martedì 29 settembre 2009

In dedicatione S. Michaelis Archangelis


Sancte Michael Archangele, defende nos in praelio, contra nequitias et insidias diaboli esto praesidium: Imperet illi Deus, supplices deprecamur, tuque, Princeps militiae caelestis, satanam aliosque spiritus malignos, qui ad perditionem animarum pervagantur in mundo, divina virtute in infernum detrude. Amen.

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La sete di Dio

Nel corso di uno dei suoi sermoni sant’Agostino pone la domanda: «Chi ha sete di Dio?». Non dovevano essere molti quelli che rispondevano «Io!» senza esitazione. Eppure questa sete è universale. È come un seme che Dio stesso ha nascosto nel nostro cuore e che si manifesta in alcuni nostri comportamenti. La curiosità, per esempio: guardate i bambini e i loro incessanti «perché?». Se abbiamo il coraggio di rispondere a questa lista di «perché?» ci accorgeremo che la risposta ultima è Dio in persona. Perché Dio è la Luce. I «perché?» degli adulti si pongono soprattutto davanti alle grandi prove e alla morte. La sola risposta che possa soddisfare questa sete di comprendere è racchiusa in un nome: Gesù crocifisso e risorto.
La nostra sete di Dio si nasconde inoltre, e forse più profondamente, nella nostra paura della solitudine. Ben prima del peccato originale, vedendo Adamo, Dio ha detto che non è bene che l’uomo sia solo. E ha previsto tutto affinché noi possiamo colmare questa solitudine. Per il lavoro delle mani e dell’intelligenza, l’uomo era già assai meno solo. Ma ciò non fu abbastanza per placare la sete del suo cuore. Dio allora creò Eva. Fu così che Adamo intonò il primo canto di gioia di tutto il creato, un canto che esprimeva una reale pienezza umana. Adamo ed Eva devono essersi detti, quando si sono scoperti quel mattino del sesto giorno: «Ecco infine una creatura alla quale io possa consacrare tutta la mia vita».
Ma il cuore dell’uomo ha una sete ancor più profonda. L’autentica solitudine del cuore non può essere colmata che da Dio, il Bene supremo. Noi siamo stati creati per questo Bene. Nel nostro cuore, vi è una dimora nella quale può entrare solo Dio. Questa pienezza soprannaturale fu resa difficile dal peccato e dalle conseguenze che conosciamo.
Come fare quindi per coltivare la nostra sete di Dio? Possiamo riferirci all’immagine del cervo del Salmo 41, che comincia così: «Come la cerva anela ai corsi d’acqua, così l’anima mia anela a te, o Dio».
Il cervo è un animale che ha dei legni sulla testa, come se la sua intelligenza cercasse di raggiungere il cielo: non si può avere sete di Dio senza prima conoscerlo. «L’ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo», ci ricorda san Girolamo. Abbiamo dunque sete di conoscere Dio.
Il cervo è un animale che brama, che lancia degli appelli amorosi nella profondità della foresta. È il simbolo della preghiera e della contemplazione del cuore umano che prende coscienza del fatto che la terra è un vasto deserto senza acqua né sentieri, e che non gli resta che la voce per raggiungere ciò che desidera. Impariamo a pregare alla scuola della santa liturgia della Chiesa e dei santi.
Il cervo è un animale che, secondo la mitologia, schiaccia i serpenti. Non si può avere sete di Dio se ci si lascia mordere dai serpenti, cioè dai vizi. D’altro canto, chi schiaccia i serpenti, modello di vita ascetica, è preso da una sete ancora più ardente per il Signore.
Il cervo è un animale che si sposta in gruppo e che, per attraversare i ruscelli, ha l’abitudine di appoggiare la propria testa appesantita dalle corna sulle spalle di un congenere, e così in fila. Non si va a Dio da soli. Non si può avere un’autentica sete di Dio se non si ha la carità fraterna. Non si ha davvero sete di Dio senza spirito missionario, che è la più grande carità.
Infine, il cervo è un animale rapido che nulla può fermare sul suo cammino per raggiungere la fonte d’acqua. Quindi, anche noi, non perdiamo tempo. È peraltro ciò che si propongono i monaci, i quali ritrovano pienamente nel cervo il loro ideale di vita. Essi fuggono il mondo per pregare, leggono e lavorano, fanno penitenza con l’aiuto di molti fratelli. Perché, molto semplicemente, hanno sete di Dio e desiderano che tutti gli uomini condividano questa sete, grazie al merito della loro vita.

[Dom Louis-Marie Geyer d’Orth O.S.B., abate del monastero Sainte-Madeleine di Le Barroux, editoriale di Les amis du monastère, n. 131, 8 settembre 2009, pp. 1-2, trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B.]

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lunedì 28 settembre 2009

Succisa virescit - Benedetto XVI a Montecassino

Omelia di Papa Benedetto XVI in occasione della celebrazione dei Vespri con gli abati benedettini e comunità di monaci e monache benedettine nella basilica dell’abbazia di Montecassino, visita pastorale a Cassino e Montecassino, 24 maggio 2009.

