Domenica 3 dicembre 2017 è iniziato il Tempo dell’Avvento ed è perciò entrato in vigore il nuovo calendario liturgico. Per quanti desiderano recitare l’Ufficio monastico – che, lo ricordiamo, può essere ascoltato in diretta – e seguire il calendario liturgico nella forma extraordinaria del Rito romano in uso presso l’abbazia Sainte-Madeleine di Le Barroux, è ora disponibile online in formato pdf l’Ordo Divini Officii 2018 (il cui link permanente rimane durante l’anno anche nel menu “Liturgica” del blog Romualdica).
lunedì 4 dicembre 2017
giovedì 23 novembre 2017
L’anima del monaco
Giovanni Nardini, L’anima del monaco. Vita nell’Eremo di Minucciano, Pezzini Editore, Viareggio (Lucca) 2017, 96 pp. in grande formato. Con testi di Fra Mario Rusconi, Don Mauro Lucchesi, Angela Rosi, Giovanni Nardini.
[Dalla presentazione redazionale:] Il libro, composto da 83 immagini, ci conduce in uno dei luoghi più suggestivi della Garfagnana: l’Eremo di Minucciano, l’ultimo eremo abitato da monaci eremiti che si ispirano alla regola benedettina dell’Ora et Labora. Nardini ha avuto il permesso/privilegio di entrare in questo luogo riservato e attraverso intensi scatti in bianco e nero ci rappresenta i momenti della vita di ogni giorno: la preghiera, la lettura, le varie attività lavorative, fino ai momenti di meditazione nelle celle dei monaci. Osservando i volti, i gesti di questi monaci, si avverte una luce particolare, che la foto mette in risalto, ma che è la luce della quiete e dell’interiorità, la luce dell’“anima del monaco”. Nardini è entrato con rispetto e delicatezza in questo mondo e con lo stesso rispetto e accortezza accompagna prendendo per mano chi questa realtà non la conosce e ha il piacere di scoprirla tramite l’incanto delle sue fotografie.
L’anima del monaco
martedì 14 novembre 2017
«Chi è l’uomo che vuole la vita e desidera vedere giorni felici?»
[...] Nel tramonto della civiltà antica, mentre le glorie di Roma divenivano quelle rovine che ancora oggi possiamo ammirare in città; mentre nuovi popoli premevano sui confini dell’antico Impero, un giovane fece riecheggiare la voce del Salmista: «Chi è l’uomo che vuole la vita e desidera vedere giorni felici?» (Regola, Prologo, 15; cfr. Sal 33,13). Nel proporre questo interrogativo nel Prologo della Regola, san Benedetto pose all’attenzione dei suoi contemporanei, e anche nostra, una concezione dell’uomo radicalmente diversa da quella che aveva contraddistinto la classicità greco-romana, e ancor più di quella violenta che aveva caratterizzato le invasioni barbariche. L’uomo non è più semplicemente un civis, un cittadino dotato di privilegi da consumarsi nell’ozio; non è più un miles, combattivo servitore del potere di turno; soprattutto non è più un servus, merce di scambio priva di libertà destinata unicamente al lavoro e alla fatica.
San Benedetto non bada alla condizione sociale, né alla ricchezza, né al potere detenuto. Egli fa appello alla natura comune di ogni essere umano, che, qualunque sia la sua condizione, brama certamente la vita e desidera giorni felici. Per Benedetto non ci sono ruoli, ci sono persone: non ci sono aggettivi, ci sono sostantivi. È proprio questo uno dei valori fondamentali che il cristianesimo ha portato: il senso della persona, costituita a immagine di Dio. A partire da tale principio si costruiranno i monasteri, che diverranno nel tempo culla della rinascita umana, culturale, religiosa ed anche economica del continente.
[...] È proprio quanto fece san Benedetto, non a caso da Paolo VI proclamato patrono d’Europa: egli non si curò di occupare gli spazi di un mondo smarrito e confuso. Sorretto dalla fede, egli guardò oltre e da una piccola spelonca di Subiaco diede vita ad un movimento contagioso e inarrestabile che ridisegnò il volto dell’Europa. Egli, che fu «messaggero di pace, realizzatore di unione, maestro di civiltà» (Paolo VI, Lett. ap. Pacis Nuntius, 24 ottobre 1964), mostri anche a noi cristiani di oggi come dalla fede sgorga sempre una speranza lieta, capace di cambiare il mondo.
