.B.
Ci uniamo con fraterne preghiere al ministero d’amore a cui la nuova Madre Abbadessa è stata chiamata per guidare il “piccolo gregge” che il Signore le ha affidato, certi che saprà condurre la comunità monastica nella solida fedeltà alla Regola del Santo Padre Benedetto.
Un pensiero di gratitudine a Sr. M. Tarcisia Pezzoli O.S.B., che ha preceduto nel gravoso incarico abbaziale la Reverenda Madre M. Cristina, per il tanto bene profuso a favore della comunità del Monastero San Benedetto di Bergamo.

Ut in omnibus glorificetur Deus.




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giovedì 1 ottobre 2015

L'autorità del capofamiglia

La scelta della scuola è motivo d’angoscia per alcuni genitori pronti a fare dei grandi sacrifici per poter dare una buona formazione ai loro figli. Ma attenzione! La scuola non si occupa di tutto. Al contrario, i genitori sono i primi educatori delle anime che Dio ha loro affidate in modo così esclusivo. La maggior parte dell’educazione si compie in casa. Permettetemi allora di darvi qualche consiglio pedagogico di base, tratto dalla Regola di san Benedetto, dal capitolo dedicato all’Abate; alcuni consigli di buon senso sull’autorità dei genitori. L’autorità dei genitori, del padre e della madre, è assolutamente necessaria per la riuscita di una buona educazione.
Il padre e la madre ricordino il nome che portano [1] e concretizzino con i loro atti il titolo di “capo famiglia”. Ciò vuol dire che prendano coscienza della loro partecipazione all’autorità di Dio sui figli; di fatto hanno una vera autorità sui loro figli quanto alle verità da conoscere e al comportamento cui attenersi. Devono dare ordini e istruzioni che siano come lievito per le anime [2]. Il padre e la madre si ricordino che dovranno dare il giusto rendiconto al giudizio di Dio [3]: sia dei loro insegnamenti sia dell’obbedienza dei loro figli [4]. Avranno insegnato le verità, e avranno fatto ciò che bisogna per i figli perché vi obbediscano? Perché non è sufficiente spiegare, ma bisogna anche fare applicare.
Molti genitori non credono più alla loro autorità o si esonerano da essa, perché è una responsabilità difficile e laboriosa condurre le anime. Difficile, perché l’educatore deve adattarsi a ciascun temperamento [5]: a uno saranno sufficienti i consigli, altri dovranno essere ripresi più spesso, altri ancora dovranno essere corretti più duramente. Difficile, perché non devono chiudere gli occhi sulle stupidaggini, ma al contrario devono stroncare gli sbagli e i peccati fino alla radice, e il più presto possibile, al fine d’inculcare ai figli le buone abitudini. Nello stesso tempo, la correzione dev’essere giusta e non deve raschiare troppo la ruggine né spezzare la canna incrinata [6].
Un punto molto importante: l’unione tra il padre e la madre. Il raddoppiamento dell’autorità è voluto da Dio perché la rafforza e nello stesso tempo l’addolcisce, grazie alla diversità delle sensibilità. Ma questa doppia autorità non è senza pericolo. Se i figli sentono un’opposizione tra i due, non avranno la tranquillità di spirito per ricevere in profondità i buoni insegnamenti. Rischiano anzi di prendere parte per l’uno o per l’altro o d’insinuarsi nella frattura per seguire i propri piaceri, o ancora di prendere pretesto da questo scompiglio per rigettare tutto. Secondo san Benedetto, il disaccordo tra le autorità è la peggiore cosa che possa capitare a una comunità [7]. Per contro, l’autorità dei genitori sarà più favorevolmente accettata se i genitori avvaloreranno l’esempio con le loro azioni. Devono inculcare ciò che è buono e sano più con i fatti che con le parole [8]. E il primo e fondamentale comportamento è l’unione.
Un ultimo appunto: san Benedetto mette in guardia i “capi famiglia” dall’ignorare l’educazione delle anime, curando più le cose passeggere, terrestri e caduche [9]. I genitori non si preoccupino eccessivamente delle modiche risorse, lasciando spesso i figli soli a casa. Un bambino dovrebbe trovare sempre qualcuno a casa quando rientra dalla scuola. Qualcuno e non qualcosa.

