sabato 28 luglio 2012

Pregustare il Cielo

[Anche quest'anno, grazie alla bontà del Signore, fra qualche ora l'oblato e la moglie oblata, si recheranno per un periodo di riposo e ricentramento della loro vita interiore, presso i "loro" santi monaci dell'abbazia che li ha accolti mediante l'oblatura nella famiglia spirituale del monastero provenzale Sainte-Madeleine di Le Barroux, di cui ci siamo occupati in varie occasioni su Romualdica (si veda in particolare qui, qui e qui). L'oblato e l'oblata avranno così modo, fra l'altro, di pregustare un po' di Cielo, partecipando in abbazia al divino ufficio e alla divina liturgia. Romualdica s'interrompe quindi per qualche settimana, ma saluta i propri amici e lettori con la promessa di una preghiera intensa per loro, e offre di seguito qualche fotografia del luogo, quale pegno d'amicizia e invito caloroso a recarsi in questo cuore di vita spirituale e liturgica: "Venite e vedrete" (Gv 1,39)]

Veduta generale dell'abbazia Sainte-Madeleine; sullo sfondo, le "dentelles de Montmirail"
Veduta aerea del complesso abbaziale

Veduta generale degli edifici monastici

La chiesa abbaziale alla luce dell'aurora

L'ingresso degli officianti alla Messa comunitaria

Veduta d'insieme di una funzione liturgica nella chiesa abbaziale

La comunità monastica attorno alla tomba del fondatore e primo abate, Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008),
in occasione della Messa Pro 3° anniversario obitus, il 28 febbraio 2011

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giovedì 26 luglio 2012

La vacanzina dell'oblato (e dell'oblata)




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giovedì 19 luglio 2012

Benedettini e canto gregoriano: uno straordinario documento d'epoca


Segnalato dal portale d’informazione Riposte catholique, presentiamo con piacere uno storico documento audio risalente all’inizio del secolo XX, e precisamente al 1904. Il coro di monaci benedettini del Collegio Sant’Anselmo in Roma (oggi Pontificio Ateneo Sant’Anselmo) interpreta l’Introito della solennità dell’Assunzione della B.V. Maria, Gaudeamus omnes in Domino. La direzione del coro è affidata al celebre musicologo francese Dom Joseph Pothier O.S.B. (1835-1923), colto storiografo del canto gregoriano che si colloca sulla scia dell’opera iniziata da Dom Prosper Guéranger O.S.B. (1805-1875). Monaco dell’abbazia di Solesmes, Dom Pothier ne sarà anche vice-priore, e in seguito priore dell’abbazia Saint-Martin di Ligugé, prima di diventare abate dell’abbazia di Saint-Wandrille di Fontenelle. Nel 1890 ha pubblicato il libro Les Mélodies Grégoriennes, che per molti decenni è rimasto una pietra miliare nella specifica materia. A Solesmes sotto la sua guida ebbe inizio nel 1889 la pubblicazione dei manoscritti musicali riguardanti il periodo storico che va dal secolo IX al secolo XVI, un’iniziativa che sarà denominata Paléographie Musicale. Nell’anno 1904 ottenne da Papa san Pio X (1903-1914) la nomina alla presidenza della commissione dedita alla stampa della sezione musicale della liturgia cattolica.



