domenica 7 novembre 2010

Un certo gusto del Cielo / seconda parte

Ecco cosa leggiamo nel Miroir des vierges, uno scritto anonimo del secolo XII:
«Colui che vuole meritare di giungere alla soglia della vita eterna, Dio non gli chiede che un santo desiderio. Come a dire: se non possiamo compiere sforzi degni dell’eternità, almeno mediante il desiderio delle realtà eterne, malgrado che siamo così in basso, così lenti, già vi corriamo. Si cerca di mangiare nella misura in cui si ha fame, di riposarsi nella misura in cui si è affaticati; altresì è per la qualità di un santo desiderio che si cerca il Cristo, che ci si unisce a lui, e che lo si ama».
Tuttavia, il desiderio implica una certa presenza in sé dell’oggetto desiderato («Tu non mi cercherai…», dice Pascal). Così, il desiderio del Cielo si accompagna già a un certo sapore interiore, fatto di confidenza felice e filiale: questa pace divina che oltrepassa ogni sentimento di cui parla san Paolo, questo riposo divino, nel quale entrano solo le anime liberate dal loro egoismo e dalle loro passioni.
Siamo quindi assai lontani dalla sensibilità moderna, per la quale il riposo comporta un elemento peggiorativo, vicino alla pigrizia e alla passività. Lo stesso Dio nella Bibbia non parla della sua pienezza che in termini di pace e riposo; e nel Salmo 94 si legge il grande castigo con il quale minaccia i reprobi: «Non entreranno nel luogo del mio riposo».
Un riposo laborioso, conquistato per mezzo della preghiera, che sfugge al contempo alle febbri dell’agitazione e alle frodi del quietismo. Ecco perché il gusto interiore e liturgico della vita celeste si accorda alla corsa, la mortificazione, la vigilanza, temi monastici per eccellenza: il monaco è un soldato, una sentinella della notte; ma questa sentinella abita in Gerusalemme, non aspira che al Cielo, rimane teso verso l’eternità. Numerosi trattati monastici hanno per titolo Del desiderio celeste, Per la contemplazione e l’amore della patria celeste accessibile solo a coloro che disprezzano il mondo, Della felicità della patria celeste. Il nome con il quale si designa la vita monastica è sia la via perfetta sia la vita angelica. Quest’ultimo termine significa una parentela stabilita fra la vocazione contemplativa dei monaci e la funzione degli angeli – che è quella di guardare, lodare e contemplare la Bellezza di Dio – piuttosto che uno sforzo di disincarnazione. Come dice un apoftegma dei Padri del deserto: «Il monaco, come i serafini e i cherubini, è tutto uno sguardo».
È stato osservato che san Bernardo, così affettuosamente rapito dalla Passione di Cristo, ha lasciato un maggior numero di sermoni sull’Ascensione che sulla Passione, ciò che sarebbe incomprensibile se si dimenticasse quest’idea forza dei monaci di tutti i tempi: vivere per il Cielo, e finanche anticipare il Cielo. È il programma che la colletta dell’Ascensione propone a tutti i cristiani: «Noi che crediamo il tuo Unigenito, nostro Redentore, è asceso al Cielo, possiamo abitare in spirito [mente] nelle cose del Cielo».
«Ipsi quoque mente in caelestibus habitemus».
Come comunicavano attorno a essi, i monaci di Cluny, la loro devozione per il Cielo? Sembra che sia per l’irradiamento dell’arte e della liturgia, piuttosto che per mezzo della predicazione. Tutta una corrente teologica uscita dai Padri greci, fondata essenzialmente sulla divinizzazione per opera dello Spirito Santo e la restaurazione dell’immagine celeste, viene a confluire in Pietro il Venerabile, abate di Cluny, uno degli uomini più influenti del suo tempo. Costui compose per i propri monaci un Ufficio della Trasfigurazione che entrerà, tre secoli più tardi, nel calendario della Chiesa universale. La Trasfigurazione è la luce del Cielo che per qualche istante inonda il nostro mondo sublunare; più esattamente è l’involucro carnale del Corpo santissimo di Nostro Signore Gesù Cristo che lascia passare i raggi della luce celeste; suprema rivelazione del destino umano, quando il cosmo transilluminato sarà completamente passato nello stato di gloria; è questa teologia dell’illuminazione che ha ispirato il timpano di Vézelay, gli affreschi delle chiese in Borgogna e Auvergne, nei quali si vede il Cristo Pantocrator, Signore di gloria e illuminatore dell’universo, assiso fra i cherubini.
