mercoledì 24 agosto 2011

Benedetto e la bellezza

Ubi Benedictus ibi pulchritudo, verrebbe da dire ogniqualvolta ci si ritrovi, con stupore, in qualcuna di quelle vere e proprie oasi di bellezza scaturite dalla persona o dal carisma di san Benedetto da Norcia. Nelle grandi e celebri abbazie o nei piccoli e sconosciuti eremi si respira intatta la medesima scia di pace e di bellezza, di fusione tra la creazione divina e le opere umane, al punto da chiedersi – forse un po’ ingenuamente – se ci sia una “ricetta” particolare, se Benedetto abbia lasciato particolari direttive in proposito. Tuttavia compulsando la Regola benedettina alla ricerca del segreto si rischia di restare delusi: il termine “bellezza” non ricorre neanche una volta. Per il semplice motivo che non ce n’era bisogno: il segreto dei monaci è la loro stessa vita, poiché essi si dissetano costantemente alla fonte della bellezza.

La liturgia e la festa

Quella dei monaci è infatti una vita essenzialmente liturgica (“nihil Operi Dei praeponatur”, Regola, cap. XLIII), simile a quella degli angeli: non solo perché pregano incessantemente ma perché lo fanno disinteressatamente. “Essi pregano innanzitutto non per questa o quell’altra cosa, ma semplicemente perché Dio merita di essere adorato. […] È il 'servizio' per eccellenza, il 'servizio sacro' dei monaci. Esso è offerto al Dio trinitario che, al di sopra di tutto, è degno 'di ricevere la gloria, l’onore e la potenza' (Ap 4,11), perché ha creato il mondo in modo meraviglioso e in modo ancora più meraviglioso l’ha rinnovato” (Benedetto XVI). Di conseguenza, perennemente immersi nella Trinità, essi ne escono trasfigurati – diventano “Geistliche (cioè persone spirituali)” – e non possono fare a meno di trasfigurare tutte le loro attività. Inconsapevolmente essi “ornano” il mondo, perché la loro vita è essenzialmente festiva proprio nella misura in cui è impregnata di liturgia. Il filosofo tedesco Josef Pieper ci aiuta a cogliere più approfonditamente il legame tra festa e culto in un saggio intitolato Sintonia con il mondo. Pieper ci spiega che la “vera” festa, ciò che comunemente definiamo come “una bella giornata”, più che nell’attivismo si situa al livello della contemplazione, dell’ammirazione; ma questo è possibile solo se si riesce a gettare lo sguardo sul fondamento del mondo, per scoprirne quell’originaria ed essenziale bontà che, malgrado il male presente, resta intatta e irrevocabile. Qualunque sia il motivo contingente, “per rallegrarsi di qualcosa si deve approvare tutto” (Friedrich Nietzsche, cit. in J. Pieper). Non stupisce quindi che Pieper definisca il culto come il nucleo, anzi “la forma più festiva della festa”, poiché alla radice del culto vi è il consenso verso il mondo intero: “È di fatto 'un illimitato dire di sì e amen'. Ogni preghiera si conclude con queste parole, così va bene, così dev’essere, così sia, ainsi soit-il. Ugualmente si deve supporre che si sentirà risuonare il canto di lode dell’Alleluja. Anche il culto celeste delle visioni apocalittiche è un’unica acclamazione composta da ripetute esclamazioni come 'lode', 'esaltazione', 'onore', 'ringraziamento'”, e lo stesso termine eucaristia significa “azione di grazie”. Non a caso la Pasqua e quindi la domenica è la festa fondamentale del cristianesimo, è il primo e l’ultimo giorno, beneficium creationis“era cosa molto buona” (Gn 1,31) – e imago venturi saeculi: dietro ogni liturgia cristiana, irradiazione della Pasqua, c’è la festa eterna della creazione e della ri-creazione, che si svolge al di là del tempo.

Lo sguardo su Dio

Benedetto XVI, in visita all’abbazia di Heiligenkreuz, identifica la vera “ricetta” della bellezza monastica in quel “non si anteponga nulla all’opera di Dio” (cioè all’ufficio divino), che Benedetto raccomanda ai suoi monaci, ricordando loro che la partecipazione interiore all’ufficio divino consiste nel considerare “come bisogna comportarsi alla presenza di Dio e dei suoi Angeli” (Regola XIX): “La bellezza di una tale disposizione interiore si esprimerà nella bellezza della liturgia al punto che là dove insieme cantiamo, lodiamo, esaltiamo ed adoriamo Dio, si rende presente sulla terra un pezzetto di cielo. Non è davvero temerario se in una liturgia totalmente centrata su Dio, nei riti e nei canti, si vede un’immagine dell’eternità. Altrimenti, come avrebbero potuto i nostri antenati centinaia di anni fa costruire un edificio sacro così solenne come questo? Già la sola architettura qui attrae in alto i nostri sensi verso 'quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, le cose che Dio ha preparato per coloro che lo amano' (cfr 1 Cor 2,9)”. Non solo negli edifici sacri, poiché “in tutti i secoli i monaci, partendo dal loro sguardo rivolto a Dio, hanno reso la terra vivibile e bella. La salvaguardia e il risanamento della creazione provenivano proprio dal loro guardare a Dio”. E poiché bonum – ma anche pulchrumdiffusivum sui, dall’ora al labora, dagli altari ai campi, alle città, ai paesaggi, a partire da quell’unico sguardo (Ct 4,9) centrato su Dio è scaturita a raggiera, come un gigantesco ostensorio, un’intera civiltà plasmata anche visivamente dalla bellezza della liturgia. L’esempio dell’Austria, definita dal Papa Klösterreich – nel duplice senso di “regno di monasteri” e “ricca di monasteri” – vale per qualsiasi luogo fecondato dai figli di san Benedetto, dove persino l’ateo più accanito troverà ristoro per gli occhi e quindi per il cuore.

