giovedì 25 aprile 2013

L’Istruzione Universae Ecclesiae. Messa antica, istruzioni per l’uso

[Ricorre in questi giorni il secondo anniversario della promulgazione – il 30 aprile 2011, nella memoria liturgica di san Pio V – dell’Istruzione «Universae Ecclesiae» sull’applicazione della Lettera Apostolica Motu Proprio data «Summorum Pontificum» di S.S. Benedetto XVI, pubblicata su specifico mandato di Benedetto XVI dalla Pontificia Commissione «Ecclesia Dei». Ricordiamo la ricorrenza trascrivendo il nono capitolo del recente volume di Massimo Introvigne, L’eredità di Benedetto. Quello che Papa Ratzinger lascia al suo successore Francesco, Sugarco, Milano 2013, pp. 110-116.]

Il 13 maggio 2011 la Pontificia Commissione «Ecclesia Dei», su specifico mandato di Benedetto XVI, ha pubblicato l’attesa Istruzione «Universae Ecclesiae» sull’applicazione della Lettera Apostolica Motu Proprio data «Summorum Pontificum» di S.S. Benedetto XVI [1]. Come si ricorderà, tale lettera apostolica del 7 luglio 2007 [2] liberalizzava l’uso della liturgia «antica», celebrata secondo il rito detto di san Pio V (1504-1572) e con l’uso del Messale del 1962 del beato Giovanni XXIII (1881-1963). L’Istruzione riporta l’approvazione esplicita di Benedetto XVI e porta la data formale del 30 aprile 2011, festa liturgica di san Pio V.
L’Istruzione interviene su una materia quanto mai controversa, e per comprenderne la portata è necessaria un po’ di storia. Dopo la riforma liturgica del 1969 del venerabile Paolo VI (1897-1978) – che non si limitava a passare dal latino alle lingue correnti, ma modificava profondamente la liturgia – si poneva il problema della sorte della liturgia precedente, la cosiddetta «Messa antica» o «Messa di san Pio V», spesso detta anche «Messa in latino», ma in modo impreciso perché anche la Messa secondo la riforma del 1969 può essere celebrata in lingua latina. Non poteva esistere nessun dubbio sulla volontà del venerabile Paolo VI di rendere la «nuova Messa» obbligatoria come rito ordinario della Chiesa latina, mentre le Chiese orientali conservavano le loro antiche liturgie. Qualcuno riteneva che la Messa antica fosse stata abrogata, e fosse vietata salvo speciali permessi o indulti concessi a singoli o congregazioni: un’obiezione che si fondava anche su commenti privati e interviste dello stesso venerabile Paolo VI. In favore della Messa antica sorse un vasto movimento, che in parte accettò anche la nuova Messa accanto all’antica, in parte rifiutò la Messa nuova, andando nel secondo caso a confluire nella galassia di movimenti – il più noto dei quali è la Fraternità Sacerdotale San Pio X fondata dall’arcivescovo Marcel Lefebvre (1905-1991) – che contestavano anche tutti o alcuni dei documenti del Concilio Ecumenico Vaticano II. Per questi movimenti la Messa antica non era l’unica – e forse neppure la principale – ragione di dissenso con Roma, ma ne divenne in qualche modo la bandiera.
Proprio in occasione della scomunica di mons. Lefebvre nel 1988, come l’Istruzione Universae Ecclesiae ora ci ricorda, il beato Giovanni Paolo II, il quale «con lo speciale Indulto Quattuor abhinc annos, emanato nel 1984 dalla Sacra Congregazione per il Culto Divino, [aveva concesso] a determinate condizioni la facoltà di riprendere l’uso del Messale Romano promulgato dal Beato Papa Giovanni XXIII», «con il Motu Proprio “Ecclesia Dei” [appunto] del 1988, esortò i Vescovi perché fossero generosi nel concedere tale facoltà in favore di tutti i fedeli che lo richiedevano». In seguito a tale motu proprio nacquero anche gli istituti detti appunto «Ecclesia Dei» costituiti da sacerdoti e religiosi i quali intendevano preservare il rito antico e nello stesso tempo aderivano al Magistero conciliare e post-conciliare dei Pontefici, prendendo esplicitamente le distanze da mons. Lefebvre. Questi istituti, pur celebrando con il rito antico, s’impegnavano a non contestare non solo la validità – che non era contestata neppure da mons. Lefebvre, almeno in via generale – ma neppure la legittimità del nuovo rito.