[1] Cfr. RB 2,30.
[2] “Il comando e l’insegnamento suo penetrino dolcemente nell’animo dei discepoli come fermento di divina giustizia” (RB 2,5).
[3] “[L’abate] sappia bene che chi prende anime a governare, deve prepararsi a darne rendiconto; e ritenga per certo che quanti fratelli egli sa d’avere sotto la sua cura, di altrettante anime dovrà nel giorno del giudizio render ragione al Signore” (RB 2,37).
[4] “Ricordi sempre l’abate che della sua dottrina come dell’obbedienza dei discepoli, dell’una e dell’altra certo, si farà rigoroso esame nel tremendo giudizio di Dio” (RB 2,6).
[5] “Sappia quanto difficile ed ardua sia l’impresa che assume di governare anime e di prestarsi alla diversa indole di molti, trattando uno con la dolcezza, un altro invece con i rimproveri, un altro con la persuasione: secondo il carattere e l’intelligenza di ciascuno, egli a tutti si conformi e si adatti, in modo che non solo non debba lamentare perdite nell’ovile affidatogli, ma anzi possa rallegrarsi dell’incremento del gregge buono” (RB 2,31).
[6] “Anche nel punire agisca con prudenza e sia attento a non eccedere, perché non avvenga che mentre vuol troppo raschiare la ruggine, si rompa il vaso: consideri sempre con diffidenza la sua fragilità e ricordi che la canna percossa non bisogna spezzarla. Con ciò non intendiamo dire che permetta il fomentarsi dei vizi ma che deve stroncarli con prudenza e carità, secondo che gli parrà più conveniente per ciascuno, come già dicemmo; e si sforzi d’essere amato piuttosto che temuto” (RB 64,12-15).
[7] “Sicché, mentre l’abate e il priore discordano l’uno dall’altro, le loro stesse anime necessariamente vengono a tale scissione a trovarsi in pericolo, e i loro sudditi, parteggiando per l’uno o per l’altro, vanno in perdizione. Situazione disastrosa” (RB 65,8).
[8] “Quand’uno dunque prende il nome di abate, deve governare i suoi discepoli con duplice insegnamento, deve cioè tutto quello ch’è buono e santo, mostrarlo con i fatti più che con le parole” (RB 2,11-12).
[9] “Anzitutto non trascuri o tenga in poca stima la salvezza delle anime a lui commesse per preoccuparsi di più delle cose transitorie, terrene e caduche” (RB 2,33).

[Dom Louis-Marie Geyer d'Orth O.S.B., abate del monastero Sainte-Madeleine di Le Barroux, editoriale di Les amis du monastère, n. 155, 15 settembre 2015, pp. 1-2, trad. it. a cura delle monache del monastero San Benedetto di Bergamo, con l’aggiunta delle note che rimandano al testo della Regola, versione di Dom Anselmo Lentini O.S.B. (1901-1989), 4° edizione, Montecassino 1979)]

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venerdì 18 settembre 2015

Non doniamo la nostra vita a Dio senza conseguenze

Al di fuori di Dio e della fede, i monaci sono incomprensibili. Non bisogna aver paura di dire che non servono a niente. Eppure, il monaco sa che la sua vocazione è misteriosamente utile, perché misteriosamente efficace per gli uomini; riconosce che la sua povera esistenza è una partecipazione imperfetta alla vita, alla passione e alla morte dolorosa di Gesù Cristo. Ma la sua anima non vuole perdere di vista le ferite di Nostro Signore. [...]
In una lettera a Jacques e Raïssa Maritain, Léon Bloy scriveva: "Quali che siano le circostanze, mettete sempre l'invisibile davanti al visibile, il Soprannaturale avanti al naturale; se applicate questa regola a tutti i vostri atti, siamo certi che sarete rivestiti di forza e immersi in una profonda gioia". Pur senza volerlo, l'autore ha riassunto l'essenza dell'ambizione del monaco.
I monaci sono stelle brillanti che conducono silenziosamente l'umanità verso i cammini della vita interiore. La loro intera vita, fin nei suoi minimi dettagli, è centrata in Dio. Non bisogna meravigliarsi che questo dono assoluto possa produrre effetti che superano la semplice razionalità. Non doniamo la nostra vita a Dio senza conseguenze.
San Benedetto aveva l'assillo di piacere veramente a Dio. Nelle biografie che sono dedicate a lui, sono sempre stato colpito dalla sua gioia di vivere sotto lo sguardo di Dio. Concepiva la solitudine come una prova d'amore. Ci ha donato delle regole che permettono di disporre delle armi adeguate per condurre il difficile combattimento della vita interiore. La sua ambizione era di dare ai monaci i mezzi per abitare sotto lo sguardo di Dio. Con la foga dei timidi, questo grande santo era divorato dal desiderio di essere in Dio. L'ordine che ha fondato ha acquisito un posto fondamentale nella storia della Chiesa e, ancora di recente, non credo di tradire un segreto nell'affermare che l'esempio dei benedettini è stato determinante per Joseph Ratzinger. La sua sete esclusiva di Dio assomiglia in tutto a quella dei monaci. [...]
Ormai, quando ritorno in Guinea, non manco di dedicare almeno due giorni ai benedettini e alle benedettine. Amo i monasteri poiché sono le cittadelle di Dio, le piazzeforti in cui possiamo trovarlo con maggiore facilità, le muraglie dove il cuore di Gesù veglia con dolcezza.

[Robert Sarah, Dio o niente. Conversazione sulla fede con Nicolas Diat, trad. it., Cantagalli, Siena 2015, pp. 344-345, pp. 348-349 e p. 350]

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