Bellezza e ordine

La vita liturgica dei monaci ci permette di scoprire anche un’altra dimensione della bellezza e della pace che ne deriva: l’ordine. Un monaco benedettino, François Cassingena-Trévedy, nel suo saggio su La bellezza della liturgia, mette in evidenza la connessione etimologica tra ornare e ordinare. La liturgia – che, ribadiamo, impregna tutta la vita, anzi tutto l’essere del monaco – mette ordine, tra le altre cose, anche nel tempo e, nello spazio, in vista del ripristino di quell’ordine primordiale, a cui ogni uomo tende naturalmente poiché è la cifra che lo stesso Creatore ha iscritto nella creazione, e che si manifesterà compiutamente dopo la risurrezione: il mondo dei risorti sarà un mondo ordinato intorno a Cristo per celebrare una liturgia eterna. La liturgia ordina innanzitutto il tempo, se ne appropria per riempirlo di significato, riproponendo attraverso i vari cicli – da quello diurno della liturgia delle ore a quello annuale incentrato sulla Pasqua, sul Natale e sulle feste dei santi – il mistero multiforme di Cristo che essa inculca sempre più profondamente in noi mediante un movimento a spirale. La liturgia si appropria e instaura un nuovo ordine anche nello spazio e nelle realtà materiali e chiama a raccolta e porta a compimento tutta la creazione: niente in essa ha una funzione puramente decorativa, anzi tutti gli elementi (pane, vino, acqua, fuoco, ecc.) del mondo diventano addirittura co-liturghi – così come l’architetto Gaudì “introdusse dentro l’edificio sacro [della Sagrada Familia] pietre, alberi e vita umana, affinché tutta la creazione convergesse nella lode divina” (Benedetto XVI).

La nuova creazione

La sintonia col mondo, il ripristino dell’ordine originario è particolarmente evidente nei cosiddetti “salmi cosmici” che concludono le lodi chiamando a raccolta tutti gli elementi della creazione – stelle, acque, nevi, venti, pesci, uccelli, greggi, uomini – affinché tutti “laudent nomen Domini”. Quest’ordine non può che scaturire da un cuore “ordinato” e guarire le ferite degli altri cuori, contagiandoli con la nostalgia del tempo in cui “il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato” (Gn 2,8). Infatti, grazie alla liturgia, i monaci vivono allo stesso tempo nell’Eden e nella Gerusalemme celeste. Senza dimenticare la terra, al contrario, irradiando anche visibilmente su di essa lo splendore del Paradiso.

[Articolo di Stefano Chiappalone dal blog Continuitas, riprodotto con la cortese autorizzazione dell'autore]

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domenica 21 agosto 2011

Atto di consacrazione dei giovani al Sacro Cuore di Gesù

[Durante l'adorazione eucaristica con i partecipanti alla Giornata mondiale della Gioventù di Madrid, nella veglia del 20 agosto 2011 all'aeroporto di Cuatro Vientos, Papa Benedetto XVI ha pronunciato il seguente atto di consacrazione dei giovani al Sacro Cuore di Gesù.]

Signore Gesù Cristo, Fratello, Amico e Redentore dell'uomo guarda con amore i giovani qui riuniti e apri loro la sorgente eterna della tua misericordia che sgorga dal tuo cuore aperto sulla Croce. Docili alla tua chiamata, sono venuti per stare con te e adorarti. Con preghiera ardente li consacro al tuo Cuore perché, radicati e fondati in te siano sempre tuoi, nella vita e nella morte. Giammai si allontanino da te! Concedi loro un cuore come il tuo mite e umile perché ascoltino sempre la tua voce e i tuoi insegnamenti, compiano la tua Volontà e siano in mezzo al mondo lode della tua gloria, perché gli uomini contemplando le loro opere diano gloria al Padre.





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Gustave Thibon, testimone di speranza


[Ci siamo occupati a più riprese del "filosofo contadino" Gustave Thibon (1903-2001), del quale abbiamo in varie occasioni tradotto su Romualdica alcuni scritti (fra cui, nel 2009 e in sei puntate, l’articolo L'equilibrio in altitudine. Meditazioni sulla Regola; nel 2010 un inedito; e nel 2011 l'in memoriam della rivista Cristianità). Una nuova occasione per parlare di Thibon, nel decimo anniversario della sua scomparsa, ci è offerto dal seguente articolo di Emiliano Fumaneri, comparso il 20 agosto 2011 su La Bussola Quotidiana, che riproduciamo con la cortese autorizzazione del quotidiano online.]