Con il motu proprio Summorum Pontificum Benedetto XVI – dal momento che l’appello ai vescovi perché «fossero generosi», per usare un eufemismo, non sempre era stato accolto – fece un passo in più. Chiarì definitivamente che l’antico rito non era stato «mai abrogato» [3] e che rito antico e rito nuovo sono «due usi dell’unico rito romano» [4]. Svincolò dall’approvazione previa dei vescovi le Messe private di singoli sacerdoti, cui peraltro, spiegò, «possono essere ammessi – osservate le norme del diritto – anche i fedeli che lo chiedessero di loro spontanea volontà» [5], e quelle di ordini e società religiose, ordinando che potessero essere celebrate con il rito antico senza richiedere alcun permesso. Per le parrocchie e i santuari il Papa chiedeva ai parroci e rettori di accogliere «volentieri» [6] le richieste di fedeli legati al rito antico e, qualora ci fossero problemi con i parroci, invitava i fedeli a rivolgersi al vescovo, a sua volta – scriveva Benedetto XVI – «vivamente pregato di esaudire il loro desiderio» [7]. Se il vescovo «non può provvedere» [8], aggiungeva il motu proprio, «la cosa venga riferita alla Commissione Pontificia “Ecclesia Dei”» [9].
Trascorsi tre anni dal motu proprio del 2007, com’era stato annunciato, è stata promossa un’inchiesta tra i vescovi di rito latino, dei cui risultati si è tenuto conto per l’Istruzione Universae Ecclesiae. L’Istruzione sintetizza la triplice finalità del motu proprio del 2007, così articolandola: «a) offrire a tutti i fedeli la Liturgia Romana nell’usus antiquior, considerata tesoro prezioso da conservare; b) garantire e assicurare realmente, a quanti lo domandano, l’uso della forma extraordinaria; c) favorire la riconciliazione in seno alla Chiesa». Quanto al secondo punto, si sottolinea come tale facoltà «vada interpretata in un senso favorevole ai fedeli che ne sono i principali destinatari».
È impensabile che non si sia tenuto conto anche delle tante lamentele pervenute alla commissione «Ecclesia Dei» nei confronti di vescovi i quali non applicavano le norme del motu proprio, quando pure non lo criticavano esplicitamente o ne promuovevano una sorta di boicottaggio. Forse tenendo conto di questi problemi, la Universae Ecclesiae ribadisce anzitutto che «il Motu Proprio Summorum Pontificum costituisce una rilevante espressione del Magistero del Romano Pontefice e del munus a Lui proprio di regolare e ordinare la Sacra Liturgia della Chiesa e manifesta la Sua sollecitudine di Vicario di Cristo e Pastore della Chiesa Universale», formula particolarmente impegnativa e solenne per indicare un Magistero da cui dovrebbe essere impensabile che un vescovo cattolico si discosti.
Una parte centrale della Universae ecclesiae riguarda appunto il ruolo dei vescovi. Essi sono chiamati ad «adottare le misure necessarie per garantire il rispetto della forma extraordinaria del Rito Romano, a norma del Motu Proprio Summorum Pontificum». Adottare le «misure necessarie» per conseguire un certo scopo evidentemente esclude la messa in discussione o il boicottaggio di quello scopo. Certo, afferma l’Istruzione, i vescovi «devono vigilare in materia liturgica per garantire il bene comune e perché tutto si svolga degnamente, in pace e serenità nella loro Diocesi», ma questa vigilanza non può essere arbitraria. Al contrario, deve essere «sempre in accordo con la mens del Romano Pontefice chiaramente espressa dal Motu Proprio Summorum Pontificum». Detto in altre parole, ai vescovi non spetta decidere se è opportuno affiancare al nuovo rito, che evidentemente mantiene il suo ruolo di rito ordinario, il rito antico come rito straordinario. Questo è già stato deciso dal Papa. Ai vescovi spetta semmai stabilire come possa essere introdotto o conservato nelle loro diocesi il rito antico, in stretta conformità non solo alla lettera ma anche alla mens, cioè allo spirito, del motu proprio, il cui scopo è favorire il rito antico e non ostacolarlo.