Cari fratelli e sorelle della grande Famiglia benedettina!
A conclusione dell’odierna mia visita, mi è particolarmente gradito sostare in questo luogo sacro, in questa Abbazia, quattro volte distrutta e ricostruita, l’ultima volta dopo i bombardamenti della seconda guerra mondiale di 65 anni fa. “Succisa virescit”: le parole del suo nuovo stemma ne indicano bene la storia. Montecassino, come secolare quercia piantata da san Benedetto, è stata “sfrondata” dalla violenza della guerra, ma è risorta più vigorosa. Più di una volta ho avuto modo anch’io di godere dell’ospitalità dei monaci, e in questa Abbazia ho trascorso momenti indimenticabili di quiete e di preghiera. Questa sera vi siamo entrati cantando le Laudes regiae per celebrare insieme i Vespri della solennità dell’Ascensione di Gesù. A ciascuno di voi esprimo la gioia di condividere questo momento di preghiera, salutandovi tutti con affetto, grato per l’accoglienza che avete riservato a me e a quanti mi accompagnano in questo pellegrinaggio apostolico. In particolare, saluto l’Abate Dom Pietro Vittorelli, che si è fatto interprete dei vostri comuni sentimenti. Estendo il mio saluto agli Abati, alle Abbadesse e alle comunità benedettine qui presenti.
Oggi la liturgia ci invita a contemplare il mistero dell’Ascensione del Signore. Nella breve lettura, tratta dalla Prima Lettera di Pietro, siamo stati esortati a fissare lo sguardo sul nostro Redentore, che è morto “una volta per sempre per i peccati” per ricondurci a Dio, alla cui destra si trova “dopo essere salito al cielo e aver ottenuto la sovranità sugli angeli, i Principati e le Potenze” (cfr 1 Pt 3, 18.22). “Elevato in alto” e reso invisibile agli occhi dei suoi discepoli, Gesù non li ha tuttavia abbandonati: infatti, “messo a morte nel corpo, ma reso vivo nello spirito” (1 Pt 3,18), Egli è ora presente in modo nuovo, interiore nei credenti, ed in Lui la salvezza è offerta ad ogni essere umano senza differenza di popolo, lingua e cultura. La Prima Lettera di Pietro contiene precisi riferimenti agli eventi cristologici fondamentali della fede cristiana. La preoccupazione dell’Apostolo è quella di porre in luce la portata universale della salvezza in Cristo. Analogo assillo troviamo in san Paolo, del quale stiamo celebrando il bimillenario della nascita, che alla comunità di Corinto scrive: “Egli (il Cristo) è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risorto per loro” (2 Cor 5, 15).
Non vivere più per se stessi, ma per Cristo: ecco ciò che dà senso pieno alla vita di chi si lascia conquistare da Lui. Lo manifesta chiaramente la vicenda umana e spirituale di san Benedetto, che, abbandonato tutto, si pose alla fedele sequela di Gesù Cristo. Incarnando nella propria esistenza il Vangelo, è diventato iniziatore d’un vasto movimento di rinascita spirituale e culturale in Occidente. Vorrei qui fare cenno a un evento straordinario della sua vita, di cui riferisce il biografo san Gregorio Magno e a voi certamente ben noto. Si potrebbe quasi dire che anche il santo Patriarca fu “elevato in alto” in una indescrivibile esperienza mistica. La notte del 29 ottobre del 540 – si legge nella biografia – mentre, affacciato alla finestra, “con gli occhi fissi su delle stelle s’internava nella divina contemplazione, il santo sentiva che il cuore gli si infiammava… Per lui il firmamento stellato era come la cortina ricamata che svelava il Santo dei Santi. Ad un certo punto l’anima sua si sentì trasportata dall’altra parte del velo, per contemplare svelatamente il volto di Colui che abita entro una luce inaccessibile” (cfr A.I. Schuster, Storia di san Benedetto e dei suoi tempi, Ed. Abbazia di Viboldone, Milano, 1965, p. 11 e ss.). Di certo, analogamente a quanto avvenne per Paolo dopo il suo rapimento in cielo, anche per san Benedetto, a seguito proprio di tale straordinaria esperienza spirituale, dovette iniziare una vita nuova. Se infatti la visione fu passeggera, gli effetti rimasero, la stessa sua fisionomia – riferiscono i biografi – ne risultò modificata, il suo aspetto restò sempre sereno e il portamento angelico e, pur vivendo sulla terra, si capiva che con il cuore era già in Paradiso.
San Benedetto ricevette questo dono divino non certo per soddisfare la sua curiosità intellettuale, ma piuttosto perché il carisma di cui Iddio lo aveva dotato avesse la capacità di riprodurre nel monastero la vita stessa del cielo e ristabilirvi l’armonia del creato mediante la contemplazione e il lavoro. Giustamente, pertanto, la Chiesa lo venera come “eminente maestro di vita monastica” e “dottore di sapienza spirituale nell’amore alla preghiera e al lavoro”; “fulgida guida di popoli alla luce del Vangelo” che “innalzato al cielo per una strada luminosa” insegna agli uomini di tutti i tempi a cercare Dio e le ricchezze eterne da Lui preparate (cfr Prefazio del Santo nel supplemento monastico al MR, 1980, 153).
Sì, Benedetto fu esempio luminoso di santità e indicò ai monaci come unico grande ideale Cristo; fu maestro di civiltà che, proponendo un’equilibrata ed adeguata visione delle esigenze divine e delle finalità ultime dell’uomo, tenne sempre ben presenti anche le necessità e le ragioni del cuore, per insegnare e suscitare una fraternità autentica e costante, perché nel complesso dei rapporti sociali non si perdesse di mira un’unità di spirito capace di costruire ed alimentare sempre la pace. Non a caso è la parola Pax ad accogliere i pellegrini e i visitatori alle porte di questa Abbazia, ricostruita dopo l’immane disastro del secondo conflitto mondiale; essa si eleva come silenzioso monito a rigettare ogni forma di violenza per costruire la pace: nelle famiglie, nelle comunità, tra i popoli e nell’intera umanità. San Benedetto invita ogni persona che sale su questo Monte a cercare la pace e a seguirla: “inquire pacem et sequere eam (Ps. 33,14-15)” (Regola, Prologo, 17).
Alla sua scuola i monasteri sono diventati, nel corso dei secoli, fervidi centri di dialogo, di incontro e di benefica fusione tra genti diverse, unificate dalla cultura evangelica della pace. I monaci hanno saputo insegnare con la parola e con l’esempio l’arte della pace attuando in modo concreto i tre “vincoli” che Benedetto indica come necessari per conservare l’unità dello Spirito tra gli uomini: la Croce, che è la legge stessa di Cristo; il libro e cioè la cultura; e l’aratro, che indica il lavoro, la signoria sulla materia e sul tempo. Grazie all’attività dei monasteri, articolata nel triplice impegno quotidiano della preghiera, dello studio e del lavoro, interi popoli del continente europeo hanno conosciuto un autentico riscatto e un benefico sviluppo morale, spirituale e culturale, educandosi al senso della continuità con il passato, all’azione concreta per il bene comune, all’apertura verso Dio e la dimensione trascendente. Preghiamo perché l’Europa sappia sempre valorizzare questo patrimonio di principi e di ideali cristiani che costituisce un’immensa ricchezza culturale e spirituale.
Ciò è possibile però soltanto se si accoglie il costante insegnamento di san Benedetto, ossia il “quaerere Deum”, cercare Dio, come fondamentale impegno dell’uomo. L’essere umano non realizza appieno sé stesso, non può essere veramente felice senza Dio. Tocca in particolare a voi, cari monaci, essere esempi viventi di questa interiore e profonda relazione con Lui, attuando senza compromessi il programma che il vostro Fondatore ha sintetizzato nel “nihil amori Christi praeponere”, “nulla anteporre all’amore di Cristo” (Regola 4,21). In questo consiste la santità, proposta valida per ogni cristiano, più che mai nella nostra epoca, in cui si avverte la necessità di ancorare la vita e la storia a saldi riferimenti spirituali. Per questo, cari fratelli e sorelle, è quanto mai attuale la vostra vocazione ed è indispensabile la vostra missione di monaci.
Da questo luogo, dove riposano le sue spoglie mortali, il santo Patrono d’Europa continua ad invitare tutti a proseguire la sua opera di evangelizzazione e di promozione umana. Incoraggia in primo luogo voi, cari monaci, a restare fedeli allo spirito delle origini e ad essere interpreti autentici del suo programma di rinascita spirituale e sociale. Vi conceda questo dono il Signore, per intercessione del vostro Santo Fondatore, della sorella santa Scolastica e dei Santi e Sante dell’Ordine. E la celeste Madre del Signore, che oggi invochiamo quale “Aiuto dei cristiani”, vegli su di voi e protegga questa Abbazia e tutti i vostri monasteri, come pure la comunità diocesana che vive attorno a Montecassino. Amen!