L'uscita nelle sale cinematografiche del film Le stelle inquiete, dedicato a un episodio della vita della filosofa Simone Weil (1909-1943), ha avuto il non indifferente pregio d'aver reso nota al pubblico italiano anche la figura del pensatore cattolico Gustave Thibon (1903-2001), il "filosofo-contadino" (philosophe-paysan), l’autodidatta in grado di impratichirsi con le lingue classiche e quelle moderne, lo studioso di Ludwig von Klages, Nietzsche, San Tommaso e della mistica carmelitana capace di guadagnarsi l'ammirazione di figure imponenti del panorama culturale europeo.
Gustave Thibon nasce nel 1903 a Saint-Marcel d’Ardèche (Midi di Francia) da una famiglia contadina. La stretta comunione con i ritmi della natura e la familiarità col silenzio accumulano in lui quelle profonde, vaste riserve interiori che riverserà nelle sue opere. Nel 1916, dopo aver frequentato la scuola comunale, si vede costretto ad abbandonare gli studi per dedicarsi al lavoro nei campi. Alieno da preoccupazioni religiose, trascorre un'adolescenza agnostica. A diciotto anni è assalito però da una veemente passione per la conoscenza. Con impeto febbrile si getta nello studio delle lingue, impara da solo il latino, il greco e il tedesco. Affronta testi di filosofia e teologia, si cimenta anche nella matematica e la biologia.
Thibon si riconcilia con la fede cattolica dell'infanzia grazie alla lettura di Léon Bloy (1846-1917) e all'incontro con Jacques Maritain (1882-1973), cui deve la scoperta dell'opera di San Tommaso d'Aquino. Maritain lo incoraggia a scrivere e la sua amicizia (interrotta in seguito a divergenze di giudizio su Charles Maurras e l'Action française) gli permetterà di pubblicare i primi articoli sulla Revue Thomiste.
È sempre l'incoraggiamento degli amici a consentirgli di vincere la naturale inclinazione alla modestia e spingerlo così a pubblicare, nel 1940, l'opera che lo rivela al grande pubblico: Diagnostics. Essai de physiologie sociale, cui segue Retour au réel. Nouveaux diagnostics (1943). Il primo dei due saggi verrà fatto tradurre e pubblicare nel 1947 dalla Morcelliana con il titolo di Diagnosi. Saggio di fisiologia sociale. Grazie all'interessamento di Marco Tangheroni (1946-2004), nel 1973 le Edizioni Volpe pubblicano una nuova traduzione di Diagnosi che fa seguito, a distanza di un anno, alla prima edizione italiana di Ritorno al reale. Nuove diagnosi (1972). Nella nostra lingua sono state tradotte anche le raccolte di aforismi thiboniani La scala di Giacobbe (1947), Il pane di ogni giorno (1949), L'uomo maschera di Dio (1971). Sono stati pubblicati anche Quel che Dio ha unito. Saggio sull'amore (1947), Vivere in due (1955), Crisi moderna dell'amore (1957), Nietszche o il declino dello spirito (1964). Infine va segnalato il libro-testimonianza scritto col padre domenicano Joseph-Marie Perrin, Simone Weil come l'abbiamo conosciuta (2000).
La profondità del pensiero, la penetrante lucidità del giudizio e la folgorante bellezza dello stile gli valgono ben presto la considerazione di altri prestigiosi intellettuali come Marcel de Corte (1905-1944), Gabriel Marcel (1889-1973), Henri Massis (1886-1970). Ma l'incontro che segnerà maggiormente la sua vita spirituale e intellettuale è quello con Simone Weil. In fuga dai nazisti, nell'estate del 1941 la Weil trova rifugio presso la fattoria di Thibon. Tra l’inquieta pensatrice di origini ebraiche e il filosofo-contadino si instaura un rapporto profondo improntato alla massima schiettezza e a un'altissima stima reciproca, tanto che Simone decide di affidargli i propri manoscritti. Dopo la prematura morte della filosofa (1943) sarà Thibon a incaricarsi di farne conoscere il nome al mondo pubblicando alcuni estratti dei suoi diari col titolo La pesanteur et la grace (1948), edito in italiano come L'ombra e la grazia (trad. it., Comunità, Milano 1951).
Alla morte, che lo coglie nel 2001, Gustave Thibon lascia al mondo – oltre a tre figli, i nipoti e un ricordo indelebile nel cuore di chi l'ha conosciuto – una ventina di opere, innumerevoli articoli e testi di conferenze, senza contare la considerevole mole di scritti rimasti impubblicati.
Su due princìpi poggia l'architrave del pensiero thiboniano: l’opposizione agli idoli e l’amore per l’unità. Due momenti che però «si fondono in un unico, perché l’idolo rappresenta la parte innalzata al tutto, ma soltanto distruggendo gli idoli si può ricostruire l’unità» (Il pane di ogni giorno, Morcelliana, 1949, p. 10). «Dio non ha creato che unendo», osserva Thibon. Il peccato, il dramma dell'uomo consiste nel separare ciò che Dio ha unito: «La metafisica della separazione è la metafisica stessa del peccato» (Quel che Dio ha unito, Società Editrice Siciliana, 1947, p. VI).
Il nostro tempo, segnato dall'oblio dell'Essere e delle verità supreme, è funestato dalla lotta feroce e senza quartiere tra gli idoli. Non può che essere la guerra endemica la condizione strutturale di un mondo dominato da false divinità: nessuna di esse può permettere alle altre di elevarsi al di sopra di tutte per reclamare la signoria spettante all'unico vero Dio. Il conflitto tra gli idoli garantisce così l’impossibilità di ogni autentica trascendenza.
Procurare la morte rappresenta la vera vocazione dell’idolatria: la sete di sangue divora l'idolo, mentre l’odio viscerale per l’Essere lo vota al nulla e alla menzogna. Per il Socrate cristiano vivente in Thibon l'autentico spirito filosofico consiste invece «nel preferire alle menzogne che fanno vivere le verità che fanno morire» (L'ignorance étoilée, Fayard, 1985, p. 45). Thibon fa dunque idealmente suo il detto di Tolkien: "le radici profonde non gelano". Così è delle verità più semplici e ordinarie: la profondità degli abissi appartiene al grande, immenso oceano della normalità. Piatta e superficiale è solo la terra calpestata dagli idoli.
«Il thibonismo è una filosofia del buon senso», ha scritto Hervé Pasqua. La vera saggezza sta nell'essere fedeli tanto al "realismo della terra" quanto alle verità eterne del cielo, giacché «le cose supreme non fioriscono che al di là della tomba. Ma esse cominciano quaggiù e la loro fragile semenza è nei nostri cuori, e niente fiorisce nel cielo, che non sia prima germogliato sulla terra» (La scala di Giacobbe, AVE, 1947, p. 102).
Il mondo moderno è impazzito, sostiene Chesterton, «non tanto perché ammette l'anormalità, ma perché non sa ritrovare la normalità». L'epoca della secolarizzazione ha oltraggiato e decomposto infine la stessa natura umana; ecco perché si rende necessaria anzitutto un'opera di "apostolato del senso comune". «Un tempo – scrive il filosofo francese in un celebre passo di Ritorno al realeil cristianesimo dovette lottare contro la natura: quella natura era tanto dura, tanto ermeticamente chiusa che la grazia durava fatica a intaccarla. Oggi dobbiamo lottare per la natura, al fine di salvare il minimo di salute terrena necessaria all’innesto del soprannaturale».