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mercoledì 11 luglio 2012

San Benedetto e la città armoniosa / terza e ultima parte

Il padre

Pensiamo che questa gioia purissima, fatta di carità e di tenerezza, abbia per principio un disegno particolarissimo di Dio sull’Ordine di san Benedetto, visibile soprattutto attraverso il carattere paterno di un’autorità la cui dolcezza tempera il rigore del combattimento spirituale. Il dispiegamento di questa grazia è stato possibile perché essa ha attraversato, per giungere sino a noi, il cuore di un padre. È questo il nostro terzo punto. Senza soffermarci sull’assai verosimile influenza romana del paterfamilias sull’istituzione benedettina – influenza così spesso e giustamente invocata –, come non percepire il carattere di potenza paterna dell’autorità, al contempo biblica e romana, così come l’ha concepita il nostro santo legislatore? Le prime parole del prologo della Regola non sono forse “Ascolta, figlio mio, […] accogli volentieri i consigli ispirati dal suo amore paterno”? La chiave di volta della famiglia monastica come essa appare nelle Regola, è l’autorità paterna dell’abate. Ci si trova davanti a una specie di sacramento della bontà di Dio. Per designare il soggetto dell’autorità monastica, la regola ha mantenuto la parola ebraica abba, che vuol dire padre, un termine che ritroviamo ripetutamente sulle labbra di Gesù, un titolo dato agli anziani presso i monaci del deserto, un titolo infine che è confluito nel vocabolario religioso ed ecclesiale per designare semplicemente i sacerdoti, come se ogni autorità non potesse che essere paterna. La parola “autorità”, d’altro canto, che ha la medesima radice del verbo latino augere, auctum (aumentare), suggerisce l’idea di crescita, di elevazione, di sviluppo. Non vediamo con ciò nobilitata la nozione d’autorità? L’autorità essendo non quello che opprime, ma che libera, ciò che fa essere di più. L’autorità paterna sprigiona le forze della crescita che l’infanzia contiene.
Due eccessi si oppongono all’educazione dell’uomo: da una parte la volontà di potenza di un’autorità abusiva che annichila le forze in crescita del piccolo essere umano; e dall’altra l’eccesso inverso, l’assenso lassista davanti alle spinte anarchiche dello sviluppo infantile. La Regola di san Benedetto e lo spirito del grande patriarca soggiacente a quattordici secoli di tradizione monastica, evitano questi due scogli mediante la congiunzione di due forze vitali: quella della bontà paterna e quella della pietà filiale, l’una davanti all’altra, come il dito di Dio raggiunge l’indice del primo uomo svegliandolo alla vita, come appare nel grande affresco della Cappella Sistina.
Poiché noi siamo qui per ricordarci delle gentilezze che, avendo attraversato il cuore di un padre, sono giunte fino a noi, ci pare che non possiamo fare di meglio per rendere grazie, che essere – nell’accezione piena del termine – riconoscenti: si tratta di ri-conoscere, di conoscere meglio, di procedere oltre nell’atto di conoscenza che è la condizione della gratitudine.
Signore Dio, Padre di Nostro Signore Gesù Cristo, siate benedetto, voi che ci avete donato in san Benedetto un’immagine della vostra sapienza e della vostra bontà, voi che gli avete ispirato di cercare “di essere più amato che temuto”; di fare “trionfare la misericordia sulla giustizia”; di “detestare i vizi, ma amare i suoi fratelli” e di mostraci il cammino della “carità, che quando è perfetta, scaccia il timore”; voi che, per mezzo di lui, ci avete esortati a “correre per la via dei precetti divini col cuore dilatato dall’indicibile sovranità dell’amore”; voi che avete ispirato a tutti i discepoli del patriarca dei monaci una tenera sollecitudine per i piccoli e gli anziani, per gli ospiti e i pellegrini e soprattutto per i più poveri – perché in essi principalmente noi vediamo un’immagine del vostro figlio Gesù Cristo –, siate benedetto per sempre.
Cari amici e fratelli oblati, benediciamo insieme il Signore di avere suscitato Benedetto come il virgulto della primavera della Chiesa, nel momento in cui le ondate barbariche si abbattevano sull’Impero e sui miasmi di una civiltà decadente. In maniera tale che l’Ordine benedettino, fedele alle sue origini, possa continuare la sua missione, ovvero di richiamare senza sosta al mondo che invecchia che, per la fioritura gioiosa delle virtù del Vangelo e per la dolcezza della sua liturgia – malgrado il crollo di un mondo di cui Satana accelera la rotta –, il Regno di Dio è fra noi. Quel Regno che Gesù ci dipinge come delle nozze, come un banchetto e come una famiglia in festa; quel Regno di cui Gesù ci ha aperto le porte mediante il sangue della Croce; quel Regno nel quale lo stesso Signore asciugherà tutte le lacrime dagli occhi, in cui l’armonia rimpiazzerà il caos; quel Regno interamente di pace, di luce e di amore è già instaurato, è già presente nelle anime pure. Non resta che a noi, se la nostra fede è ancora viva, se il nostro cuore è ancorato nella santa speranza, di fare della nostra vita un’anticipazione dell’eternità; non rimane che a noi, giorno dopo giorno, nella freschezza dell’amore che perdona, non resta che a noi, ogni mattino, di risvegliarci nel Paradiso.

[Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), La cité harmonieuse, 25 luglio 1987, in Benedictus. Tome III. Lettres aux oblats, Éditions Sainte-Madeleine, Le Barroux 2011, pp. 31-42 (qui pp. 39-42), trad. it. di fr. Romualdo Obl.S.B. / 3 - fine]

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martedì 10 luglio 2012

San Benedetto e la città armoniosa / seconda parte

Il mistico

I Dialoghi ci riportano la sua visione del mondo in un raggio della luce di Dio, la sua penetrazione delle anime le più nascoste e il suo dono di profezia; la vita angelica che ha condotto in un’incessante contemplazione, solo con Dio soltanto, nel deserto di Subiaco. Ma quel che ci fa riconoscere in san Benedetto le più alte grazie dell’unione mistica non è soltanto il privilegio di una visione, bensì che tutte le occupazioni del monaco come le ha descritte sono miracolosamente collegate da un filo invisibile e come sospese a Dio che è l’origine di tutto. Si può dire senza timore d’imbrogliarsi che l’intero monastero, con la sua organizzazione, il suo regolamento, le sue consuetudini, il suo ufficio liturgico, la sua gerarchia, addirittura la sua architettura, non è altro che un immenso apparecchio respiratorio della vita divina, un culto, un’ininterrotta liturgia in presenza di Dio. E questo senza abilità, senza prestazioni, senza nulla da cui traspaia la forza o l’ostentazione, ma per la semplicità di un’antica tradizione trasmessa dai monaci dell’Oriente cristiano, di cui san Benedetto è l’erede e il continuatore: grazie all’ordinamento tutto romano di una vita calma, regolare, sedentaria, diremmo contadina, tutto sale a Dio giorno e notte come l’odore soave dell’incenso.
Sottolineiamolo con cura: se san Benedetto può essere considerato uno dei più grandi mistici di tutti i tempi, ciò non accade per la testimonianza di libri, di profezie o di rivelazioni di cui sarebbe l’autore, ma perché, avendo sposato il pensiero di Dio sulla natura e la santità della vocazione battesimale, egli vi ha dato un’iscrizione storica di carattere universale, capace di toccare le anime nella loro profondità attraverso tutti i secoli e in ogni parte del globo. Fino alla fine dei tempi, anime cristiane rinate al fonte battesimale – uomini e donne tormentate da una sete d’assoluto – troveranno nella corrente della grazia benedettina la realizzazione del disegno primordiale che presiede alla salvezza dell’umanità. Ossia: fare di tutta la propria esistenza, attraverso le nebbie dell’esilio, un’instancabile ricerca del volto di Dio, un’anticipazione della vita eterna, “un umile e nobile servizio della maestà divina nel recinto del monastero”, diventato nel dolce pensiero del patriarca dei monaci il paradiso claustrale; la famiglia di Dio, riunita in Cristo, si esercita mediante la carità e la lode a imitare i costumi degli abitanti del Cielo. Programma sublime che non è stato possibile se non perché san Benedetto fu non soltanto un mistico, ma un osservatore realista, un incomparabile conoscitore degli uomini.