[Estratto del discorso di Papa Francesco ai partecipanti alla Conferenza (Re)Thinking Europe. Un contributo cristiano al futuro del progetto europeo, promosso dalla Commissione degli Episcopati della Comunità Europea (COMECE) in collaborazione con la Segreteria di Stato, del 28 ottobre 2017]
«Chi è l’uomo che vuole la vita e desidera vedere giorni felici?»
martedì 7 novembre 2017
La contentezza
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S.Em. il card. Robert Sarah in visita all’abbazia Notre-Dame de l’Annonciation (Le Barroux), il 16 agosto 2017 |
Cari amici,
È stato scritto
che la più grande confraternita del mondo è quella degli scontenti. Chi non ne
fa parte? È così naturale osservare cosa non funziona nel mondo! “Scontento di
tutti e scontento di me”, notava Baudelaire. Non stiamo parlando di una giusta
indignazione di fronte al male – come sarebbe per esempio la tristezza ispirata
dalla perdita delle anime –, ma di uno stato dello spirito insoddisfatto, del sentimento
penoso di essere frustrati nelle proprie aspirazioni, nei propri diritti.
Da dove viene
questo nostro essere scontenti? Abbiamo ricevuto grandi doni, ne riceviamo
continuamente. Ma anziché accontentarci della realtà, restiamo insoddisfatti di
ciò che abbiamo, spesso perché ci paragoniamo agli altri. Siamo come incapaci
di trovare la gioia in quanto possediamo. Percepisco nella stia un’immagine di
questa avidità: dei polli beccano con gioia; vedendo che i loro congeneri
ricevono qualcosa, costoro accorrono a gambe levate per assaggiarlo,
dimenticando il bene di cui gioivano!
Quanto a noi,
disponiamo di ragione e di volontà, dunque della capacità di rinunciare a certi
desideri. Per prevenire la depressione, male del secolo, chi svilupperà una
spiritualità dell’accontentarsi? Chi saprà essere soddisfatto dei doni di Dio e
ringraziarlo? Costui conoscerà la festa di cui parla il Libro dei Proverbi: “per
un cuore felice è sempre festa” (15,15). Un maestro dei novizi benedettino ha spiegato
come assaporare questo pasto festivo: “Dico ai miei novizi: in monastero si è
contenti di quello che si riceve. Ogni tanto, fate un’orazione di contentezza,
passando in rassegna tutto ciò che avete ricevuto in monastero, pur avendo
fatto voto di povertà”.
In effetti, nel
capitolo sull’umiltà della Regola, san Benedetto dichiara che il monaco umile “si
contenta”, perché considerandosi un servo inutile, si ritiene sempre ben
trattato. Così commenta Dom Romain Banquet: “Essere contenti di tutte le cose:
di Dio, di noi stessi per i doni che Dio ci ha lasciato, dei nostri superiori,
dei nostri fratelli, della salute, della malattia, della vita e della morte. Sempre
contenti, sempre: giacché è questo il carattere proprio e il fondo della vita
religiosa”.
D’accordo, diranno
taluni, ma Dom Romain parlava per i religiosi! Certo, ma questa spiritualità
non affonda le sue radici nel Vangelo, in particolare nelle Beatitudini? Coloro
che non pongono la loro felicità né nel denaro né nel piacere, ma nella volontà
divina, costoro sono ricchi di gioia. L’amore di Gesù informa le loro
sofferenze, le loro gioie, le loro delusioni, i loro successi. Dà senso a
tutto. Sì, solo lo sguardo della fede ci permette di aderire al piano di Dio,
spesso sconcertante per i nostri occhi umani. “Lo capirai dopo”, dice Gesù a
san Pietro. Anche noi spesso è “dopo” che percepiamo la Sapienza che ci guida.
Legata alle virtù teologali di fede, speranza e carità, la contentezza si
impara, si chiede come una grazia. Con essa, la vita è così più dolce!
Era questa l’idea maestra
di Chesterton, come lo scrittore testimonia nella sua autobiografia: “Non dirò
che è la dottrina che ho sempre insegnato, ma è la dottrina che avrei sempre
amato insegnare. Questa idea, è di accettare tutte le cose con gratitudine, e
non di reputarle come dovute” (Gilbert Keith Chesterton, L’homme à la clef d’or, Les Belles Lettres, Paris, 2015, p. 416).