Dal momento che le controversie non saranno certo arrestate dalla Universae Ecclesiae, molto opportunamente l’Istruzione trasforma il semplice «riferimento» alla Commissione «Ecclesia Dei» del motu proprio in una vera e propria procedura giuridica di appello: «In caso di controversia o di dubbio fondato circa la celebrazione nella forma extraordinaria, giudicherà la Pontificia Commissione Ecclesia Dei».
L’Istruzione ribadisce che per le Messe private non è necessario chiedere alcun permesso, e che esigere tali permessi è un abuso. Precisa pure che «nel caso di un sacerdote che si presenti occasionalmente in una chiesa parrocchiale o in un oratorio con alcune persone ed intenda celebrare nella forma extraordinaria, come previsto dagli artt. 2 e 4 del Motu Proprio Summorum Pontificum, il parroco o il rettore di chiesa o il sacerdote responsabile di una chiesa, ammettano tale celebrazione, seppur nel rispetto delle esigenze di programmazione degli orari delle celebrazioni liturgiche della chiesa stessa». È dunque chiaro che se un gruppo di fedeli, accompagnato da un proprio sacerdote, si presenta in una chiesa per celebrare una Messa con il rito antico il parroco non può rispondere «Sono contrario alla Messa antica» oppure «Devo chiedere al vescovo». Se la Chiesa non è impegnata da altre celebrazioni, il parroco o rettore deve «ammettere tale celebrazione».
O meglio, la deve ammettere a meno che gli consti che le persone e i sacerdoti che la chiedono fanno parte di gruppi che rifiutano l’autorità del Papa, non solo in teoria ma anche in pratica – per esempio contestandone sistematicamente il Magistero –, ovvero di gruppi che, anche accettando in generale l’autorità del Pontefice, rifiutino la validità o la legittimità della nuova Messa. La formula è molto precisa: «I fedeli che chiedono la celebrazione della forma extraordinaria non devono in alcun modo sostenere o appartenere a gruppi che si manifestano contrari alla validità o legittimità della Santa Messa o dei Sacramenti celebrati nella forma ordinaria e/o al Romano Pontefice come Pastore Supremo della Chiesa universale».
Sono esclusi dai benefici della Universae Ecclesiae non solo i fedeli che «appartengano» ai gruppi che il Papa in altra occasione ha indirettamente chiamato «anticonciliaristi» [10] ma anche coloro, che pur senza «appartenervi», li «sostengano» con parole, scritti o offerte. Non solo coloro che contestano l’autorità del Papa ma anche quelli che contestano «solo» la nuova Messa. E per essere rubricati fra tali contestatori non è necessario mettere in dubbio la «validità» del nuovo rito; è sufficiente contestarne la «legittimità». I due concetti, canonicamente, non sono sinonimi, e la norma sembra scritta quasi apposta per descrivere la posizione della Fraternità Sacerdotale San Pio X, la quale afferma che – a certe condizioni – la nuova Messa è valida, ma afferma pure che non è «legittima», cioè non è una Messa cui i fedeli possano assistere senza mettere in pericolo la loro fede.
Per quanto riguarda le regolari celebrazioni nelle parrocchie e nei santuari, l’Istruzione offre precisazioni sulla questione del cosiddetto «gruppo stabile» (coetus fidelium stabiliter existens) che è titolato a richiederla. «Un coetus fidelium potrà dirsi stabiliter exsistens ai sensi dell’art. 5 § 1 del Motu Proprio Summorum Pontificum, quando è costituito da alcune persone di una determinata parrocchia che, anche dopo la pubblicazione del Motu Proprio, si siano unite in ragione della loro venerazione per la Liturgia nell’Usus Antiquior, le quali chiedono che questa sia celebrata nella chiesa parrocchiale o in un oratorio o cappella; tale coetus può essere anche costituito da persone che provengano da diverse parrocchie o Diocesi e che a tal fine si riuniscano in una determinata chiesa parrocchiale o in un oratorio o cappella». Non è dunque obbligatorio che tutti i membri del gruppo stabile siano della stessa parrocchia, anzi neppure della stessa diocesi.