Estraneo all’evanescente spiritualismo che abbandona al male le realtà terrene come al perfettismo incarnato dal mito del progresso tecnico necessario e inarrestabile, più che un "iconoclasta della reazione" – alla maniera del colombiano Nicolás Gómez Dávila (1913-1994), al quale pure è accomunato da numerose affinità, anche stilistiche – Thibon è un "testimone della speranza". «L'epoca in cui tutto si è perduto», scrive, «è anche quella in cui tutto si può ritrovare» (Entretiens avec Gustave Thibon, par Philippe Barthelet, La Place Royale, 1988, p. 175). Schierato a favore della positività ultima del reale, il suo è un appello al riconoscimento della "verità delle cose". La speranza poggia sulla pienezza dell'essere, in ultima istanza sull'onnipotenza divina. Dio è, è l'Essere. L'idolo, il non-essere: l'idolatria è la religiosità della disperazione. Crolla così il presupposto della gnosi eterna: l'irredimibile, disperata negatività della realtà creata. È l’amore a svelare il mistero stesso dell’essere.
Se la metafisica della speranza thiboniana si rivela impermeabile ai fuochi fatui del progressismo, certo non indulge alle suggestioni "tradizionaliste" delle utopie "archeologiche". «Che m’importa dunque il passato in quanto passato? Non vi accorgete che quando piango sulla rottura di una tradizione, è soprattutto all’avvenire che penso. Quando vedo marcire una radice, ho pietà dei fiori che seccheranno domani per mancanza di linfa» (L’uomo maschera di Dio, SEI, 1971, p. 258). La devota memoria del passato non deve indurci a «considerare la morte delle cose mortali come una sconfitta irreparabile. Non aggrapparsi totalmente, disperatamente alla materialità (nel senso più ampio) di una tradizione, di una istituzione, d'un regime. Occorre salvare l'anima delle cose cui il vento della morte ha spazzato via il corpo» (Parodies et mirages ou la décadence d'un monde chrétien. Notes inédites [1935-1978], Éditions du Rocher, 2011, p. 20). L'affermazione di valori soprastorici ed eterni non va confusa con l’immagine di una realtà storica compiuta e realizzata. «La vera fedeltà non consiste [...] nell’impedire ogni cambiamento, ma più precisamente nell’impregnare ogni cambiamento di eterno» (Crisi moderna dell'amore, Marietti, 1957, p. 8).
Il philosophe-paysan sa bene che se è preclusa la via del ritorno al paradiso terrestre, ostruita dalla misteriosa realtà del peccato originale, nondimeno l'uomo, come direbbe Gomez Dàvila, "respira male in un mondo non attraversato da ombre sacre". L'ideale della cristianità non può essere accantonato superficialmente. Certo: il regno di Dio non è di questo mondo; occorre scansare il ricorrente «mito dell'uomo collettivo», la tentazione idolatrica che nel "Grosso Animale" platonico (cfr. Repubblica, VI, 492-493) trova forse l'immagine più eloquente.
Ciononostante, è la stessa natura umana a richiedere «una civiltà dove il temporale è irrigato senza posa dall'eterno» (Préface a Dom Gérard Calvet O.S.B., Demain la Chrétienté, Dismas, 1986, p. 11). Il cristiano deve spendersi anche per una società centrata su Dio, portatrice e trasmettitrice dei valori eterni (il Vero, il Bello e il Bene), in cui le tradizioni e i costumi siano intermediari (metaxu) tra l'uomo e il suo fine trascendente. «La nostra eternità non è la negazione del tempo, ne è la fidanzata» (Il pane di ogni giorno, cit., p. 165). L'esempio stesso dei santi mostra che i cristiani devono essere al tempo stesso «visionari del cieli e prodigiosi operai sulla terra».
Al contrario, un mondo impregnato della mera "terrestrità" auspicata da Gramsci nei Quaderni del carcere, imperniato cioè sul principio dell'uomo "misura di tutte le cose", è generatore di una dis-società: un coacervo di individui atomizzati retto unicamente dal precario equilibrio dei rapporti di forza. Lo stesso termine "equilibrio" è sintomatico, chiosa Thibon: «L'equilibrio concerne unicamente la quantità, la pesantezza, i rapporti di forza. L'armonia implica la qualità e la convergenza di qualità verso un fine comune» (L'équilibre et l'harmonie, Fayard, 1976, p. XI).
La nevrosi egualitaria che agita il nostro tempo va ricondotta all'abbandono di questa essenziale distinzione. L'assolutizzazione del principio di uguaglianza si esprime nella legge del numero. Ma il trionfo del quantum non lascia spazio se non al "mondo in frantumi" scaturito dallo scontro di esseri massificati e gruppi "sconnessi" tra loro, senza alcun legame – prima di tutto interiore – a unirli.
Tragiche sono le conseguenze: il conflitto «eretto a legge permanente delle società» e la «generalizzazione della violenza» che sempre più diviene «l'unico mezzo di farsi intendere e ottenere soddisfazione» (ibidem). Si spiega così perché in questo "regno della quantità" si sia imposta la metafora dell'equilibrista in luogo di quella dell'accordatore, l'armonizzatore di suoni. Ma «l'equilibrismo ha fatto il suo tempo, non abbiamo che la scelta tra i due termini di questa alternativa: restaurare, mediante l'armonia, un ordine vivente o lasciarci imporre un ordine morto e mortale da una forza senz'anima che annichilirà tutte le altre» (ibid.).
La ragione spietatamente calcolatrice dell’uomo-massa è incline a organizzare il suo spazio di vita alla stregua di una macchina, plasmandolo per mezzo della tecnica. Sintomo di questa patologia è la crescente diffusione di organismi sociali artificiali, di collettività anonime in seno alle quali gli uomini, puri ingranaggi di una megamacchina sociale, agiscono come funzionari irresponsabili. Questi raggruppamenti trascurano la legge fondamentale dell’armonia e della durata di una società: la legge della comunità di destino, fondata sul principio di interdipendenza o di reciproca solidarietà.
Nella comunità di destino – il cui esempio più tipico è rappresentato dalla famiglia – l’interesse personale coincide invece con l’assolvimento del proprio dovere. Una società è sana, afferma Thibon, nella misura in cui tende ad attenuare la tensione tra interesse e dovere, è malsana nelle misura in cui tende a esasperarla.
Per l’Occidente "sazio e disperato", sfregiato dai resti delle ideologie totalitarie, il realismo thiboniano reca quindi un grande messaggio di speranza: «L'unica nobiltà dell'uomo, la sola via di salvezza consiste nel riscatto del tempo per mezzo della bellezza, della preghiera e dell'amore. Al di fuori di questo, i nostri desideri, le nostre passioni, i nostri atti non sono che “vanità e soffiar di vento”, risacca del tempo che il tempo divora. Tutto ciò che non appartiene all'eternità ritrovata appartiene al tempo perduto» (L'uomo maschera di Dio, cit., p. 262). 