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venerdì 25 settembre 2009

Abbaye Notre-Dame de l’Annonciation

La comunità delle monache benedettine di Notre-Dame de l’Annonciation è nata nel 1979. Quattro ragazze si radunarono attorno alla Madre Élisabeth e, sulle orme di dom Gérard Calvet del monastero di Le Barroux, vollero fare anche loro “l’esperienza della tradizione”. Dopo vari spostamenti, nel 1983 trovarono un terreno nel comune di Le Barroux.
A seguito della prima fase dei lavori, l’installazione, ancora assai precaria, si rese possibile nel 1987. Il monastero è stato riconosciuto canonicamente dalla Santa Sede nel 1989 ed eretto in abbazia nel 1992. Madre Élisabeth ha ricevuto la benedizione abbaziale dalle mani del card. Mayer. Avendo rinunciato alla sua carica nel 2000, Madre Placide è stata eletta per succederle. Ella ha condotto a termine i lavori di costruzione e in particolare la chiesa abbaziale, che è stata consacrata il 12 maggio 2005 dal card. Medina, giunto come inviato speciale di Papa Benedetto XVI.
Le monache pubblicano il bollettino trimestrale La Font de Pertus - Lettre des Moniales, e sono impegnate in atelier di rilegatura, tessitura della seta e produzione di marmellate.

Abbaye Notre-Dame de l’Annonciation, La Font de Pertus - 84330 Le Barroux

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Chartres, 1985: "è un monaco che vi parla"

Pubblichiamo di seguito la famosa omelia della Pentecoste 1985 a Chartres, pronunciata da dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), fondatore e primo abate del monastero Sainte-Madeleine di Le Barroux.