Anche nel caso in cui non ci sia un «gruppo stabile» abbastanza numeroso, il vescovo non è autorizzato a chiudere la pratica magari tirando un sospiro di sollievo. Al contrario, spiega l’Istruzione, «nei casi di gruppi numericamente meno consistenti, ci si rivolgerà all’Ordinario del luogo per individuare una chiesa in cui questi fedeli possano riunirsi per ivi assistere a tali celebrazioni, in modo tale da assicurare una più facile partecipazione e una più degna celebrazione della Santa Messa». Anche qui, «individuare una chiesa» è cosa evidentemente diversa dal rispondere che non c’è nessuna chiesa disponibile.
Ci vuole, certo, un «sacerdote idoneo». Ma, precisa l’Istruzione, non c’è bisogno di un provetto liturgista o di un docente universitario di lingua latina. Per il latino, è sufficiente «una sua conoscenza basilare, che permetta di pronunciare le parole in modo corretto e di capirne il significato». Per «la conoscenza dello svolgimento del Rito, si presumono idonei i sacerdoti che si presentano spontaneamente a celebrare nella forma extraordinaria, e l’hanno usato precedentemente». Certo, questo è un punto di partenza. La Chiesa vuole che la sua liturgia sia la più degna possibile e per questo «si chiede agli Ordinari di offrire al clero la possibilità di acquisire una preparazione adeguata alle celebrazioni nella forma extraordinaria. Ciò vale anche per i Seminari, dove si dovrà provvedere alla formazione conveniente dei futuri sacerdoti». Mancano perfino i sacerdoti in grado d’insegnare come si celebra con il vecchio rito? Risponde l’Istruzione che «nelle Diocesi dove non ci siano sacerdoti idonei, i Vescovi diocesani possono chiedere la collaborazione dei sacerdoti degli Istituti eretti dalla Pontificia Commissione Ecclesia Dei, sia in ordine alla celebrazione, sia in ordine all’eventuale apprendimento della stessa».
Altre norme precisano che nel Messale del 1962 in latino «potranno e dovranno essere inseriti nuovi santi e alcuni dei nuovi prefazi», secondo norme che saranno emanate in seguito; che i sacerdoti che lo desiderano possono usare il Breviario del 1962 in lingua latina; e che è confermata la facoltà di usare la formula antica per la Cresima, mentre per l’Ordine sacro l’antico rito può essere seguito solo negli istituti «Ecclesia Dei» «e in quelli dove si mantiene l’uso dei libri liturgici della forma extraordinaria», dunque non nelle diocesi, il che spiacerà a qualche sostenitore del rito antico.
Al di là di questo ultimo elemento, il senso generale dell’Istruzione è chiaro. Si tratta di un’Istruzione a favore della maggiore diffusione del rito antico, e intesa a rimuovere gli ostacoli che derivano da un’errata o maliziosa lettura del precedente motu proprio. Tutto questo – come Benedetto XVI ha precisato nel discorso del 6 maggio 2011 ai partecipanti al IX Congresso Internazionale di Liturgia – non per contrapporre riforma liturgica e rito antico, ma per integrarli e «riconciliarli». «Non poche volte – ha detto il Papa in quell’occasione – si contrappone in modo maldestro tradizione e progresso. In realtà, i due concetti si integrano: la tradizione è una realtà viva, include perciò in se stessa il principio dello sviluppo, del progresso. Come a dire che il fiume della tradizione porta in sé anche la sua sorgente e tende verso la foce» [11]. Il Papa chiede dunque insieme ossequio alla riforma liturgica del venerabile Paolo VI e al motu proprio del 2007: «piena fedeltà alla ricca e preziosa tradizione liturgica e alla riforma voluta dal Concilio Vaticano II, secondo le linee maestre della [costituzione sulla liturgia del Vaticano II] Sacrosanctum Concilium e dei pronunciamenti del Magistero» [12].