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venerdì 19 agosto 2011

La preghiera liturgica nella vita dell’oblato

Il culto più perfetto che possiamo rendere a Dio, il solo che sia veramente degno di Lui, che sia, per così dire, adatto alla sua misura, è il sacrificio di suo Figlio, il sacrificio del Verbo Incarnato, realizzato storicamente e nella sua forma cruenta sul Calvario, e perpetuato attraverso il tempo nella sua forma mistica e sacramentale nella S. Messa. Ed è per questo che la S. Messa è il centro ed il vertice di tutta la liturgia cristiana; ed è ugualmente per ciò che la messa solenne costituisce ogni giorno per i monaci il fulcro intorno al quale si organizza tutto il complesso delle Ore dell’Ufficio divino.
Così, nel suo desiderio di ritmare la sua vita di preghiera con quella del suo monastero, l’oblato amerà partecipare alla S. Messa il più spesso che potrà, essendo evidentemente l’ideale che possa assistervi ogni giorno, senza tuttavia che ciò possa costituire per lui un dovere di coscienza, né un obbligo sotto pena di peccato.
Viene poi l’Ufficio divino. La semplice lettura della Regola mostra tutta l’importanza che S. Benedetto attribuisce alla preghiera liturgica e quale posto privilegiato le assegna nell’organizzazione della giornata monastica.
L’Ufficio divino, lo sappiamo, comprende due grandi Ore: Lodi e Vespro, preghiere solenni del mattino e della sera, derivate direttamente dall’olocausto che si offriva ogni giorno, all’aurora e al crepuscolo, nel Tempio di Gerusalemme; poi le Ore minori, che scandiscono lo svolgimento della giornata: Terza, Sesta, Nona, alle quali si aggiunge l’Ufficio della Compieta, al momento di andare a letto. In quanto al Mattutino, ora chiamato Ufficio delle Letture, esso costituisce per la liturgia monastica la parte più sviluppata dell’Ufficio divino. Esso è impostato normalmente per santificare le ore della notte consacrate alla preghiera; da ciò l’antico nome di Veglie e la loro suddivisione in Notturni.
In occasione dei loro soggiorni al monastero, e più ancora, se hanno la grazia di vivere normalmente nelle sue vicinanze, gli oblati amano sempre associarsi, per quanto lo possono, alle celebrazioni di queste Ore dell’Ufficio. Essi ne gustano il ritmo regolare, mai monotono, che contribuisce così largamente a mantenere le anime in un’atmosfera di raccoglimento, di preghiera e di pace. Così pure, al di fuori di questo periodo e di queste circostanze privilegiate e quando ciò può inserirsi nel quadro abituale della loro vita quotidiana familiare e delle loro occupazioni professionali, cercano volentieri di conservare, in tutta la misura possibile, un contatto vivo con la grande preghiera monastica solenne che compiono regolarmente i loro fratelli, i monaci.
Ed è anche molto raro che gli oblati viventi nel mondo abbiano la possibilità di recitare interamente il Breviario. Ed in particolare l’Ufficio del Mattutino, molto sviluppato nel rito monastico, non sarà generalmente utilizzato che da alcune persone, in particolare sacerdoti, per i quali la celebrazione dell’Ufficio divino costituisce uno stretto obbligo. Il più spesso l’oblato verrà a trovarsi nella necessità di fare una scelta fra le Ore del giorno. Alcuni preferiranno orientarsi verso gli Uffici più solenni delle Lodi e del Vespro, dei quali faranno volentieri le loro preghiere del mattino e della sera; altri sceglieranno piuttosto le Ore minori; forse anche una sola di esse, perché ciò si armonizzerà meglio con l’organizzazione della loro giornata e con i loro bisogni spirituali. […]
In fondo, quello che resta essenziale per l’oblato – e che occorre non perdere mai di vista – è l’intenzione profonda che egli deve avere di offrire a Dio, in unione con il suo monastero, una lode che sia il più possibile nello spirito di ciò che vuole la Chiesa per la sua preghiera ufficiale, cioè una preghiera composta principalmente di testi sacri fondati sulla Scrittura, e quindi direttamente ispirati dallo Spirito Santo. Tradizionalmente, il posto più importante è tenuto nella liturgia cristiana dai salmi, posto che avevano già nella liturgia dell’Antico Testamento. E grazie alla portata universale che ha impresso su di loro lo Spirito Santo, grazie alla larghezza ed adattamento di espressione che dà loro un carattere poetico, grazie alla varietà delle circostanze nelle quali essi sono stati composti e degli stati d’animo che li hanno ispirati, restano sempre la sorgente più ricca e più attuale della preghiera cristiana.

[Dom Jean Guilmard O.S.B., Gli oblati secolari nella famiglia di San Benedetto, trad. it. a cura degli Oblati Benedettini della Badia di Cava (Salerno), 1979, pp. 79-81 e p. 84]

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mercoledì 17 agosto 2011

Figure monastiche / Dom Jean-Baptiste Muard O.S.B. (1809-1854)

Jean-Baptiste Muard nasce il 24 aprile 1809 a Vireaux (Yonne), da genitori contadini: egli conoscerà ben presto cos’è la povertà. Ancora molto giovane dirà: “Vorrei essere missionario e morire martire”. Si sentiva già scosso dalla preoccupazione per la salvezza delle anime. Ma cosa si attendeva Dio da lui? I disegni del Signore si sveleranno solo progressivamente.
Sacerdote diocesano, fondatore dei Missionari di Pontigny, egli ha un giorno, durante la preghiera, la visione netta di una comunità che conduce “un genere di vita umile, povera e mortificata”, ed è con la scoperta della Regola di san Benedetto che trova la sua autentica vocazione.
A Roma gli viene suggerito d’iniziarsi alla vita monastica secondo la Regola di san Benedetto presso i trappisti di Aiguebelle. Dopo un fervente noviziato, fonda alla Pierre-qui-Vire l’opera richiesta dal Cielo. Nascono così i Benedettini del Sacro Cuore. La loro vita monastica è caratterizzata dalla stretta osservanza della Regola: silenzio perpetuo, astinenza totale dalle carni, sveglia notturna alle 3 per l’ufficio di Mattutino, lavoro manuale.
Alla morte di Dom Muard, all’età di 45 anni, estenuato dalle veglie e dalle penitenze, la sua opera è ancora molto fragile: ma Dio gli darà una piena crescita.

Atto d’amore

«Desiderando amarvi per quanto è possibile a una creatura debole, o mio Dio !, io voglio che tutti i miei pensieri, tutti i miei desideri, tutti i miei sentimenti, tutte le mie aspirazioni, tutti i battiti del mio cuore, ogni mio movimento, siano altrettanti atti d’amore. Voglio che tutti i caratteri che traccerò scrivendo, tutte le parole che vedrò leggendo, siano per me come altrettanti atti d’amore. Vorrei potervi offrire ogni giorno tanti atti ferventi d’amore quanti sono i grani di sabbia sulla spiaggia del mare, quante sono le foglie d’albero nelle foreste, quanti sono gli atomi nell’aria, quanti sono gli esseri creati; e moltiplicarli all’infinito. Per sopperire alla mia impotenza, vi offro, o mio Dio !, tutti gli atti d’amore che compiono tutti gli angeli e tutti i santi che sono in cielo e sulla terra, tutti gli atti d’amore della beata Vergine, e – soprattutto – gli atti d’amore per voi di Nostro Signore Gesù Cristo. O mio Dio!, che io possa amarvi quanto lo meritate! Datemi quindi un cuore di serafino, o piuttosto, mettete nel mio cuore l’amore di tutti i serafini, l’amore di tutti i santi, l’amore di tutti i cuori, e aumentatelo senza fine, affinché io vi ami, o mio Dio!, quanto io desidero amarvi».

