mercoledì 3 novembre 2010

Opus Dei

Opus Dei è l’espressione con la quale san Benedetto designa l’ufficio divino.
Com’è venuta a san Benedetto l’idea di applicare all’ufficio divino un’espressione che definiva l’intera vita monastica?
Sì, queste due parole significano tutta la vita monastica, e anche tutta la vita cristiana, con tutto ciò che comporta, in termini di preghiera e di virtù: tutto ciò che non è opus diaboli (Origene).
Perché san Benedetto le ha ristrette all’ufficio divino? Perché in tutta la vita, la preghiera è la cosa più importante.
Sarà bene riflettere su ciascuna di queste due parole.
Anzitutto opus, lavoro. La vita ascetica è sforzo, pena (ponos), è kopos, termine che significa tagliare – è il lavoro dei taglialegna; è agon, battaglia, lotta; è hydros, sudore. Si tratta della questione più rude che si possa immaginare. Nelle Vite dei Padri, Isaia dice e ripete: «Nessun più grande kopos che la via di Dio. Ci vuole molto kopos…», e così via. Un altro Padre dei più illustri, Giovanni di Scete, alla domanda «cos’è il monaco?», risponde semplicemente «Kopos!»: qualcuno che fatica.
I più mistici fra questi autori antichi, lungi dall’opporre il lavoro alla mistica, esigono sforzi maggiori piuttosto che a mirare in alto. Il più mistico di tutti, Macario, che ha avuto meravigliose esperienze d’unione a Dio, dice continuamente che occorre, fino alla morte, aggiungere una pena all’altra. La virtù risulta dalle pene e dai sudori. Come scrive un grande Studita attorno al secolo IX, «ciò non si compie senza grande pena. Non vi giungeremo se, giorno e notte, non ci faremo violenza, e grande violenza».
Questo vale per tutta la vita; ma vale soprattutto per la preghiera. Essa non si dà senza fatica, almeno all’inizio. Alla fine, se richiede ancora sforzo, questa pena sarà deliziosa, e si rimarrà incantati di accettarla.
Opus non si oppone solo a riposo, a quiete, a rilassamento. Ergon, la sua traduzione in greco, si oppone a parergon, «cosa accessoria».
Due abati – per i monaci il lavoro costituiva tutta «l’esteriorità» della vita – s’incontrano e si lamentano: «Il lavoro manuale lo consideriamo accessorio; ma ormai l’esercizio dell’anima è diventato accessorio!».
Noi stessi dobbiamo vigilare, nelle nostre vite sovraccariche di mansioni.
La preghiera è ergon, il resto è parergon, o strumento per la preghiera.
La preghiera è la frequentazione spirituale di Dio. Essa costituisce l’essenza medesima della vita monastica. E il resto si deve praticare come mezzo. Il nostro sforzo principale: che il nostro spirito rimanga perpetuamente aderente alle cose divine e a Dio. Tutto il resto è piccolo, è minimo.
Nulla di stupefacente che sia difficile. Poiché tali sono le virtù, a più forte ragione lo è questa.
Opus Dei: di Dio.
Questo va a correggere ciò che alcune affermazioni precedenti potevano contenere d’inquietante o che scoraggiava.
Dice il Vangelo di Nostro Signore che passava «tutta la notte pregando Dio». Perché la preghiera è l’opera di Dio. È lo Spirito Santo che ci fa pregare. Il testo che vi leggo è opera mia; gli appunti che prendete mentre vi parlo sono opera vostra: voi ne siete gli artefici. Ecco, l’artefice della nostra preghiera, è Dio.
L’Opus Dei è anzitutto il Donum Dei. Lo stesso Cristo ha detto: «Da me, io non posso fare nulla». A più forte ragione la mia preghiera è opus Dei. Cassiano lo dice chiaramente. E san Massimo il Confessore: «Dio fa tutto in noi come in strumenti: la virtù e la conoscenza e la vittoria e la saggezza e la bontà e la verità».
È lui che ci fa volere il bene.
Tutte le belle azioni dei santi, sono opera Dei.
Attenzione!, il lavoro di Dio non ci dispensa dal fare il nostro. Occorre che diciamo: «Siamo servi inutili», incapaci di fare quel che si voglia di soprannaturale. L’uomo può fare molte cose naturali; ma non può far sì che le sue opere, anche quelle meravigliose, siano soprannaturali. Il lavoro materiale della nostra preghiera, lo possiamo fare; ma l’opera di grazia, bisogna che Dio la faccia in noi.

[Irénée Hausherr S.J. (1891-1978), Prière de vie. Vie de prière. Notes de conférences, Lethielleux, Parigi 1964, pp. 156-158, trad. it. di fr. Romualdo Obl.S.B.]

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