[1] Cfr. Pontificia Commissione«Ecclesia Dei», Istruzione «Universae Ecclesiae» sull’applicazione della Lettera Apostolica Motu Proprio data «Summorum Pontificum» di S.S. Benedetto XVI, del 30-4-2011. Dove non diversamente indicato, tutte le citazioni del presente capitolo fanno riferimento a questo testo.
[2] Cfr. Benedetto XVI, Lettera Apostolica Summorum Pontificum Motu Proprio data, del 7-7-2007.
[3] Ibidem.
[4] Ibidem.
[5] Ibidem.
[6] Ibidem.
[7] Ibidem.
[8] Ibidem.
[9] Ibidem.
[10] Cfr. Idem, Incontro con il clero delle Diocesi di Belluno-Feltre e di Treviso, Auronzo di Cadore, del 24-7-2007.
[11] Cfr. Idem, Discorso ai partecipanti al Convegno promosso dal Pontificio Ateneo SantAnselmo, nel 50° anniversario di fondazione, del 6-5-2011.
[12] Ibidem.

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lunedì 22 aprile 2013

Vivere la liturgia: il monastero di Clear Creek

Otto ore di preghiera. Otto ore di lavoro. Otto ore di riposo. Questa è la vita dei monaci dell’abbazia benedettina statunitense Our Lady of Clear Creek – ai piedi delle colline dell’Oklahoma –, una fondazione sorta nel 1999 come “figlia” della celebre abbazia francese Notre-Dame de Fontgombault, appartenente alla Congregazione benedettina di Solesmes. Living the Liturgy: Clear Creek Monastery – un documentario di 52 minuti in lingua inglese realizzato nel 2009 in collaborazione con la rete televisiva EWTN – esplora la vita di questi monaci e il loro ruolo nella restaurazione della cultura cristiana.
 