Felicità della vita religiosa

«Vi dirò una parola di felicità che proviamo dal fortunato giorno della nostra professione. È adesso che assaporiamo tutta la dolcezza del giogo del Signore; è adesso che sentiamo la verità di questa parola: che ciascuno il quale abbandona tutto per Dio, riceve, sin da quaggiù, il centuplo di pace e di felicità, che non saprebbero comprendere quanti non l’hanno provato. Che bello darsi al Signore senza riserve! Senza dubbio la vita religiosa ha le sue prove e le sue croci, ma quanto sono dolci in confronto a quelle del mondo. Felice quindi colui al quale il Signore dona questa sublime vocazione; più felice ancora coloro che ne compiono perfettamente gli obblighi! […] Felici, mille volte felici le persone che Dio chiama allo stato di vita religiosa, e che rispondono con generosità a questa grande grazia. Occorre che costoro si sforzino di elevarsi alla perfezione di questa bella vita, e ciò non è così difficile come si pensa, perché essa non fa che discendere, e discendere più in basso che si può. Quando si abbraccia questa santa vita, è il momento di umiliarsi, di farsi piccoli, di annientarsi, di vedersi infinitamente al di sotto di tutte le persone con le quali si vive, di vedersi sotto i loro piedi, come le sporcizie di casa».

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venerdì 12 agosto 2011

Fisionomia degli oblati benedettini

L’oblato fa parte della comunità monastica, realmente, quantunque, bene inteso, ad un titolo differente da quello dei professi del monastero. È per mezzo della sua oblazione che l’oblato è aggregato alla comunità monastica. L’atto della oblazione comporta un vincolo reciproco per l’oblato e per la comunità, un contratto ed un’alleanza, dalla quale risulta una mutua appartenenza. L’oblazione crea dei legami che sono di natura diversa da quelli creati dall’amicizia, per quanto forti possano essere.
Occorre precisare quale è la natura esatta di questi legami? Non sono certamente dei legami di ordine puramente giuridico, che comportano dei diritti e dei doveri derivati dalla virtù della giustizia. In effetti, con l’oblazione, noi siamo più sotto l’influenza della carità che sotto quella della giustizia. I doveri reciproci del monastero e dei suoi oblati sono molto di più dei doveri di carità che di giustizia, ma ciò non vuol dire che non siano dei doveri meno esigenti, anzi, al contrario! E questi doveri di carità e di spirituale amicizia fra il monastero ed i suoi oblati hanno per fondamento una comunione vitale, che ha qualcosa di completo, di costante, di universale. Ed è lo scopo medesimo dell’entrata in oblazione che stabilisce questa relazione: “Noi vi accogliamo nella nostra comunione fraterna e vi rendiamo partecipi di tutte le buone opere che si compiono, con l’aiuto dello Spirito Santo, in questo monastero”. Comunione spirituale che si tradurrà in una presa in carico reciproca, una corrente di vita soprannaturale, una partecipazione incessante alla preghiera ed al lavoro, all’adorazione, alla lode, agli sforzi, alle prove e ai meriti, e soprattutto ai doni di Dio ed alla sua grazia.
Un semplice amico e simpatizzante, per quanto attaccato possa essere al monastero, non ha per questo né l’obbligo, né la volontà, neppure generalmente il semplice desiderio di conformare la sua vita ad un ideale che apprezza ed ammira, ma che non stima sia fatto per lui. Invece l’oblato si dona realmente e l’oblazione che fa di sé stesso non è solo l’espressione di un pio desiderio ed una ricerca di perfezione. Essa è un proposito fermo e ben determinato, una promessa. E questa promessa ha uno scopo preciso: tendere alla perfezione della vita cristiana secondo la Regola di S. Benedetto e gli Statuti degli oblati, in unione alla famiglia monastica alla quale si aggrega.
Ci sia dunque permesso di concludere che, fra i molti amici che può contare un monastero, gli oblati occupano un posto di rilievo. Essi sono veramente gli amici ad un titolo eminente, gli “amicissimi”, si potrebbe dire, a causa dei beni soprannaturali che sono posti in comune, ed a causa della intimità spirituale che creano questi scambi fra loro e la comunità. In realtà essi sono ben più che dei semplici amici o simpatizzanti, in quanto, a causa della loro oblazione, sono veramente divenuti discepoli del grande Patriarca dei monaci, membri della famiglia benedettina, ai beni spirituali della quale partecipano attivamente.

[Dom Jean Guilmard O.S.B., Gli oblati secolari nella famiglia di San Benedetto, trad. it. a cura degli Oblati Benedettini della Badia di Cava (Salerno), 1979, pp. 59-61]