Nel nome del Padre, e del Figlio, e dello Spirito Santo. Così sia.
Cari pellegrini di Notre-Dame,
Eccovi infine riuniti in compagnia dei vostri angeli custodi, presenti anch’essi a migliaia, che salutiamo con affetto e riconoscenza, al termine di questo ardente pellegrinaggio pieno di preghiere, di canti e di sacrifici, e già parecchi tra di voi hanno ritrovato la veste bianca dell’innocenza battesimale. Quale felicità!
Eccovi riuniti per grazia di Dio nella navata di questa cattedrale benedetta, sotto lo sguardo di Notre Dame de la Belle Verrière, una delle più belle immagini della Santissima Vergine. Immagine davanti alla quale sappiamo che san Luigi è venuto a inginocchiarsi dopo un pellegrinaggio compiuto a piedi nudi.
E questo non ci basta a ridarci il gusto delle nostre radici cristiane e francesi? Vi ringraziamo, cari pellegrini, perché in onore di questa Vergine santa voi vi siate messi in marcia a migliaia, e sono migliaia di voci che escono da migliaia di petti, di tutte le età e di tutte le condizioni, che ci danno questa sera l’immagine la più bella e la più viva della cristianità.
Vi ringraziamo di presentarvi ogni anno come una parabola vivente, perché quando nel corso di questi tre giorni di marcia verso il santuario di Maria voi avanzate pregando e cantando, esprimete la condizione stessa della vita cristiana, che è di essere un lungo pellegrinaggio e una lunga marcia verso il paradiso. E questa marcia finisce nella chiesa, che è l’immagine del santuario celeste.
La vita cristiana è una marcia, spesso dolorosa, che passa per il Golgota, ma rischiarata dagli splendori dello Spirito. E che sfocia nella gloria. Ah, possono perseguitarci, ma non permetto che ci si compatisca. Perché noi apparteniamo a una razza d’esiliati e di viandanti, dotati di un prodigioso potere d’invenzione, ma che rifiuta - è la sua religione - di lasciarsi distogliere lo sguardo dalle cose del Cielo.
Non è forse quello che canteremo tra poco alla fine del Credo?: Et exspecto - e attendo - Vitam venturi saeculi - la vita del secolo futuro. Oh, non un’età dell’oro terrestre, frutto di una supposta evoluzione, ma il vero paradiso di Dio, di cui Gesù parlava quando disse al buon ladrone: “Oggi sarai con me in paradiso”.
Se noi cerchiamo di pacificare la terra, di abbellire la terra, non è per sostituire il Cielo, ma per servigli da scala.
E se un giorno, di fronte alla barbarie montante, dovremo prendere le armi in difesa delle nostre città carnali, è perché esse sono, come diceva il nostro caro Péguy, “l’immagine e l’inizio e il corpo e l’assaggio della casa di Dio”.
Ma anche prima che suoni l’ora di una riconquista militare, non è forse permesso parlare di crociata, almeno quando una comunità si trova minacciata nelle sue famiglie, nelle sue scuole, nei suoi santuari, nell’anima dei suoi bambini?
E parimenti, cari amici, noi non abbiamo paura della rivoluzione: temiamo piuttosto l’eventualità di una controrivoluzione senza Dio.
Questo significherebbe rimanere chiusi nel ciclo infernale del laicismo e della desacralizzazione. Non ci sono parole per significare l’orrore che deve ispirarci l’assenza di Dio nelle istituzioni del mondo moderno. Guardate l’ONU: architettura curata, aula gigantesca, bandiere delle nazioni che sventolano nel cielo. Niente crocifisso!
Il mondo si organizza senza Dio, senza riferimento al suo Creatore. Immensa bestemmia! Entrate in una scuola di Stato: i fanciulli vi sono istruiti su tutto. Silenzio su Dio! Scandalo atroce! Mutilazione dell’intelligenza, atrofia dell’anima - senza parlare delle leggi che permettono il crimine abominevole dell’aborto.
Ciò che è più triste, cari fratelli, e più vergognoso, è che la massa dei cristiani finisce per abituarsi a questo stato di cose. Non protestano, non reagiscono. Oppure, per darsi una scusante, invocano l’evoluzione dei costumi e delle società. Che vergogna!
Vi è qualche cosa di peggio del rinnegamento dichiarato, diceva uno dei nostri, è l’abbandono dei princìpi col sorriso sulle labbra, scivolare lentamente dandosi arie di fedeltà. Non è un odore putrido quello che esala dalla civiltà moderna?
Ebbene, contro questa apostasia della civiltà e dello Stato, che distrugge le nostre famiglie e le nostre città, noi proponiamo un grande rimedio, esteso all’intero corpo, proponiamo l’idea-forza di ogni civiltà degna di questo nome: la cristianità.
Che cos’è una cristianità? Cari pellegrini, voi lo sapete e ne avete appena fatto l’esperienza: la cristianità è un’alleanza del sole e del cielo, un patto sigillato col sangue dei martiri fra la terra degli uomini e il paradiso di Dio, un gioco candido e serio, un umile inizio della vita eterna. La cristianità, cari fratelli, è la luce del Vangelo proiettata sulle nostre patrie, le nostre famiglie, sui nostri costumi e i nostri mestieri. La cristianità è il corpo carnale della Chiesa, il suo baluardo, la sua iscrizione temporale.
Le cristianità per noi francesi è la Francia gallo-romana, figlia dei suoi vescovi e dei suoi monaci. È la Francia di Clodoveo convertito da santa Clotilde e battezzato da san Remigio. È il Paese di Carlo Magno consigliato dal monaco Alcuino, entrambi organizzatori delle scuole cristiane, riformatori del clero, protettori del monasteri.
