mercoledì 10 agosto 2011

Tendere l’orecchio del cuore

[Con il gentile assenso di S.E. mons. Carlo Mazza, vescovo di Fidenza, riproduciamo di seguito l’omelia che il presule ha pronunciato presso la chiesa del Monastero San Benedetto di Bergamo – di cui a fianco pubblichiamo la bella fotografia di un particolare di un capitello del chiostro isabelliano, risalente al XVI secolo – lo scorso 11 luglio 2011, nella solennità di san Benedetto.]

1. Vorrei proporre le mie brevi riflessioni con un incipit colto dalla Regola di San Benedetto e che giustamente rivela la grandezza della sua spiritualità. Scrive: “Nulla assolutamente anteponiamo a Cristo e così egli, in compenso, ci condurrà tutti alla vita eterna” (Regola, Prol. 72, 12).
Così Benedetto segna in modo indelebile la sua esistenza per Cristo. Gesù è scelto come assoluto rispetto al quale nulla vi è di paragonabile. La conseguenza è che, in compenso, si può guardare con sicurezza il raggiungimento della “vita eterna”. Il fine della vita infatti è amare Dio e conseguire come dono la pienezza della vita nell’eternità beata.
Benedetto per primo attuò il principio dell’assolutezza di Gesù e divenne santo. Egli, uomo romano, visse tra il V e il VI secolo testimoniando l’amore verso Dio e verso i poveri. Unanimemente è ritenuto un gigante della fede. In un tempo di crisi inesorabile che stava abbattendosi sul mondo classico, ormai in irreversibile decadenza e in disfacimento, Benedetto credette “contro ogni speranza” umana. Il mondo mentre sembrava finire sotto la violenta irruzione di popoli “barbari”, egli fu un faro di luce e un maestro di spiritualità, un sicuro riferimento.
In realtà, pure in mezzo alla disperazione sociale, culturale e istituzionale, Benedetto si erge come la stella della speranza che, brillando sull’intera Europa, fonda il futuro con la forma di quello che si denomina “monachesimo occidentale”, capace di arginare la rovina con una nuova “civiltà” cristiana, caratterizzata dalla preghiera e dal lavoro (Ora et labora!), variamente coniugati nella vita monastica e nel popolo di Dio.

2. A partire da questa premessa è bello riascoltare il Prologo della sua celebre Regola.
Ascolta, o figlio, i precetti del Maestro, e tendi l’orecchio del tuo cuore, accogliendo lietamente il consiglio del dolce Padre per ritornare per mezzo dell’obbedienza a colui dal quale ti eri allontanato con la disobbedienza”.
La Regola inizia con un verbo decisivo: “Ascolta”! Più che un comando, esprime una forte e paterna esortazione secondo lo stile biblico. Si tratta di un ascolto attivo, proteso verso Dio. Nell’ascolto – che si manifesta come un “tendere l’orecchio del cuore” – si entra in relazione con Dio e si accolgono i santi “precetti”.
Di conseguenza l’ascolto del “consiglio del dolce Padre” conduce al ravvedimento, cioè al “ritorno” a Dio, mediante l’obbedienza, come intima conversione. Ciò avviene in un movimento interiore che tocca la profondità del cuore del monaco in un itinerario di perfezione.
In tal modo la Regola dispone uno stile, o meglio, un metodo di vita attivo-contemplativa, tesa alla purificazione dell’anima in un atteggiamento pratico, di carattere obbedienziale e positivo, capace di rimettere ordine là dove la caduta nella disobbedienza aveva creato disordine. Così il monaco benedettino, con la luce della Parola, guarda dentro il mistero di Dio e contemporaneamente libera l’anima dagli ostacoli “terreni” e peccaminosi.

3. Val bene osservare che il movimento della conversione non accade per la sola iniziativa umana, ma è causato dal porre al centro dell’universo interiore Gesù Cristo. Per questo la Colletta, introducendoci al mistero che celebriamo, invita a pregare Dio perché, sull’esempio luminoso di San Benedetto, “conceda di non anteporre nulla all’amore del Cristo e di correre con cuore libero e ardente nella via dei suoi precetti.
Siamo indirizzati alla sequela radicale e senza remore di Gesù, mediante la libertà del cuore e l’ardore della carità. Ad esse si accompagna la decisione di una volontà sicura che si esprime nel “correre” sulla “via dei precetti” evangelici. È bello questo correre che rivela il desiderio di sequela lieta e liberante.
In tal senso Benedetto fu un’autentica primizia nel panorama della spiritualità del tempo perché lui stesso è stato un’incarnazione del vangelo della libertà e della carità, seguendo “la via dei precetti” del Signore, purificando sé stesso dalle “tentazioni del deserto”.
Oggi queste “tentazioni” paiono essere diventate, perché considerate “naturali”, non più espressione dell’attività del maligno e dunque da contrastare con un combattimento spirituale, ma quasi da seguire senza ribellione etica. Ciò comporta un decadimento morale e religioso del tutto rovinoso per la salvezza dell’uomo.
Di fatto osserviamo come nelle culture della modernità è avvenuto un collasso etico per la negazione dei valori trascendenti e per l’assuefazione al puro arbitrio soggettivo in merito alle scelte morali. Benedetto ci invita a considerare la realtà del peccato e del male purtroppo operanti nella nostra vita. Appunto per liberarcene con la grazia del Redentore.