Il conoscitore degli uomini

Dopo tre anni di eremitismo durante i quali il santo visse solitario in presenza di Dio alla maniera degli angeli, egli fu raggiunto nella sua grotta da un gruppo di monaci venuti da Vicovaro, che gli chiesero di diventare il loro abate. Sappiamo come, poco tempo dopo, giacché erano impauriti dall’esigenza del santo, cercarono di avvelenarlo. Se riportiamo questo episodio ben noto è perché esso illumina di una luce cruda la terra ingrata in cui san Benedetto ebbe la missione di coltivare e raccogliere i frutti delle anime per conto del Padre celeste.
L’umanità con la quale san Benedetto ebbe a che fare, quella che nel corso dei secoli verrà a bussare alla porta dei monasteri, non proviene da uno scenario diverso rispetto al nostro; è un’umanità peccatrice, sono poveri peccatori in via di conversione che il patriarca dei monaci inizia a guidare verso la perfezione. Giacché ecco la sfida, ecco il paradosso: il fine assegnato dalla Regola è l’amore perfetto che vince il timore, caritas perfecta quae foras mittit timorem (“mittere foras”: espellere, cacciare fuori). Una tale carità perfetta, che è esattamente il regime del Cielo, è proposta a uomini grossolani, ai quali san Benedetto ricorda delle prescrizioni assai elementari, enumerate al capitolo IV della Regola: non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non essere superbo, non essere dedito al vino, non essere dormiglione né pigro
Nel capitolo LXV è questione del priore, al quale è raccomandato di non fomentare le risse, le divisioni, di non occasionare scandali, di non entrare in rivalità con il suo abate. E se non intenderà starsene quieto e sottomesso in comunità, che sia addirittura espulso dal monastero: “Quod si et postea in congregatione quietus et oboediens non fuerit, etiam de monasterio pellatur”.
Tutta l’arte di san Benedetto, profondo psicologo, conoscitore avvertito delle miserie e dei recessi nascosti del cuore umano, ma anche delle profonde risorse, fu di organizzare la vita in comunità, autentica sfida lanciata a una natura ferita dal peccato originale, in maniera tale che – da una parte – le tracce delle nostre cadute siano combattute e neutralizzate dalla direzione ferma, vigilante, talvolta rigorosa dell’autorità, e – dall’altra – che i talenti, le ricchezze latenti di ciascuno siano osservate con una paterna benevolenza in vista di un dispiegamento dell’anima. Da qui quei contrasti che riempiono i capitoli della Regola, contrasti che colpiscono e che sono quasi continuamente il libero sfogo di un sentimento filiale – come appare nel capitolo LXXII, “Il buon zelo dei monaci” – e le severe prescrizioni del codice penitenziale, la sorveglianza esercitata dagli anziani sui giovani, la disciplina regolare, la battitura con la verga.
Può darsi che non abbiamo ancora sottolineato ciò che ha fatto l’essenziale di questa organizzazione della comunità e di questa educazione dell’anima. Un aspetto mi sembra capitale e merita di essere posto in evidenza: questo modo di educazione spirituale non si basa tanto su delle industrie umane, bensì sulle energie divine, che hanno la loro fonte in Dio. San Benedetto fonda il meglio della sua azione sull’irradiamento trasfiguratore della luce divina nelle anime, che invoca due volte all’inizio del prologo e che chiama “quella luce divina”: “Apertis oculis nostris ad deificum lumen”, il monaco deve progredire “aprendo gli occhi a quella luce divina”.
Un altro esempio è rivelatore: il posto della bontà e della misericordia nell’esercizio del governo abbaziale. Non vi è qui come una prova tangibile dell’origine celeste di un’istituzione che sembra, in diversi aspetti pratici, appartenere al tempo, ma le cui radici profonde affondano nell’eternità? Riteniamo di potere applicare alla vita benedettina ciò che Padre Humbert Clérissac O.P. dice di tutto quello che partecipa un po’ profondamente alla vita della Chiesa. Così dice: “Vi si sente il sigillo di una grazia d’unzione, di tenerezza e di gioia, e come un accento paradisiaco”.

[Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), La cité harmonieuse, 25 luglio 1987, in Benedictus. Tome III. Lettres aux oblats, Éditions Sainte-Madeleine, Le Barroux 2011, pp. 31-42 (qui pp. 35-39), trad. it. di fr. Romualdo Obl.S.B. / 2 -continua]