La cristianità per noi è la Francia del XII secolo, coperta da un bianco mantello di monasteri, ove Cluny e Cîteuax gareggiavano in santità, ove migliaia di mani giunte, consacrate alla preghiera intercedevano notte e giorno per le città temporali.
È la Francia del XIII secolo, governata da un santo re, figlio di Bianca di Castiglia, che invitava alla sua mensa san Tommaso d’Aquino, mentre i figli di san Domenico e di san Francesco si lanciavano sulle strade e nelle città a predicare il Vangelo del Regno.
La cristianità in Spagna è san Ferdinando, il re cattolico; è Isabella di Francia, sorella di san Luigi, che rivaleggiava col fratello in pietà, in coraggio e in intelligente bontà.
La cristianità, cari pellegrini, è il mestiere delle armi, temperato e consacrato dalla cavalleria, la più alta incarnazione dell’idea militare; è la crociata ove l’epopea è messa al servizio della fede, ove la carità si esprime con il coraggio e il sacrificio.
La cristianità è lo spirito laborioso, il gusto del lavoro ben fatto, il nascondersi dell’artista dietro la sua opera. Conoscete il nome degli autori di questi capitelli e di queste vetrate? La cristianità è l’energia intelligente e inventiva, la preghiera tradotta in azione, l’utilizzazione di tecniche nuove e ardite. È la cattedrale, slancio vertiginoso, immagine del cielo, immenso vascello ove il canto gregoriano si eleva unanime per ridiscendere in nappe silenziose nei cuori pacificati.
La cristianità, fratelli miei - siamo sinceri -, è anche un mondo minacciato dalle forze del male, un mondo crudele dove si affrontano le passioni, un paese in preda all’anarchia, il reame dei gigli saccheggiato dalla guerra, gli incendi, la carestia, la peste che semina la morte nelle campagne e nelle città.
Una Francia infelice, privata del suo re, in piena decadenza, votata all’anarchia e al sacco. Ed è in questo universo di fango e di sangue che l’humus della nostra umanità peccatrice, arrossata dalle lacrime della preghiera e della penitenza, fa germogliare il più bel fiore della nostra civiltà, la figura la più pura e la più nobile, lo stelo più diritto che sia nato sul nostro suolo di Francia: Giovanna di Domrémy.
Santa Giovanna d’Arco finirà di dirci che cos’è una cristianità. Non è soltanto la cattedrale, la crociata e la cavalleria; non è solo l’arte, la filosofia, la cultura e i mestieri degli uomini, che salgono verso il trono di Dio come una santa liturgia. È anche e soprattutto la proclamazione della regalità di Gesù Cristo sulle anime, le istituzioni e i costumi. È l’ordine temporale dell’intelligenza e dell’amore sottomesso alla altissima e santissima regalità del Signore Gesù.
È l’affermazione che i sovrani della terra non sono che i luogotenenti del re del Cielo.“Il regno non è a voi, dice Giovanna d’Arco al delfino. È a Messere. - E qual è il vostro Sire? viene chiesto a Giovanna. - È il re del Cielo, risponde la giovane, ed egli ve lo affida affinché lo governiate in suo nome”.
Quale allargamento delle nostre prospettive! Quale visione grandiosa della dignità dell’ordine temporale. In un brano che colpisce, la pastorella di Domrémy ci consegna il pensiero di Dio sul regno interiore delle nazioni.
Perché le nazioni - e la nostra in particolare - sono famiglie amate da Dio, amate a tal punto che Gesù Cristo, dopo averle raccolte e lavate col suo sangue, vuole ancora regnare su di esse con un regno tutto di pace, di giustizia e d’amore che prefigura il Cielo.
Francia, sei fedele alle promesse del tuo battesimo?” chiedeva il Papa cinque anni orsono. Santissima Vergine Maria, Nostra Signora di Francia, Nostra Signora di Chartres, noi vi chiediamo di guarire questo popolo infermo, di rendergli la sua purezza di infante, il suo onore di figlio. Noi vi chiediamo di rendergli la sua vocazione terriera, la sua vocazione rurale, le sue famiglie numerose che si curvano con rispetto e amore sulla terra che le nutre. Questa terra che ha saputo produrre, nel corso dei secoli, un pane onesto e frutti di santità.
Santissima Vergine, rendete a questo popolo la sua vocazione di soldato, di lavoratore, di poeta, di eroe e di santo. Ridateci l’anima della Francia!
Liberateci da questo flagello ideologico che violenta l’anima di questo popolo. Hanno cacciato il crocifisso dalle scuole, dai tribunali e dagli ospedali. Fanno in modo che l’uomo sia educato senza Dio, giudicato senza Dio e che muoia senza Dio.
È dunque a una crociata e a una riconquista che noi siamo chiamati. Riconquistare le nostre scuole, le nostre chiese, le nostre famiglie.
Allora, un giorno, se Dio ce ne fa la grazia, noi vedremo, al termine dei nostri sforzi, venire a noi il volto radioso e tanto amato di quella che i nostri avi chiamavano la dolce Francia. La dolce Francia, immagine della dolcezza di Dio.
Ci sarà consentito, questa sera, davanti a migliaia di pellegrini, di parlare della dolcezza di Dio?
È un monaco che vi parla. E la dolcezza di Dio, voi lo sapete, ricompensa al di là di ogni previsione le battaglie che i suoi servitori combattono per il Regno.
Dolcezza paterna di Dio. Dolcezza del crocifisso. O dolce Vergine Maria, avvolgete in un manto di dolcezza e di pace le nostre anime che affrontano dure battaglie.
L’anno prossimo è a tutta la cristianità che noi diamo appuntamento ai piedi di Nostra Signora di Chartres, che sarà ormai la nostra Czestochowa nazionale.
Lo Spirito Santo vi illumini, la santissima Vergine vi protegga e l’esercito degli angeli vi protegga. Così sia.