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giovedì 11 agosto 2011

Abbazia Notre-Dame di Fontgombault

Come riportato da varie fonti d’area francofona, lo scorso mese di luglio il Padre Abate dell’abbazia Notre-Dame di Fontgombault, Dom Antoine Forgeot O.S.B., si è dimesso dalla carica per ragioni d’età. L’elezione del nuovo Abate da parte della comunità monastica, secondo l’insegnamento della Regola di san Benedetto, è prevista per il 18 agosto.
Terzo Padre Abate di Fontgombault – comunità fondata nel 1948 e facente parte della Congregazione Benedettina di Solesmes –, Dom Forgeot è stato elevato alla carica abbaziale nel 1977, in seguito alla morte improvvisa del suo predecessore, Dom Jean Roy O.S.B. (1921-1977). Dom Forgeot ha sin dall’inizio proseguito nella via tracciata dai suoi due predecessori, impegnandosi – in un’epoca assai difficile – in una via media di fedeltà alla Santa Sede e alla tradizione monastica ed ecclesiale. A partire dal 1984, quando un indulto del beato Giovanni Paolo II (1978-2005) ha permesso la celebrazione della Messa nella forma straordinaria del Rito romano, e poi in maniera compiuta dal 1988, l’abbazia di Fontgombault ha profittato di tale permesso per tornare alla celebrazione secondo i libri liturgici del 1962; peraltro, anche in precedenza, i monaci dell’abbazia non avevano abbandonato il Breviario monastico tradizionale né le antiche usanze della Congregazione di Solesmes.
Dom Forgeot è stato altresì fondatore di nuove abbazie derivate da Fontgombault, tutt’oggi esistenti e ugualmente legate alle usanze monastiche tradizionali e alla forma straordinaria del Rito romano – in Francia a Triors (1984) e Gaussan (1994, poi trasferitasi a Donezan), e negli Stati Uniti d’America a Clear Creek (1999); alle quali va aggiunta l’abbazia di Randol, fondata nel 1971 dal predecessore Dom Roy –, e ha dato una grande stabilità alla propria abbazia, da molti considerata un faro di fedeltà monastica e liturgica, e con un considerevole irradiamento.
In occasione di un recente anniversario, il Santo Padre Benedetto XVI – che nell’estate 2001 ha partecipato alle importanti Giornate Liturgiche di Fontgombault, con una relazione di grande rilievo che anticipa le scelte del motu proprio Summorum pontificum – ha inviato a Dom Forgeot una lettera manoscritta, in riconoscimento di una fedeltà esemplare che non è stata priva di dolori.
Invitiamo tutti i lettori di Romualdica a unirsi in una fervida preghiera al Signore, per il buon esito dell’importante decisione cui i monaci di Fontgombault sono ora chiamati, e in rendimento di grazie per il compito sin qui svolto dal M.R. Dom Forgeot.


Sanctissime Confessor Domini,
monachorum pater et dux, Benedicte,
intercede pro nostra omniumque salute.




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mercoledì 10 agosto 2011

Tendere l’orecchio del cuore

[Con il gentile assenso di S.E. mons. Carlo Mazza, vescovo di Fidenza, riproduciamo di seguito l’omelia che il presule ha pronunciato presso la chiesa del Monastero San Benedetto di Bergamo – di cui a fianco pubblichiamo la bella fotografia di un particolare di un capitello del chiostro isabelliano, risalente al XVI secolo – lo scorso 11 luglio 2011, nella solennità di san Benedetto.]

1. Vorrei proporre le mie brevi riflessioni con un incipit colto dalla Regola di San Benedetto e che giustamente rivela la grandezza della sua spiritualità. Scrive: “Nulla assolutamente anteponiamo a Cristo e così egli, in compenso, ci condurrà tutti alla vita eterna” (Regola, Prol. 72, 12).
Così Benedetto segna in modo indelebile la sua esistenza per Cristo. Gesù è scelto come assoluto rispetto al quale nulla vi è di paragonabile. La conseguenza è che, in compenso, si può guardare con sicurezza il raggiungimento della “vita eterna”. Il fine della vita infatti è amare Dio e conseguire come dono la pienezza della vita nell’eternità beata.
Benedetto per primo attuò il principio dell’assolutezza di Gesù e divenne santo. Egli, uomo romano, visse tra il V e il VI secolo testimoniando l’amore verso Dio e verso i poveri. Unanimemente è ritenuto un gigante della fede. In un tempo di crisi inesorabile che stava abbattendosi sul mondo classico, ormai in irreversibile decadenza e in disfacimento, Benedetto credette “contro ogni speranza” umana. Il mondo mentre sembrava finire sotto la violenta irruzione di popoli “barbari”, egli fu un faro di luce e un maestro di spiritualità, un sicuro riferimento.
In realtà, pure in mezzo alla disperazione sociale, culturale e istituzionale, Benedetto si erge come la stella della speranza che, brillando sull’intera Europa, fonda il futuro con la forma di quello che si denomina “monachesimo occidentale”, capace di arginare la rovina con una nuova “civiltà” cristiana, caratterizzata dalla preghiera e dal lavoro (Ora et labora!), variamente coniugati nella vita monastica e nel popolo di Dio.

2. A partire da questa premessa è bello riascoltare il Prologo della sua celebre Regola.
Ascolta, o figlio, i precetti del Maestro, e tendi l’orecchio del tuo cuore, accogliendo lietamente il consiglio del dolce Padre per ritornare per mezzo dell’obbedienza a colui dal quale ti eri allontanato con la disobbedienza”.
La Regola inizia con un verbo decisivo: “Ascolta”! Più che un comando, esprime una forte e paterna esortazione secondo lo stile biblico. Si tratta di un ascolto attivo, proteso verso Dio. Nell’ascolto – che si manifesta come un “tendere l’orecchio del cuore” – si entra in relazione con Dio e si accolgono i santi “precetti”.
Di conseguenza l’ascolto del “consiglio del dolce Padre” conduce al ravvedimento, cioè al “ritorno” a Dio, mediante l’obbedienza, come intima conversione. Ciò avviene in un movimento interiore che tocca la profondità del cuore del monaco in un itinerario di perfezione.
In tal modo la Regola dispone uno stile, o meglio, un metodo di vita attivo-contemplativa, tesa alla purificazione dell’anima in un atteggiamento pratico, di carattere obbedienziale e positivo, capace di rimettere ordine là dove la caduta nella disobbedienza aveva creato disordine. Così il monaco benedettino, con la luce della Parola, guarda dentro il mistero di Dio e contemporaneamente libera l’anima dagli ostacoli “terreni” e peccaminosi.

3. Val bene osservare che il movimento della conversione non accade per la sola iniziativa umana, ma è causato dal porre al centro dell’universo interiore Gesù Cristo. Per questo la Colletta, introducendoci al mistero che celebriamo, invita a pregare Dio perché, sull’esempio luminoso di San Benedetto, “conceda di non anteporre nulla all’amore del Cristo e di correre con cuore libero e ardente nella via dei suoi precetti.
Siamo indirizzati alla sequela radicale e senza remore di Gesù, mediante la libertà del cuore e l’ardore della carità. Ad esse si accompagna la decisione di una volontà sicura che si esprime nel “correre” sulla “via dei precetti” evangelici. È bello questo correre che rivela il desiderio di sequela lieta e liberante.
In tal senso Benedetto fu un’autentica primizia nel panorama della spiritualità del tempo perché lui stesso è stato un’incarnazione del vangelo della libertà e della carità, seguendo “la via dei precetti” del Signore, purificando sé stesso dalle “tentazioni del deserto”.
Oggi queste “tentazioni” paiono essere diventate, perché considerate “naturali”, non più espressione dell’attività del maligno e dunque da contrastare con un combattimento spirituale, ma quasi da seguire senza ribellione etica. Ciò comporta un decadimento morale e religioso del tutto rovinoso per la salvezza dell’uomo.
Di fatto osserviamo come nelle culture della modernità è avvenuto un collasso etico per la negazione dei valori trascendenti e per l’assuefazione al puro arbitrio soggettivo in merito alle scelte morali. Benedetto ci invita a considerare la realtà del peccato e del male purtroppo operanti nella nostra vita. Appunto per liberarcene con la grazia del Redentore.