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lunedì 9 luglio 2012

San Benedetto e la città armoniosa / prima parte


Mikalojus Konstantinas Čiurlionis (1875-1911), Rex, 1909
Ogni anno celebriamo due volte la festa del nostro glorioso patriarca. Il 21 marzo, giorno della sua preziosa morte, ci piace evocare qualche tratto della sua fisionomia conservato dal suo primo biografo, san Gregorio Magno, Papa benedettino del secolo VI. La seconda festa, che chiamiamo “San Benedetto d’estate”, cade l’11 luglio. In tale ricorrenza abbiamo a cuore non solo d’esaltare le virtù dell’eremita di Subiaco e del patriarca dei monaci, ma anche di mettere in luce il genio di colui che la Chiesa considera come il Padre dell’Europa e l’ispiratore della civiltà occidentale, al quale Cassiodoro ha conferito il titolo di “fundator placidae quietis”, fondatore del tranquillo riposo, maestro della pace interiore. Ecco quel che è stato san Benedetto al dire dei suoi contemporanei. Dobbiamo collocare questa espressione nel contesto della società antica, così fortemente marcato da un carattere sociale, familiare e comunitario, a tal punto che essa potrebbe essere felicemente tradotta con “fondatore della città armoniosa”.
Il sogno di una città armoniosa non ha mai cessato di fecondare l’immaginazione degli antichi. Reminiscenza di ciò che fu o intuizione di quel che sarà? Un’età dell’oro appare profeticamente in quasi tutti i racconti mitologici. In Virgilio troviamo una misteriosa profezia:
Già la novella prole discende dall’alto del cielo […] il bambino nascituro con cui cesserà l’età del ferro e in tutto il mondo sorgerà quella dell’oro […] se resta traccia dei nostri delitti […] e reggerà il mondo pacato dalle virtù del padre”.
Nell’opera di Platone, presso il quale l’idea fiorente in immagine dà nascita al mito, esiste una mirabile descrizione della città armoniosa. La si trova nel Crizia ed è l’evocazione di Atlantide, quella favolosa città inghiottita nel fondo del mare, simbolo della felicità umana scomparsa per una misteriosa fatalità. Dando libero corso alla sua ispirazione, il filosofo descrive, in una specie di Paradiso perduto, i costumi politici di una società ideale. Ognuno dei dieci re che presiede al destino delle proprie città esercita fra di essi mutuamente la funzione di giudice, ciascuno giudicando l’altro in uno sforzo estremo di giustizia.
Quando scendevano le tenebre e il fuoco dei sacrifici si era consumato, indossavano tutti una veste azzurra, bella quant’altre mai, sedendo in terra, accanto alle ceneri dei sacrifici per il giuramento. Di notte, quando ormai il fuoco intorno al tempio era completamente spento, venivano giudicati e giudicavano se uno di loro avesse accusato un altro di violare qualche legge; dopo aver formulato il giudizio, all’apparire del giorno, incidevano la sentenza su una tavola d’oro che dedicavano in ricordo insieme alle vesti”.
Può essere che il torto di Platone sia di avere concepito il fondamento e le leggi della sua Repubblica per uomini perfetti, o almeno in procinto di diventarlo; la società civile, così alta sia l’idea che se ne può avere, non è assimilabile a un monastero, e le sue leggi non possono impunemente mutare in regole monastiche. La città terrestre, al contrario, reclama più spesso leggi e punizioni rigorose per proteggere i cittadini e per impedire ai disonesti di prevalere.
In compenso, può essere che appartenga alla sapiente istituzione benedettina, per quanto essa sia interamente orientata al Cielo, di concedere alla terra il segreto della sua armonia e di rilanciare l’intuizione profetica del filosofo greco, di cui il poeta Charles Péguy ha sottolineato il ruolo provvidenziale:
I sogni di Platone si erano fatti strada per Lui.
Per Lui solo canta il gigantesco Eschilo.
I canti si sono però taciuti e i sogni si sono estinti. La fiaccola della civiltà passò allora rapidamente in mani latine. Coincidenza significativa: nel 529 l’imperatore Giustiniano chiude la scuola d’Atene e nello stesso anno san Benedetto fonda a Montecassino il primo monastero d’Occidente. La scuola d’Atene era stata fondata dagli iniziatori dell’ellenismo, da uomini interamente kaloskagathòs, un programma – lo sapete – in cui si congiunge la bontà dell’essere all’eleganza del suo dispiegamento.
Il monastero benedettino, definito da san Benedetto una scuola del servizio del Signore e da san Bernardo come una scuola d’amore (schola amoris), completamente indirizzato verso un sapere più alto mediante la preghiera, la carità, la bellezza del culto e un’ardente ricerca di Dio, senza cessare di essere un arco teso verso il Cielo, rileverà da una retorica morente per diventare – come ha detto un antico – un’accademia della pace, di silenzio e di libertà. Come? Essenzialmente per il rispetto delle anime, la carità fraterna, l’assopimento delle passioni; la casta tinta di una preghiera sacramentale che si accorda alla bellezza del giorno; insegnando ai barbari quant’è dolce il Signore e com’è dolce vivere tra fratelli nell’amicizia di Dio.
Un fedele abituato a soggiornare nei nostri chiostri, rileggendo la Regola di san Benedetto, vi ha scoperto per i moderni una carta, un’arte di vivere assieme, un’arte di stabilire l’uomo nella pace. Così dice: “Lo spirito benedettino è apparentato a quello di Virgilio, è la misura dei Greci, l’atarassia degli stoici; è la fede di Abramo e di Mosè penetrata di senso umano; è l’affettuosa intimità; è soprattutto la bellezza di tutte le ore del giorno, come se ciascuna fosse una piccola eternità” (Jean Guitton).
A cosa dobbiamo attribuire il successo di questa invasione pacifica che ha colonizzato l’Europa del Medioevo e ha modellato lo spirito civilizzatore medievale? Non cadiamo nell’errore tipicamente moderno di cercare il segreto di una riuscita soprannaturale nella congiunzione di avvenimenti di ordine psicologico o sociale. Il segreto dei benedettini è tutto intero nella Regola e il segreto della Regola è nell’anima del nostro santo patriarca; è la che occorre cercare. Vi è che l’anima del Nostro Santo Padre Benedetto era quella di un mistico, di un conoscitore d’uomini e di un padre.

[Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), La cité harmonieuse, 25 luglio 1987, in Benedictus. Tome III. Lettres aux oblats, Éditions Sainte-Madeleine, Le Barroux 2011, pp. 31-42 (qui pp. 31-35), trad. it. di fr. Romualdo Obl.S.B. / 1 - continua]

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sabato 7 luglio 2012

La solennità di san Benedetto si avvicina

L'11 luglio si avvicina: la solennità di san Benedetto ci porterà senza dubbio tutte le grazie che il nostro Santo Padre Benedetto ci vuole ottenere, se almeno sappiamo disporci a riceverle.
In una civiltà cristiana degna di questo nome, tutto, assolutamente tutto, deve salire verso Dio; occorre sottomettere alla regalità di Gesù Cristo le anime, le istituzioni e i costumi. L'Europa è stata fatta per questo, affinché le nazioni, che sono delle grandi famiglie, possano camminare verso Dio nella santità: "di servirlo senza timore in santità e giustizia, al suo cospetto per tutti i nostri giorni" (cantico del Benedictus).
È questo il progetto benedettino; ciò che cerchiamo modestamente di fare sulla collina del Barroux, nella grigia uniformità dei lavori e dei giorni, che la preghiera liturgica annoda come una collana d'oro per l'onore di Dio.
Siate davvero persuasi che conduciamo, voi e noi, veramente in maniera molto simile, la medesima vita della grazia, che è una preparazione del Cielo, e che il più piccolo dei nostri doveri di stato è come una santa liturgia!

[Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), [sans numéro], 2 luglio 1984, in Benedictus. Tome III. Lettres aux oblats, Éditions Sainte-Madeleine, Le Barroux 2011, p. 15, trad. it. di fr. Romualdo Obl.S.B.]

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martedì 3 luglio 2012

La visita / The visit / La visite


Monache cattoliche in visita alle loro sorelle ortodosse
presso il monastero Stavropoleos di Bucarest (Romania).

Catholic nuns visiting their orthodox sisters
at the Stavropoleos monastery, in Bucharest (Romania).

Nonnes catholiques visitant leur sœurs orthodoxes
dans la monastère de Stavropoleos, Bucarest (Roumanie).

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