4. La prima lettura è tratta dai Proverbi [2, 1-9]. È un testo di intensa esortazione per acquisire la vera sapienza, sintesi tra il “timore” del Signore e la “conoscenza” di Dio. Il tenore del testo è molto simile al Prologo della Regola di Benedetto. La formulazione letteraria è al condizionale ma guarda il futuro dell’uditore che ha deciso di tendere verso il ritrovamento della “sapienza”, cioè della via che porta all’“equità”, alla “giustizia” e alla “rettitudine”.
Ciò avviene mediante l’accoglienza della “parola” e dei “precetti” di Dio, sostenuti dalla volontà di “custodirli” nel cuore. Come avviene della beatitudine del vero discepolo; egli è “beato” in quanto “ascolta la parola e la custodisce nel cuore” (cfr. Lc 11, 28).
Per questo San Benedetto è il vero modello di discepolo del Signore: la sua vita si è fatta parola operosa e sapiente, si è spesa per “invocare l’intelligenza” di Dio e lui gli ha donato “scienza e prudenza” di cui era piena la sua bocca. Perciò, come scrive San Gregorio Magno nei Dialoghi: “Il santo uomo meglio non poté insegnare che con l’esempio della sua vita”.

5. Nella lettera ai Colossesi [3, 12-17] l’apostolo Paolo riassume, in un elenco dettagliato, le virtù che i cristiani “scelti da Dio, santi e amati” devono rivestire per essere degni di Cristo e testimoni della novità cristiana. Il riferimento motivazionale del cambiamento etico si fonda sull’esemplarità di Cristo.
Queste virtù si compendiano nella “carità”, che le unisce in modo perfetto, e che fa risplendere sui credenti la vera luce di Cristo. Qui la carità non solo si rivela come virtù, apice di tutte le altre, ma come punto di armonia di tutta la vita cristiana, espressione dunque di vera perfezione.
Così l’essere del credente in Cristo vive e si nutre della “parola di Cristo” come criterio di verità e di abbondanza spirituale che ancor più si manifesta nella preghiera “con salmi, inni e canti ispirati, con gratitudine, cantando a Dio nei vostri cuori”. Vi è espressa la “laus Deo” nella forma del rendimento di grazie a Dio Padre, tipica della spiritualità di San Benedetto.

6. Il vangelo di Giovanni [15, 1-8] – tratto dai Discorsi di addio – si ispira alla tradizione biblica circa l’immagine della vigna come espressione del popolo di Israele. Gesù la riprende e la interpreta per quello che lui stesso intende rivelare. Di fatto la parola: “Io sono la vita vera”, è un’autorivelazione di Gesù e si comprende nella sua relazione con il Padre-agricoltore. La vite “evoca una figura collettiva” (cfr. X. L. Dufour, Lettura dell’Evangelo secondo Giovanni, III, pp. 202-ss., 1988-1996) nella quale concrescono i “tralci”, cioè i discepoli del vangelo.
Gesù unisce in sé i “suoi” che l’hanno accolto. Senza privarsi della sua individualità, lui ci rappresenta. Gesù e i credenti si identificano, a patto che questi siano uniti a lui. Nella sua persona conviviamo tutti in “uno”, costituendo la comunità della “nuova ed eterna alleanza”.
Tra la vite e l’agricoltore si stabilisce un rapporto di subordinazione, così com’è tra il Figlio e il Padre: se ci si inserisce nel Figlio anche noi siamo legati al Padre e diventiamo una cosa sola. In tal modo i tralci possono sussistere se permangono nella vite: sono “interdipendenti e inseparabili” (ivi). Sui tralci si manifesta l’attività dell’agricoltore che agisce a seconda della condizione di passività o di reattività dei tralci stessi: se portano frutto o se restano aridi e secchi.
Dal v. 4 al v. 8 il verbo “rimanere” si ritrova 7 volte. Certamente è un verbo decisivo e intensivo. Il suo senso rimanda all’“aderire fedelmente” (ivi p. 210) e si riferisce ad una “mutua immanenza” tra Gesù e i discepoli che riproduce la mutua relazione tra Figlio e Padre.
Così il discepolo “viene trasfigurato dall’interno: il suo nuovo essere è quello del Figlio” (ivi, p. 213). Di qui viene evidente la necessità di una distinzione non di una fusione tra Gesù e il discepolo: a quest’ultimo viene richiesto l’esercizio della libertà personale. D’altra parte è chiaro che la parola forte di Gesù “Senza di me non potete far nulla”, distoglie da ogni equivoco: senza di Lui siamo nessuno e niente.
La sentenza di Gesù esprime esattamente la nostra condizione di impotenza di fronte alla salvezza. Perciò lui suscita, mediante lo Spirito, la volontà di adesione e di fedeltà, il continuo desiderio di “rimanere in lui” e la gioia di vivere la sua stessa vita. Occorre sperimentare la gioia del rimanere nell’intima amicizia con Gesù.
Di qui si comprende come la fedeltà dei discepoli corrisponde ad una scelta vocazionale e ad un radicamento in Gesù che li consegna al Padre. Da soli i discepoli sono nulla, ma tutto possono ottenere se rimangono uniti a Gesù, in una comunione di vita.
Allora val bene chiedere qualsiasi cosa al Padre mediante Gesù. La strabiliante conseguenza è che si produce “molto frutto”, cioè la glorificazione del Padre, secondo il sacrificio pasquale di Gesù, e la nostra santificazione.
Per essere degni di questa condiscendenza del Padre, resa manifesta nel Figlio suo, preghiamo:
“Padre buono, ti prego: dammi un’intelligenza che ti comprenda, un animo che ti gusti, una pensosità che ti cerchi, una sapienza che ti trovi, uno spirito che ti conosca, un cuore che ti ami, un pensiero che sia rivolto a te, degli occhi che ti guardino, una parola che ti piaccia, una pazienza che ti segua, una perseveranza che ti aspetti” (Preghiera di San Benedetto da Norcia).

Carlo, Vescovo

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