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mercoledì 23 settembre 2009

Commorantem

Cari fratelli, cari amici,
la liturgia ci fa pregare per dom Gérard, un anno dopo il suo dies natalis, il giorno della sua nascita al cielo.
Dom Gérard amava che le omelie fossero assai brevi e che il predicatore si sforzasse d’indirizzare le anime alla vita interiore e insegnasse ai fedeli a gustare gli splendori della vita liturgica.
Oggi, giustamente, la santa liturgia ci fa pregare per dom Gérard con un’orazione che si adatta alla sua anima. Ci fa dire (vi offro una mia traduzione): “Fate Signore che l’anima del vostro servitore dom Gérard, che durante il suo soggiorno sulla terra avete arricchito di qualità sacre, possa esultare per l’eternità nella gloriosa dimora celeste”.
Questa preghiera ci ricorda varie cose.
Anzitutto il primato della grazia. Se non è il Signore che edifica la città invano vi faticano i costruttori. Dom Gérard ci ha sempre insegnato a contare sulla grazia, in maniera audace. I tre monasteri, le due abbazie e il priorato di Sainte-Marie, sono i frutti della grazia e non hanno avvenire se non si poggeranno sempre sulla grazia, in maniera audace.
Secondariamente, quest’orazione ci ricorda che la nostra esistenza sulla terra non è che un semplice soggiorno. Commorantem, è colui che rimane sulla terra, “senza fretta di partire ma con la fretta di arrivare” in cielo, diceva dom Gérard. Questo passaggio sulla terra, se è temporaneo, è nondimeno decisivo, poiché tutto ciò che facciamo risuona nell’eternità. Ecco perché Dio colma le nostre anime di beni sacri e perché ne ha colmato l’anima di dom Gérard. L’anima di dom Gérard era ricca come la tunica della sposa del Salmo 44.
Un’anima appassionata, un’anima piena di libertà, un’anima sempre alla ricerca. Un’anima che cercava Dio e che viveva per trasmetterlo. Un’anima che viveva nel soprannaturale. Era sufficiente vederlo rientrare dal Mattutino con il suo rosario e le sue stampelle per farsi venire voglia di pregare, non come un’osservanza pesante, ma come un riposo nella preghiera.
L’anima di dom Gérard ha ricevuto molto dai suoi maestri. Penso in particolare ad André Charlier, senza dimenticare il nostro fratello oblato Jean-Baptiste Madiran. In una delle sue ultime Lettere agli amici egli svelava ciò che fu la chiave di volta della sua vita soprannatrurale, o piuttosto, ciò che fu la sua grazia propria. Oggi si direbbe il suo carisma. Si tratta della pietà filiale. La lettera era intitolata “Lo choc di un libro”. Un libro richiesto a Jean Madiran, che definisce la pietà filiale come “il riconoscimento di un debito enorme che fa dell’uomo un debitore insolvibile e di ogni civiltà una serie di azioni di grazia e di gratitudine verso quanti ci hanno preceduti”. Mi sembra che i sacris muneris, tutta la ricchezza della sua anima, la sua cultura, il suo coraggio, la sua fede, la sua devozione per la liturgia tradizionale, per le osservanze monastiche, e anche il suo attaccamento alla filosofia dell’essere, tutte le sue ricchezze erano come legate nella sua anima dalla pietà filiale.
E l’orazione continua e ci fa pregare per dom Gérard, affinché esulti per sempre nella dimora celeste. Non ci è difficile immaginare la sua esultanza, anche se la realtà supera quanto possiamo immaginare. Ma noi l’abbiamo visto in questa abbaziale, l’abbiamo visto nel corso delle sacre cerimonie, nei canti intercalati dal silenzio, nella coreografia dell’incensazione attorno all’altare, e si poteva vedere in lui come l’irruzione del cielo sulla terra e rese indistinte le frontiere del mondo visibile e di quello invisibile. Sì, Signore, fate – perché anche questo è un frutto della grazia – che egli esulti per sempre nella dimora celeste.
Amen.

[Omelia pronunciata da dom Louis-Marie Geyer d’Orth O.S.B., abate di Le Barroux, il 28 febbraio 2009, in occasione del primo anniversario della morte di dom Gérard Calvet, fondatore e primo abate dell’abbazia Sainte-Madeleine, trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B.]

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martedì 22 settembre 2009

I monaci


I monaci hanno fatto l'Europa,
ma non l'hanno fatta consapevolmente.
La loro avventura è anzitutto, se non esclusivamente,
un'avventura interiore,
il cui unico movente è la sete.
La sete d'assoluto.
La sete di un altro mondo,
di verità e di bellezza,
che la liturgia alimenta,
al punto da orientare lo sguardo
verso le cose eterne;
al punto da fare del monaco
un uomo teso con tutto il suo essere
verso la realtà che non passa.
Prima di essere delle accademie di scienza
e dei crocevia della civiltà,
i monasteri sono delle dita silenziose
puntate verso il cielo,
il richiamo ostinato, non negoziabile,
che esiste un altro mondo,
di cui questo non è che l'immagine,
che lo annuncia e lo prefigura.

[Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), fondatore e primo abate del monastero Sainte-Madeleine di Le Barroux]

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lunedì 21 settembre 2009

L’equilibrio in altitudine. Meditazioni sulla Regola / seconda parte

Mi sono attardato sul prologo della Regola. Di cosa si tratta? Anzitutto di aprire gli occhi alla luce che divinizza: ad deificum lumen. Ho pensato alle parole di Goethe sullo sguardo umano destinato a contemplare gli oggetti illuminati, non la luce: «Erleuchtetes, nicht Licht, zu schauen bestimmt». Perché la luce, che fa vedere tutto, è essa stessa invisibile. Da qui il nostro attaccamento agli oggetti illuminati, per mezzo dei quali ci dimentichiamo della luce. La conversione risiede nel cambiamento interiore che ci fa adorare la nuda luce attraverso e oltre gli oggetti illuminati e ci fa comportare, seguendo le parole dell’Apostolo, «come se vedessimo l’invisibile».