Nel cristianesimo del secolo XII, tutto è similitudine e imitazione dei cori celesti; dal dispiegamento delle gerarchie ecclesiali fino alla fuga dal mondo dei monaci e degli eremiti che cercano l’intimità con Dio nel segreto del suo volto, passando dagli splendori dell’arte, il canto gregoriano e i portali di Chartres, tutto altro non è che apprendistato del Cielo, tensione verso il Regno, marcia verso l’invisibile.
Ispirata dagli scritti di sant’Agostino, questa fusione di analogie, culla della sensibilità cristiana, trova il suo dottore in san Gregorio, Papa benedettino del secolo VI il cui pensiero torna senza fine sul tema dell’esilio, della fuga dal tempo e del desiderio della vita eterna. Ecco un elogio della Gerusalemme celeste che proviene da un monaco anonimo del secolo XII, senza dubbio discepolo di san Gregorio. Estraiamo un brano di questa lunga meditazione, fondata sul desiderio del Cielo, citata nella sua integralità nell’opera di dom Jean Leclercq L’Amour des lettres et le désir de Dieu.
«Il frequente ricordo della città e del re di Gerusalemme è per noi consolazione dolce, occasione gradita di meditazione, necessario sollievo del nostro pesante fardello. […]
Consolidata con forza, quella città sta in eterno; per il Padre risplende di luce fulgidissima; per il Figlio, splendore del Padre, gode e ama; per lo Spirito Santo, amore del Padre e del Figlio, sussistendo si modifica, contemplando si illumina, unendosi gioisce; è, vede, ama. […]
Quando saremo liberati dal corpo di questa morte? Quando saremo inebriati dall’abbondanza della casa di Dio nella sua luce, vedendo la luce? Quando apparirà il Cristo, vita nostra, e noi con Lui nella gloria? Quando vedremo il Signore Dio nella terra dei viventi, il pio rimuneratore, l’uomo di pace e l’abitatore della quiete, il consolatore dei sofferenti, il primogenito dei morti, il gaudio della risurrezione, l’uomo della destra di Dio, che il Padre stabilmente pose accanto a Sé? Questi è il Figlio diletto di Dio, e fra mille eletto: Lui ascoltiamo, a Lui corriamo, di Lui siamo assetati, per Lui lagrimino gli occhi nostri fino a che non siamo tolti da questa valle di pianto e posti in seno ad Abramo. […]
Chi ci darà ali come di colomba, per trasvolare i regni del mondo e penetrare nell’intimo del cielo australe? Chi ci condurrà nella città del grande re, perché ciò che ora leggiamo su pagine e vediamo rispecchiato, allora possiamo vederlo e goderne per la presenza del volto di Dio?».
L’anima del Medioevo ci rimarrà sempre estranea se non percepiamo che la gioia che l’abitava, la sua giovinezza, il suo slancio, il suo insuperabile candore, si fondavano su un chiaro e profondo desiderio del Cielo. È ciò che più manca alla nostra epoca in crisi di speranza, nella quale pullulano le ideologie di rimpiazzo.

[Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), Un certain goût du ciel, in Itinéraires, n. 287, novembre 1984, poi in Benedictus. Ecrits Spirituels. Tome I, Editions Sainte-Madeleine, Le Barroux 2009, pp. 375-385 (qui pp. 379-383), trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B. - 2 / continua]

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