Cari amici, smettiamola
di appartenere alla confraternita degli scontenti. Basta! Natale, la
meravigliosa festa dei doni, si avvicina. Non è il momento di sacrificare tutto
ciò che in noi si oppone alla gioia di Dio? Nella santa Notte, il nostro Padre
del Cielo ci offrirà il suo unico Figlio. Possiamo noi donargli questa buona
volontà che porta la pace sulla terra, dicendogli, al seguito del padre
Bourdaloue: “Signore, non so se siete contento di me. Ma ciò che io posso dire,
e sono felice di darne pubblica testimonianza, è che io sono molto contento di
voi”.
[Madre Placide Devillers
O.S.B., Abbadessa di Notre-Dame de l’Annonciation, Le Barroux, La Font
de Pertus. Lettre des moniales, n. 107, 26 ottobre 2017, pp. 1-3, trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B.]
La contentezza
lunedì 30 ottobre 2017
Il monaco ha diritti?
Non cercate nella Regola l’espressione “i
diritti dell’uomo”; non la troverete. Dunque i monaci non hanno alcun diritto? Così
formulata, nessuno. Se non, forse, che nel capitolo sulle obbedienze impossibili,
è detto che il monaco ha il diritto di segnalare al superiore che l’ordine dato
è superiore alle sue forze.
Ma per comprendere il
pensiero di san Benedetto, la bella armonia che egli vuole fare regnare nel
chiostro, facciamo qualche esempio. Il monaco ha diritto di possedere una
penna, della carta e tutte le altre cose indispensabili alla sua vita
contemplativa? Sembra di si, perché san Benedetto giudica questi oggetti
indispensabili, ma egli non dice esplicitamente che il monaco “ha il diritto”
di averli a suo uso; dice che l’abate “ha il dovere” di darglieli. Un altro
esempio: l’abate ha il diritto di essere obbedito dai monaci? In nessuna parte
della Regola troverete questo diritto espresso in modo così diretto. No, san
Benedetto intende semplicemente che i monaci hanno il dovere di obbedire al
loro superiore. I monaci hanno il diritto di mantenere il loro ruolo nella
comunità e di ricevere un medesimo affetto da parte dell’abate? San
Benedetto non dice così, ma che il superiore ha il dovere di non perturbare l’ordine
senza ragione e soprattutto di non fare preferenze tra le persone. San
Benedetto insiste quindi sui doveri reciproci e non sui diritti.
Tutto ciò sembra del tutto
uguale, poiché infine i monaci hanno le loro penne, il padre abate è obbedito e
l’ordine è rispettato. Ma non è affatto uguale, perché nell’una e nell’altra
formula lo spirito è del tutto diverso e finanche agli antipodi. L’una,
insistendo sui doveri, favorisce la carità; l’altra, insistendo sui diritti,
favorisce l’egoismo. Finalmente, è la differenza tra la città di Dio, in cui l’amore
per Dio e il prossimo arriva all’odio di sé, e la città del diavolo, dove l’amore
per sé arriva all’odio per Dio e il prossimo.
È questa una della ragioni
per cui san Benedetto vieta ogni mormorazione in comunità. In effetti, le
mormorazioni sono spesso dovute alla rivendicazione dei diritti. Già all’inizio
della Regola, san Benedetto prende in giro quei sedicenti monaci che chiamano
santo tutto quello che torna loro comodo. Il monaco non deve mai reclamare nulla
per sé, ciò che esprime bene che l’anima del monaco si eleva a Dio pensando non
ai propri diritti, bensì ai propri doveri. Lo stesso vale per le famiglie. San
Paolo non richiama i mutui diritti degli sposi, ma i loro doveri, e
specialmente quelli del marito, che si deve sacrificare per la moglie. Così è per
le relazioni tra genitori e figli.
Ciò vale inoltre per le aziende.
Nei colloqui di lavoro si presentano dei giovani candidati che portano sottobraccio
un dossier contenente i loro innumerevoli diritti: la riduzione del tempo di
lavoro, le ferie e altri grandi valori repubblicani. E se gli imprenditori non
pensano che ai loro profitti, come meravigliarsi del circolo vizioso che porta
ai conflitti?
Possiamo applicare il
medesimo ragionamento alla stampa. Se la regola suprema è il “diritto di sapere”,
come stupirsi di tante mancanze verso il dovere della carità e il rispetto dell’onore
di ciascuno? Il peggio è che, da quando la legge consente l’aborto – ormai diventato
un diritto fondamentale della donna –, lo spirito della società è passato dai
diritti del bambino – che infine sono i doveri dei genitori – a un diritto al
bambino. È diabolico.
Ma noi abbiamo l’esempio e la grazia di Gesù Cristo, il quale non ha reclamato il diritto di essere trattato come uguale a Dio, ma ha compiuto il suo dovere fino alla fine. Imitiamolo.