Da questa contemplazione della luce nascono le opere luminose. «Se, però, vogliamo trovare dimora sotto la sua tenda, ossia nel suo regno, ricordiamoci che è impossibile arrivarci senza correre verso la meta, operando il bene». Compiute queste opere, la risposta di Dio precederà le nostre invocazioni: «et antequam me invocetis, dicam vobis: ecce adsum».

[Gustave Thibon (1903-2001), L'équilibre dans l'altitude. Méditations sur la Règle, in Itinéraires, n. 246, settembre-ottobre 1980, pp. 71-77 (qui pp. 72-73), trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B. - 2 / segue]

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sabato 19 settembre 2009

Un appello alla vita interiore

Perché parlare della vita interiore? Perché sempre di più percepiamo che è la vita nascosta, interiore, che non si vede agli occhi degli uomini, a fare esplodere i grandi avvenimenti di questo mondo.
Gesù Cristo ha trascorso trent’anni di vita nascosta e nessuno sapeva chi era, cosa faceva. Durante questo tempo, non ha predicato, non ha svolto missione; viveva alla presenza del Padre, pregava, lavorava all’ombra del volto di Dio. L’essenziale della nostra vita è di essere braci sotto la cenere; ma sappiamo che la brace, una volta scaldata, è capace di generare un incendio.
Santa Teresa del Bambino Gesù, la grande piccola santa, è morta a ventiquattro anni senza essere mai uscita dal suo Carmelo ed è stata proclamata “dottore della Chiesa” e patrona delle missioni della Chiesa universale. Perché? Per quale ragione i Pontefici hanno voluto ciò, se non precisamente perché lei ha ottenuto, tramite la forza della sua profonda vita interiore, fatta di preghiera e intercessione, di essere come san Francesco Saverio la patrona delle missioni, anche se in un altro modo.
Un aneddoto vi può fare percepire qualcosa del suo mistero. Ai tempi della Guerra di Spagna, nel 1936, fra i monaci di Montserrat, i Rossi andarono all’assalto del monastero e rinchiusero i monaci; ve n’erano due, ciascuno in una cella separata, e ogni giorno veniva portata loro la pietanza. I guardiani riveleranno più tardi un fatto curioso: in una cella il monaco cantava, sembrava felice, il volto radioso, sebbene la sua sorte sembrasse assolutamente compromessa; nell’altra cella un silenzio tombale, il monaco non solo non cantava, ma sembrava profondamente depresso e contrariato. Questi due monaci conducevano da anni la stessa vita, seguendo la medesima regola, svolgendo identici lavori quotidiani, uguali osservanze, le stesse preghiere. Cosa stava succedendo, che uno affrontava la prova con gioia mentre l’altro era sopraffatto?
Lo avete indovinato. La vita interiore è qualcosa di talmente segreto, a tal punto profonda, che non si scopre se non in casi eccezionali, quando suona l’ora della verità. Si ha là a che fare con qualcosa di molto più misterioso di un semplice slancio d’entusiasmo nell’accezione moderna del termine. C’è una dolce influenza della virtù della fede nell’anima che trasforma la vita, che dona serenità, pace, equilibrio, forza d’animo, una pietà dolce e continua, un istinto soprannaturale che percepisce la mano di Dio in tutti gli avvenimenti. Vi è una specie di riuscita, di vittoria della fede che non si scopre se non in talune occasioni. Siamo tutti chiamati a questa fioritura dell’anima.
La vita interiore non è un nascondiglio né un rifugio. Piuttosto, è una rampa di lancio. Ciò che ha determinato la grande civilizzazione del Medioevo, con tutte le sue straordinarie opere di carità, è la contemplazione di qualche grande santo che le ha ispirate, come san Bernardo, san Tommaso d’Aquino e altri ancora. La vita segreta che si nutre di contemplazione, di preghiera, ha il suo irradiamento sino all’azione, sino all’azione apostolica e a quella temporale. Tali azioni non possono nascere che nei cuori profondamente innamorati di Dio.
La vita interiore è inoltre il rimedio alla mancanza di speranza. Quando si parla di speranza, si crede sempre che sia rivolta al domani; per una specie di vago ottimismo, si pensa che domani andrà meglio. No, non è questa la speranza. La speranza ha per oggetto Dio, l’unione a Dio, la felicità eterna. Allora mi direte: comunque, non ci potete dire che sulla terra non vi sia un po’ di speranza. Sì, ma nella misura in cui Dio lo permette per sostenere il nostro sguardo verso di Lui.
Da venti secoli i grandi santi, i grandi mistici non ci hanno detto altra cosa se non che c’è un’altra vita, un bene superiore a tutto ciò che la vita terrena ci può proporre. E non crediate che si tratti semplicemente di una specialità per “contemplativi”. No, gli uomini che più si sono calati nella vita del secolo, nell’azione, per esempio un san Vincenzo de Paoli, un san Giovanni Bosco che viveva permanentemente fra i piccoli per farli crescere in Dio, tutti questi santi attivissimi erano dei giganti della preghiera che traevano la loro forza e generosità nella vita contemplativa, nella vita interiore.
Sentendo un giorno una persona dirle “Ah!, che miseria, perché tanto disordine nel mondo e anche nella Chiesa?”, Madre Teresa rispose: “A causa vostra e a causa mia”. Una grande piccola santa, Madre Teresa. Quando parliamo della vita interiore, spesso la gente dice: “Ah, che bello, che grande, ma come arrivarci?”. Diciamo anzitutto che vi sono dei grandi ostacoli alla vita interiore. In primo luogo, vi sono persone superficiali che non si interessano se non a ciò che si muove, che si vede, che si mangia, che sta nella televisione, e che poi ci chiedono: “Come fate a essere così tranquilli, così sereni, talmente felici?”. Blaise Pascal è un genio straordinario; in una frase, si ha l’impressione che abbia detto tutto.
Per esempio: “Tutta l’infelicità degli uomini viene da una sola cosa, ovvero di non sapere rimanere a riposo in una camera”. Sembra una battuta, ma è vero. Ci muoviamo, parliamo, amiamo il rumore, ci piace rinnovare tutto, e sempre fare cose nuove. Impossibile stabilizzarsi, rimanere tranquilli. Bisogna sapersi fermare, di tanto in tanto fare un ritiro. E poi, c’è un altro ostacolo che è ancora più profondo: l’amor proprio. Ma non l’amor proprio nel senso che ha il termine quando una maestra elementare dice al bambino: “Se avessi un po’ d’amor proprio non faresti tutte quelle macchie sul quaderno”. Lei ha ragione, l’amor proprio sulle labbra di questa maestra significa il rispetto per se stessi, la dignità di sé. L’amor proprio di sé disordinato è la ricerca della comodità, il proprio bene, il proprio denaro, la potenza, gli affetti, il non potersi donare a Gesù Cristo, il non potersi offrire, il non potere imitare Gesù che ha detto: “Se qualcuno vuol venire dietro di me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua”. Siamo tutti invitati, chiamati a portare generosamente la croce di Cristo, ciascuno nella sua misura, ognuno secondo il suo stato di vita e le disposizioni della Provvidenza.Dio è là con noi, un Dio che non ci imbroglia, che ci soccorre tutti i giorni, che ci fa avanzare, sul quale noi possiamo dunque riposare. Ecco tutta la spiritualità della confidenza, dell’abbandono nelle mani di Dio, nell’amore divino. Diceva Santa Margherita Maria Alacoque: “Il Cuore di Gesù è un tesoro del quale la chiave è la confidenza”. Signore Gesù, datemi la strada per venire a Voi, aiutatemi, soccorretemi, io desidero entrare in Voi. La vita interiore è una vita eterna iniziata.