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venerdì 19 aprile 2013

La lezione dell’umiltà

[Il 19 aprile 2005 Papa Benedetto XVI veniva eletto al soglio pontificio. Nella ricorrenza dell’anniversario pubblichiamo – grazie alla cortese autorizzazione di Christophe Geffroy, direttore del mensile La Nef e curatore del recente volume Benoît XVI. Le pontificat de la joie l’intervento in omaggio del Padre Abate dell’abbazia Sainte-Madeleine di Le Barroux, Dom Louis-Marie Geyer d’Orth O.S.B.]
Eravamo non poco fieri del fatto che l’eletto del conclave avesse scelto come patrono del suo ministero petrino il grande patriarca d’Occidente: san Benedetto. Ma dobbiamo riconoscere che Benedetto XVI ci ha dato una buona lezione: quella della vera umiltà. Si tratta di una virtù rara. L’umiltà è rara, rarissima, anche nella milizia benedettina. In effetti, è facile confonderla con il pauperismo e la viltà. Benedetto XVI ha realizzato i dodici gradi dell’umiltà descritti nel capitolo VII della Regola di san Benedetto. È il capitolo più lungo, perché l’umiltà è il fondamento della vita cristiana. Lo stesso Gesù ne è maestro nei confronti dei suoi discepoli, come colui che è mite e umile di cuore. Charles Péguy (1873-1914) ha ben visto l’importanza di tale virtù quando ha scritto, in Un nouveau théologien: «Questa religione, che ha messo l’orgoglio in cima ai peccati capitali, che ha fatto dell’umiltà forse più di una virtù: il suo stesso stile e il suo ritmo, il suo gusto segreto, la sua attitudine esteriore e profonda, carnale e spirituale, la sua postura, i suoi costumi, la sua esperienza perpetua, quasi il suo stesso essere».
Ma che cos’è l’umiltà? In primo luogo è vivere costantemente sotto lo sguardo di Dio. Benedetto XVI l’ha mostrata attraverso la consapevolezza con la quale ha svolto il proprio ruolo. È un uomo coscienzioso, un uomo che vive a partire da quel luogo segreto del cuore in cui si sente la voce di Dio. L’ha dimostrato con le sue prese di posizione coraggiose, in particolare a Ratisbona, al Bundestag, a Westminster, e con degli atti forti, come il motu proprio Summorum Pontificum.
L’umiltà significa obbedire, anche in condizioni difficili. Benedetto XVI l’ha dimostrato accettando il gravoso incarico di sommo pontefice all’età di 78 anni. L’ha dimostrato inoltre non imponendo un suo programma personale, ma seguendo lo Spirito Santo secondo la Sacra Scrittura, la Tradizione e il Magistero anteriore. Ha seguito la fede della Chiesa, tema ricorrente nel suo insegnamento, in particolare nel suo ultimo discorso al clero della diocesi di Roma. Egli parla del «grande “noi” dei credenti».
Ancora, quale umiltà nella semplicità con la quale racconta i propri ricordi! Si ha la sensazione che non abbia nulla da nascondere. Sappiamo che la sua vita e la sua giovinezza sono state passate al vaglio dell’inquisizione mediatica. Ma il Papa che è venuto dalla Germania aveva già detto tutto. È il quinto grado dell’umiltà, che consiste per il monaco nel non nascondere nulla al proprio abate. Egli ha dimostrato la virtù dell’umiltà nelle dimissioni, senza dubbio. Non si è sentito affatto necessario. Ha valutato in coscienza che l’incarico lo superava, superava le sue forze fisiche e personali. Ha compiuto, ancora, il sesto e il settimo grado dell’umiltà. «La Chiesa non ha più bisogno di me». Se non avesse dato l’esempio del coraggio e del duro lavoro, si sarebbe potuto credere a una debolezza del carattere; ma tutta la sua vita è stata dedicata anima e corpo al lavoro nella vigna del Signore. Tutto il suo lavoro intellettuale e i vari incarichi pastorali lo provano.
Infine, Benedetto XVI ha compiuto gli ultimi cinque gradi dell’umiltà, che riguardano le attitudini esteriori: la riservatezza e la padronanza del portamento, le parole, il riso, lo stesso modo di parlare e di camminare. Tutte le persone che hanno avuto occasione di salutarlo, anche brevemente, sono unanimi nel dire che ha nello sguardo qualcosa di serio, semplice e gioioso. San Benedetto dice che il monaco che passa per i dodici terribili gradi dell’umiltà giungerà a una carità che mette al bando ogni paura. Dimenticavamo i gesti protocollari di rispetto, ma non ci saremmo mai permessi una qualunque familiarità con lui.
L’ultimo segno della sua umiltà: la Terra intera sembra essersi arrestata di stupore di fronte alla sua rinuncia. Come gli apostoli davanti a Gesù Cristo trasfigurato sul Tabor. Mai un uomo pubblico della nostra epoca ha avuto altrettanta autorità come lui in quel momento. Come se, tramite lui, la vera umiltà fosse infine apparsa e avesse risuonato almeno un breve istante nel cuore degli uomini. Egli ha mostrato così la verità della parola di Nostro Signore Gesù Cristo: «Chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato». Grazie, Santo Padre, grazie dal profondo del cuore.
[Dom Louis-Marie Geyer d’Orth O.S.B., La leçon de l’humilité, in Christophe Geoffroy (a cura di), Benoît XVI. Le pontificat de la joie, Artège, Perpignan 2013, pp. 115-117, trad. it. di sr. Bertilla Obl.S.B.]

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martedì 16 aprile 2013

La relazione indissolubile tra la liturgia e la Gerusalemme celeste (buon compleanno Papa Benedetto!)