Ma noi abbiamo l’esempio e la grazia di Gesù Cristo, il quale non ha reclamato il diritto di essere trattato come uguale a Dio, ma ha compiuto il suo dovere fino alla fine. Imitiamolo.
[Dom Louis-Marie Geyer d’Orth O.S.B., abate del monastero Sainte-Madeleine di Le Barroux, editoriale di Les amis du monastère, n. 163, 22 settembre 2017, pp. 1-2]
Il monaco ha diritti?
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giovedì 19 ottobre 2017
Frutti della grazia del motu proprio Summorum Pontificum per la vita monastica e la vita sacerdotale / prima parte
Nell’ambito delicato della liturgia, in cui le
suscettibilità sono in agguato, il soggetto di questo intervento comporta un
vantaggio. Sganciato da ogni ideologia, esso si vuole risolutamente pragmatico.
Il contadino, quando pianta un seme, può avere un’ideologia. Quando raccoglie,
non è più lo stesso. Al contatto con il reale, con la natura, l’ideologia ha
contribuito alla nascita di un frutto. Un frutto che può raccogliere; un frutto
che può essere bello, piccolo, talora assente.
Dieci anni fa, Papa Benedetto XVI ha realizzato un
progetto maturato sin dai primi tempi del suo incarico di prefetto della
Congregazione per la Dottrina della Fede: ridare uno statuto ufficiale al
messale del 1962, attraverso la promulgazione del motu proprio Summorum Pontificum.
Mettiamoci umilmente al servizio non dei nostri
pensieri, ma della Chiesa, e più particolarmente della sua liturgia,
considerando i frutti di questo documento per la Chiesa universale.
In un primo momento, vorrei evocare la storia
liturgica dell’abbazia di Fontgombault, come una panoramica. Seguiranno delle
riflessioni sui frutti del documento pontificio secondo i punti di vista del
rito e della Chiesa.
Storia
Dom Jean Roy O.S.B. (1921-1977), Abate di
Notre-Dame di Fontgombault dal 1962 al 1977, accolse di buon grado il piccolo
convoglio di riforme dell’Ordo Missæ,
nel 1965. Non fu tuttavia senza qualche apprensione che seguì la fermentazione,
che sfocerà nel 1969 nella promulgazione di un nuovo Ordo Missæ, del quale percepì al contempo le qualità e i limiti.
Fedele al principio di non dire nulla che non sia
teologicamente certo, né di fare alcunché che non sia canonicamente in regola, e contro numerose e forte pressioni,
il Padre Abate mantenne l’uso del messale tridentino fino alla fine del 1974.
Secondo il documento di promulgazione del nuovo
messale, esso sarebbe diventato obbligatorio quando le conferenze episcopali
avessero ottenuto l’approvazione della traduzione. Fu questo il caso alla fine
di quell’anno. Il Padre Abate ottemperò, non senza reticenze, ma considerando
che i monaci non dovevano nemmeno dare l’impressione di disobbedire. Più tardi,
dirà che la sua decisione rilevava più dalla prudenza che dall’obbedienza,
poiché non era certo che il nuovo messale fosse obbligatorio e che il messale
tridentino fosse legittimamente interdetto. L’avvenire mostrerà che il suo
dubbio era giustificato.
Il Padre Abate raccomandò ai sacerdoti dell’abbazia
di conservare nella celebrazione dei santi misteri le disposizioni di pietà, di
rispetto, di senso del sacro che avevano acquisito alla scuola del messale
tridentino.
È in questo clima liturgico pesante che il Padre
Abate ha concluso la sua vita, in occasione di un Congresso benedettino a Roma,
nel 1977; una vita senza dubbio abbreviata, almeno parzialmente, dalla lotta che
non ha cessato di condurre per la difesa della santa Chiesa e della sua
Tradizione.
Mediante la lettera circolare Quattuor abhinc annos, del 3 ottobre 1984, inviata alle conferenze
episcopali, la Congregazione per il Culto divino faceva eco al desiderio del
Sommo Pontefice san Giovanni Paolo II (1920-2005), di dare soddisfazione ai
sacerdoti e ai fedeli desiderosi di celebrare secondo il messale romano
pubblicato nel 1962. A partire dalla festa dell’Annunciazione del 1985, i
sacerdoti del monastero – a condizione di farne personalmente richiesta
all’ordinario del luogo – ricevettero il permesso di dire la metà delle messe
della settimana secondo tale messale.
