lunedì 13 ottobre 2014

La gioia in Rancé / quarta parte

[La prima parte qui; la seconda parte qui; la terza parte qui]
 
La gioia nei fratelli
 
I “solitari” di cui parla Rancé sono dei cenobiti, e ciascuno di essi è responsabile della gioia di tutti. Questo è vero anzitutto del superiore: “Che consoli gli afflitti…!”. Perché vi sono “ragioni pressanti per ricorrere a Dio per il riposo, la consolazione e la perfezione dei suoi fratelli” [24]. Il medesimo principio è però valido anche per tutti i membri della comunità. Occorre, dice a loro Rancé, “che vi rendiate gli uni gli altri i contrassegni della dolcezza, dell’affetto e della deferenza che la regolarità del monastero vi può consentire” [25]. Inoltre, la ragione per la quale costoro si devono il buon esempio, è che essi sono “impegnati negli stessi lavori, in una medesima guerra”:
“Come la timidezza e la debolezza di uno solo può causare un indebolimento e una perdita generale, e al contrario molti possono trovare la loro forza e la loro felicità nella costanza e nella fedeltà di uno solo, occorre che la loro difesa sia unica e costante. Che si aiutino gli uni gli altri; che i forti sostengano i deboli; che i più fermi sostengano quanti vacillano, affinché tutti siano uniti in un medesimo sforzo e in un eguale fervore, guadagnino un’identica vittoria, conseguano la stessa corona, e portino a termine le loro battaglie con un simile successo. Siate dunque persuasi che chi manca d’incoraggiare mediante il proprio esempio, tradisce la causa del suo Maestro, si separa dai suoi fratelli e abbandona la loro salvezza” [26].
Al dovere dell’esempio si aggiunge quello della “consolazione” reciproca. Ascoltiamo Rancé parlare di quella che si scambiano i malati con coloro che si prendono cura di loro:
“I fratelli s’illuminano e si edificano gli uni gli altri mediante l’esempio, si fortificano e si sostengono con la preghiera, e quale segno esteriore della loro carità, si legano e si rafforzano nell’unità di un medesimo corpo; senza di che una congregazione monastica non è altro che un assembramento di membri e di parti diverse, che non hanno fra loro né rapporto, né legame, né autentica intelligenza.
“Dovete quindi dare ai vostri fratelli tutte le testimonianze possibili di un affetto purissimo e cordialissimo, e non perdere una sola occasione di fare loro conoscere che li amate: Caritatem fraternitatis casto impendant amore [27]. Quanti sono applicati al servizio della comunità devono adempiere il loro ministero con tanta cura, puntualità e diligenza, che si possa considerare la bontà del loro cuore nelle loro azioni. Se sono incaricati di sollecitare gli ammalati, occorre che riconoscano Gesù Cristo nelle loro persone, che vuole sopportare ciò che non ha voluto soffrire nella propria, e che compie mediante tutti i languori, dolori e altri accidenti delle malattie con cui li visita, ciò che ancora manca alla perfezione delle proprie sofferenze…
“Ma se Gesù Cristo s’incontra nei fratelli infermi e che languono, non è meno in coloro che li consolano e che si applicano a soccorrerli” [28].
Così, nel suo insieme l’istituzione monastica è fonte di felicità: gioia favorita dall’esempio, dall’affetto, dalla preghiera dei fratelli: gioia assicurata dalle cure di cui i religiosi sono oggetto da parte della Chiesa, di cui Rancé dice, a proposito delle “mitigazioni”: “La Chiesa, come una madre caritatevole, toccata dalla sfortuna dei suoi figli e afflitta dalla loro caduta, si è abbassata per rialzarli” [29]. Gioia, infine, assicurata da Dio alla “religione”, cioè alla vita religiosa: “Essa s’impegna di servirlo secondo tutti i precetti, gli strumenti e le pratiche contenuti nella Regola di cui fa professione, e Dio promette in cambio di ricevere i suoi servizi, di renderla felice, e di essere lui stesso la sua felicità, la sua gloria e la sua ricompensa. Quest’obbligo è reciproco” [30].
 
[24] Cap. IX, q. 9, t. I, p. 284.
[25] Cap. X, q. 1, t. I, p. 315.
[26] Ibid., p. 318.
[27] Regula S. Benedicti, 72, 8-9. Rancé riunisce qui dei termini che la recente edizione critica della Regola ha dissociato come facenti parte di due diverse frasi: “caritatem fraternitatis caste impendant; amore Deum timeant”. Cfr. R. Hanslik, Benedicti Regula, CSEL 75, Vienna 1960, p. 163. Non si può tuttavia esigere da nessun autore del secolo XVII che egli anticipasse i risultati della filologia moderna, né quanto al testo della Regola che utilizza, né quanto all’interpretazione che ne dà.
[28] Cap. X, q. 4, t. I, pp. 328-329.
[29] Cap. XXIII, q. 6, t. II, pp. 659-660.
[30] Ibid., q. 2, p. 637. Alla fine dello stesso capitolo si parla ancora di “consolazione” (q. 7, p. 692) e della “gioia degli angeli” (q. 7, p. 693).
 
[Dom Jean Leclercq O.S.B., La joie dans Rancé, Collectanea Ordinis Cisterciensium Reformatorum, 25 (1963), pp. 206-215 (qui pp. 211-213), trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B. / 4 - segue]

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