4. La prima lettura è tratta dai Proverbi [2, 1-9]. È un testo di intensa esortazione per acquisire la vera sapienza, sintesi tra il “timore” del Signore e la “conoscenza” di Dio. Il tenore del testo è molto simile al Prologo della Regola di Benedetto. La formulazione letteraria è al condizionale ma guarda il futuro dell’uditore che ha deciso di tendere verso il ritrovamento della “sapienza”, cioè della via che porta all’“equità”, alla “giustizia” e alla “rettitudine”.
Ciò avviene mediante l’accoglienza della “parola” e dei “precetti” di Dio, sostenuti dalla volontà di “custodirli” nel cuore. Come avviene della beatitudine del vero discepolo; egli è “beato” in quanto “ascolta la parola e la custodisce nel cuore” (cfr. Lc 11, 28).
Per questo San Benedetto è il vero modello di discepolo del Signore: la sua vita si è fatta parola operosa e sapiente, si è spesa per “invocare l’intelligenza” di Dio e lui gli ha donato “scienza e prudenza” di cui era piena la sua bocca. Perciò, come scrive San Gregorio Magno nei Dialoghi: “Il santo uomo meglio non poté insegnare che con l’esempio della sua vita”.

5. Nella lettera ai Colossesi [3, 12-17] l’apostolo Paolo riassume, in un elenco dettagliato, le virtù che i cristiani “scelti da Dio, santi e amati” devono rivestire per essere degni di Cristo e testimoni della novità cristiana. Il riferimento motivazionale del cambiamento etico si fonda sull’esemplarità di Cristo.
Queste virtù si compendiano nella “carità”, che le unisce in modo perfetto, e che fa risplendere sui credenti la vera luce di Cristo. Qui la carità non solo si rivela come virtù, apice di tutte le altre, ma come punto di armonia di tutta la vita cristiana, espressione dunque di vera perfezione.
Così l’essere del credente in Cristo vive e si nutre della “parola di Cristo” come criterio di verità e di abbondanza spirituale che ancor più si manifesta nella preghiera “con salmi, inni e canti ispirati, con gratitudine, cantando a Dio nei vostri cuori”. Vi è espressa la “laus Deo” nella forma del rendimento di grazie a Dio Padre, tipica della spiritualità di San Benedetto.

6. Il vangelo di Giovanni [15, 1-8] – tratto dai Discorsi di addio – si ispira alla tradizione biblica circa l’immagine della vigna come espressione del popolo di Israele. Gesù la riprende e la interpreta per quello che lui stesso intende rivelare. Di fatto la parola: “Io sono la vita vera”, è un’autorivelazione di Gesù e si comprende nella sua relazione con il Padre-agricoltore. La vite “evoca una figura collettiva” (cfr. X. L. Dufour, Lettura dell’Evangelo secondo Giovanni, III, pp. 202-ss., 1988-1996) nella quale concrescono i “tralci”, cioè i discepoli del vangelo.
Gesù unisce in sé i “suoi” che l’hanno accolto. Senza privarsi della sua individualità, lui ci rappresenta. Gesù e i credenti si identificano, a patto che questi siano uniti a lui. Nella sua persona conviviamo tutti in “uno”, costituendo la comunità della “nuova ed eterna alleanza”.
Tra la vite e l’agricoltore si stabilisce un rapporto di subordinazione, così com’è tra il Figlio e il Padre: se ci si inserisce nel Figlio anche noi siamo legati al Padre e diventiamo una cosa sola. In tal modo i tralci possono sussistere se permangono nella vite: sono “interdipendenti e inseparabili” (ivi). Sui tralci si manifesta l’attività dell’agricoltore che agisce a seconda della condizione di passività o di reattività dei tralci stessi: se portano frutto o se restano aridi e secchi.
Dal v. 4 al v. 8 il verbo “rimanere” si ritrova 7 volte. Certamente è un verbo decisivo e intensivo. Il suo senso rimanda all’“aderire fedelmente” (ivi p. 210) e si riferisce ad una “mutua immanenza” tra Gesù e i discepoli che riproduce la mutua relazione tra Figlio e Padre.
Così il discepolo “viene trasfigurato dall’interno: il suo nuovo essere è quello del Figlio” (ivi, p. 213). Di qui viene evidente la necessità di una distinzione non di una fusione tra Gesù e il discepolo: a quest’ultimo viene richiesto l’esercizio della libertà personale. D’altra parte è chiaro che la parola forte di Gesù “Senza di me non potete far nulla”, distoglie da ogni equivoco: senza di Lui siamo nessuno e niente.
La sentenza di Gesù esprime esattamente la nostra condizione di impotenza di fronte alla salvezza. Perciò lui suscita, mediante lo Spirito, la volontà di adesione e di fedeltà, il continuo desiderio di “rimanere in lui” e la gioia di vivere la sua stessa vita. Occorre sperimentare la gioia del rimanere nell’intima amicizia con Gesù.
Di qui si comprende come la fedeltà dei discepoli corrisponde ad una scelta vocazionale e ad un radicamento in Gesù che li consegna al Padre. Da soli i discepoli sono nulla, ma tutto possono ottenere se rimangono uniti a Gesù, in una comunione di vita.
Allora val bene chiedere qualsiasi cosa al Padre mediante Gesù. La strabiliante conseguenza è che si produce “molto frutto”, cioè la glorificazione del Padre, secondo il sacrificio pasquale di Gesù, e la nostra santificazione.
Per essere degni di questa condiscendenza del Padre, resa manifesta nel Figlio suo, preghiamo:
“Padre buono, ti prego: dammi un’intelligenza che ti comprenda, un animo che ti gusti, una pensosità che ti cerchi, una sapienza che ti trovi, uno spirito che ti conosca, un cuore che ti ami, un pensiero che sia rivolto a te, degli occhi che ti guardino, una parola che ti piaccia, una pazienza che ti segua, una perseveranza che ti aspetti” (Preghiera di San Benedetto da Norcia).

Carlo, Vescovo

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