[Conferenza di dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), fondatore e primo abate del monastero Sainte-Madeleine di Le Barroux, tenuta presso il Seminario maggiore di Montréal, 11 marzo 1999, trad. it. di fr. Romualdo Obl.S.B.]


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venerdì 18 settembre 2009

L’equilibrio in altitudine. Meditazioni sulla Regola

Non ho né il tempo né la forza, e nemmeno — ahimé — l’esperienza sufficiente per commentare degnamente la Regola del santo patriarca. Vi apporto tuttalpiù alcune riflessioni sparse, uscite da una rilettura attenta del grande testo di san Benedetto, e questa testimonianza di un uomo del secolo XX — talora accusato di non essere abbastanza del suo tempo, ma che a suo avviso lo è sin troppo — dev’essere intesa come un omaggio lontano e nostalgico a tutto ciò che nella Regola risponde ai bisogni profondi dell’uomo eterno e, singolarmente, dell’uomo d’oggi.

Sono consapevole di parlare di ciò che mi manca. Poco importa, posto che ciò che manca sia riconosciuto e provato come tale. La ferita di un’assenza è ancora una presenza. E il contrasto con ciò che siamo affina, se rifiutiamo di mentire a noi stessi, la percezione di ciò che dovremmo essere. Un Balzac, un Hugo, dei quali è nota la vita avventurosa, non hanno forse sentito come nessun altro il prezzo della castità che tradivano con la loro condotta? «La verginità, madre di grandi cose, tiene nelle sue mani bianche la chiave dei mondi superiori», scrive il primo. E il secondo canta:
Hélas ! Faux désirs, fausses flammes ;
L’esprit par la chair se corrompt.
Quand nous n’aurons plus que des âmes
Comme les âmes s’aimeront !
O è necessario evocare Nietzsche — filosofo dell’esplosione e «frantumatore delle antiche tavole» —, che spinge il paradosso fino a questa confessione: «farsi avvocati della regola, sarà domani l’ultima forma di grandezza». La profezia si è compiuta: questo domani è il nostro oggi, e le servitù senza nome e senza numero che sono nate dalla sregolatezza ci fanno sospirare verso la regola come al vertice della libertà.

[Gustave Thibon (1903-2001), L'équilibre dans l'altitude. Méditations sur la Règle, in Itinéraires, n. 246, settembre-ottobre 1980, pp. 71-77 (qui pp. 71-72), trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B. - 1 / segue]

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Veilleurs dans la nuit



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San Benedetto


O Benedicte, vale, monachorum maxime Pastor!

Quos generas verbis, hos rege jam precibus.

Auxiliare tuis precibus quapropter ubique

Grex numero crescat, Pastor amate, tuus.

Jam gregis ex numero Pastoris crescit.

Conserva meritis ecce tuos famulos.


[Poema in onore di san Benedetto del beato Alcuino (735-804), P.L. 101, 795]

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