Erik Peterson (1890-1960)
«Non abbiamo quaggiù una città stabile, ma andiamo in cerca di quella futura» (Eb 13,14). Questa citazione dalla Lettera agli Ebrei, si potrebbe porre come motto della vita di Erik Peterson. […] Il punto di partenza di questo cammino è il carattere vincolante della Sacra Scrittura. Secondo Peterson, la Sacra Scrittura diventa ed è vincolante non in quanto tale, essa non sta solo in se stessa, ma nell’ermeneutica della Tradizione apostolica, che, a sua volta, si concretizza nella successione apostolica e così la Chiesa mantiene la Scrittura in un’attualità viva e contemporaneamente la interpreta. Attraverso i Vescovi, che si trovano nella successione apostolica, la testimonianza della Scrittura rimane viva nella Chiesa e costituisce il fondamento per le convinzioni di fede permanentemente valide della Chiesa, che incontriamo innanzitutto nel credo e nel dogma. Tali convinzioni si dispiegano continuamente nella liturgia quale spazio vissuto della Chiesa per la lode di Dio. L’Ufficio divino celebrato sulla terra si trova, quindi, in una relazione indissolubile con la Gerusalemme celeste: là è offerto a Dio e all’Agnello il vero ed eterno sacrifico di lode, di cui la celebrazione terrena è solamente immagine. Chi partecipa alla Santa Messa si ferma quasi alla soglia della sfera celeste, dalla quale contempla il culto che si compie tra gli Angeli e i Santi. In qualsiasi luogo in cui la Chiesa terrestre intona la sua lode eucaristica, essa si unisce a questa festosa assemblea celeste, nella quale, nei Santi, è già arrivata una parte di se stessa, e dà speranza a quanti sono ancora in cammino su questa terra verso il compimento eterno.
[Benedetto XVI, Discorso ai partecipanti al Simposio internazionale su Erik Peterson, del 25-10-2010]

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domenica 14 aprile 2013

Nazarena - In Paradisum

La monaca reclusa Maria Nazarena (Julia Crotta, 1907-1990)
il 24 giugno 1938, giorno della sua vestizione
nel monastero benedettino camaldolese
Il 10 febbraio, per la solennità di Santa Scolastica, sorella di San Benedetto, è consuetudine delle monache camaldolesi invitare i monaci di San Gregorio al Celio al Vespro ed a cena. Nel 1990 la data cadde di sabato e, per motivi liturgici, si decise di anticipare l'incontro fraterno tra i due monasteri. Così, mercoledì 7 febbraio, nella memoria della sepoltura di San Romualdo […] le monache, sapendo che la reclusa non avrebbe visto un altro giorno, vennero tutte alla sua cella. La trovarono sveglia: Nazarena le guardava con occhi vivi e luminosi. Volevano restare con Nazarena sino all'ultimo respiro, e intanto cantavano i Salmi. Passarono due ore. Le monache intonarono un inno […]:

Canta la sposa i doni dell'Amato,
     corre nel campo, a cercare Lui.
     Danza di gioia, nell'udire il nome.
Vede l'Assente nel giardino nuovo,
     gode all'annunzio della sua missione:
     Cristo risorto porterà ai fratelli.
Uomini stanchi, timorosi e vinti
     corrono in fretta al sepolcro vuoto,
     vedono, e crede chi l'aveva amato.
Eccolo, viene a salti per i monti,
     eccolo, viene a balzi per i colli.
     Esci, sorella, corri ad incontrarlo!
"Vedi, l'inferno è divenuto vuoto,
     alzati, amica, mia bella, vieni,
     corrimi dietro nel ritorno al Padre".
Godi al banchetto della nuova Pasqua,
     entra con Cristo nelle nozze eterne,
     vivi l'amore che ti dona il Padre!

Conclusa la dossologia con "Amen, Alleluia", Suor Nazarena emise un lieve sospiro ed in silenzio si consegnò fra le braccia dello sposo. Vide Gesù per la seconda volta, e per sempre.

[Thomas Matus, Nazarena. Una monaca reclusa nella comunità camaldolese, trad. it., Edizioni Camaldoli - Pier Giorgio Pazzini Editore, Camaldoli (Arezzo) 1998, pp. 118-120]

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