Una nuova tappa fu compiuta in seguito alle
infelici “consacrazioni di Ecône”, con la creazione della Pontificia
Commissione Ecclesia Dei. Al prezzo di trattative rese difficili in virtù di
persone influenti, Dom Antoine Forgeot O.S.B., successore del Padre Abate Jean,
ottenne dalla Commissione il rescritto del 22 febbraio 1989, autorizzando a
riprendere in maniera abituale il messale del 1962. Incoraggiata dalla
Commissione per tutto ciò che avrebbe potuto rappresentare un avvicinamento con
il messale del 1969, l’abbazia ha conservato il nuovo calendario per il
santorale, e ha adottato qualche nuova prefazio, una preghiera universale la
domenica… Queste usanze si riveleranno andare nella direzione del pensiero del
cardinale Joseph Ratzinger.
Il 7 luglio 2007, il motu proprio Summorum Pontificum ha reso il suo pieno
diritto di cittadinanza al messale del 1962. Se all’abbazia non fu occasione di
riunioni, già anticipate da più di vent’anni, esso ha aumentato la devozione
filiale e la gratitudine dei monaci nei confronti della Madre Chiesa e verso
Benedetto XVI.
Da questa data, un centinaio di sacerdoti desiderosi
d’imparare a celebrare nella forma extraordinaria – la cui età media è attorno
ai 30-40 anni –, sono venuti all’abbazia. Inviati dal loro vescovo in vista di
un ministero specifico, venuti da sé stessi al fine di rispondere alla
richiesta dei fedeli, o semplicemente desiderosi di celebrare in privato questa
forma venerabile per profittare della sua spiritualità, essi compiono il loro
soggiorno con la convinzione di avere scoperto un tesoro. Le difficoltà
incontrate riguardano l’uso della lingua latina e una presa di coscienza di una
“conversione” da compiere nella maniera di celebrare, sulla quale torneremo
oltre.
La gran parte di essi continueranno a praticare
abitualmente la forma ordinaria. Altri celebreranno regolarmente una o più
messe nella forma extraordinaria nella loro parrocchia – ciò che prevede il
motu proprio –, e non solo per dei fedeli relegati in una “piccola cappella”.
Come non vedere qui le primizie di un rinnovamento
della Chiesa orante, la nascita di sacerdoti e fedeli senza complessi, che
attingono generosamente alla fonte inesauribile della tradizione liturgica
della Chiesa, segnata almeno dalle preghiere del sacerdote – dette private –,
di spirito monastico. Il messale di san Pio V è un messale medievale. Beneficia
del clima di una società in cui il monachesimo ha svolto un ruolo capitale, sia
tramite Cluny sia attraverso Cîteaux. Arricchito dal contatto con la
tradizione monastica, esso è a immagine di ciò che san Benedetto chiede ai suoi
monaci: “non si anteponga nulla all’Opera di Dio” (RB 43,3).
Che dei sacerdoti riscoprano così il sacro, che i
fedeli se ne abbeverino, non può essere senza riverbero sulla società. Ecco già
uno dei primi frutti del motu proprio.
[Dom Jean Pateau O.S.B., Padre Abate dell’abbazia Notre-Dame di Fontgombault, “Fruits de la grâce du
motu proprio Summorum Pontificum pour
la vie monastique et la vie sacerdotale”, conferenza in occasione del V
Convegno sul motu proprio Summorum Pontificum, dal titolo Il Motu proprio Summorum Pontificum di Benedetto XVI: Una rinnovata
giovinezza per la Chiesa, svoltosi a Roma, presso la Pontificia Università
San Tommaso d’Aquino, il 14 settembre 2017. Trad. it. di fr. Romualdo Obl.S.B. / 1 - continua]
Frutti della grazia del motu proprio Summorum Pontificum per la vita monastica e la vita sacerdotale / prima parte
giovedì 12 ottobre 2017
Gli oblati benedettini
«Gli oblati sono dunque delle persone che vivono nel mondo, che desiderando condurre un’esistenza più cristiana e darsi a Dio in una maniera più completa, si fanno ammettere come membri di un monastero benedettino di monaci o di monache, promettendo di conformare ormai la loro vita alle massime fondamentali della Regola di san Benedetto, e d’imitare – nella misura del possibile – la vita dei monaci».
[Dom Germain Barbier O.S.B. (1891-1971), quarto abate del monastero Saint-Benoît d’En Calcat, in Lettre aux oblats, n. 99, 3 ottobre 2017, p. 4, trad. it. di fr. Romualdo Ob.S.B.]
Gli oblati benedettini
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