mercoledì 8 dicembre 2010

«E siete felici?» - «Troppo!»

Roma è una città che ignora tutto di se stessa. Immemorialmente indifferente, radicato in quartieri, insulare, il romano rifiuta di conoscere il nome della strada accanto alla propria. Se non la scorgesse di lontano, ignorerebbe che la sua città possiede una piramide. Vivrà e morrà senza aver avuto notizia di una Porta Magica, di un museo delle Anime Purganti, di una Trappa. Dei «Padri Trappisti delle Tre Fontane» egli apprezza da generazioni un serico cioccolato, un miele fragrante, un elisir di eucalipto eccellente per il mal di petto. Per i meno totalmente puri di conoscenze, il Trappista è figurato dal bianco cappuccio conico, abbastanza cinematografico, quindi moderatamente noto, che segna le copertine dei libri di Thomas Merton. Ma a pochissimi accadrà di associare quel cappuccio con l’alto bosco di eucalipti, palpitante di tortore e di pavoncelle, a forse cinque chilometri dal centro della città: dove uomini sigillati in un perpetuo silenzio distillano l’elisir salutifero su un terreno gremito di presenze arcane e inzuppato dal sangue prezioso dei martiri. Là fu troncato il capo dell’apostolo Paolo, e dai tre punti dov’esso rimbalzò rotolando zampillarono appunto le Tre Fontane. Là si lasciò trucidare la «Massa candida»: i diecimila legionari cristiani di san Zenone. Là, sopra quei santi ossami, nel minuscolo ipogeo dedicato un tempo alla dea Dia, san Bernardo da Chiaravalle celebrò messe miracolose. Là apparve, in anni recenti, la Vergine Maria, alla quale i Trappisti dedicano da sempre un culto particolare.
Com’è noto (secondo usa dire delle cose generalmente ignote), la Trappa, ossia l’ordine cistercense della Stretta Osservanza, è un pollone tardivo dell’ordine di san Benedetto riformato agli inizi del [secondo] millennio da san Roberto e poi da san Bernardo. Molto più tardi l’abate di Rancé, fondatore dell’obbedienza cistercense-trappista, lo ridusse qual è attualmente, l’ordine più rigoroso ad eccezione forse del certosino. Chateaubriand, autore di una Vie de Rancé, trascrisse nel Génie du Christianisme il breve, fulgido epistolario di un giovane ufficiale francese scampato alla Rivoluzione che, dopo lunghi vagabondaggi, trovò in una Trappa di Spagna la sua domus aeternitatis: dove al canto dell’uffizio divino, diurno e notturno, si alternava il lavoro dei campi; dove ci si cibava di vegetali, si dormiva e moriva sulla paglia e la cenere, si taceva dal giorno della presa d’abito a quello della sepoltura. Una normale Trappa, infine, dov’era necessario tra l’altro moderare le austerità individuali perché i cenobiti non se ne inebriassero oltre misura. «Bisogna esserne testimoni per farsi una idea della contentezza, della giubilazione di tutti: nulla prova la felicità di questa vita meglio di ciò che hanno fatto i Trappisti per riunirsi di nuovo dopo la loro espulsione dalla Francia e la quantità di monasteri che si sono formati, fino nel Canadà». Huysmans coglie le stesse esclamazioni sulle labbra, per un momento dissigillate, del mirabile abate trappista nel suo romanzo En route (che la BUR ha tradotto col titolo Per strada). Visitata l’abbazia, considerate le leggi di quella piccola Sparta cristiana, Huysmans chiede con un fremito: «E siete felici?». «Troppo!» mormora sorridendo l’abate. E prosegue con le stesse parole che il grande poeta catalano Verdaguer chiuse in versi perfetti: «Signore, m’hai ingannato! / Mi promettevi catene / e mi davi la libertà; / parlavi solo di pene / e mi donavi le strenne / della tua felicità. / Signore, mi hai ingannato!».
Cosa non troppo incredibile, in un mondo assai peggio ridotto della Francia del ’93, le cose stanno circa allo stesso modo nel sussurrante bosco di eucalipti all’orlo di Roma. Se si penetri verso il crepuscolo, all’ora della grande Salve Regina cistercense, nella possente, nuda chiesa romanica, si penserà di assistere a una cerimonia di anime già liberate dal corpo. Alte ombre ammantate di bianco fluiscono dentro a qualche istante l’una dall’altra, riveriscono more benedictino l’altar maggiore, scompaiono dentro stalli di legno celati alla vista. Solo l’attimo dell’inchino è percepibile al di là della fitta griglia di ferro, che non si apre che la domenica, per brevi istanti, alla Comunione dei fedeli.
Vi sono momenti, quello della meditazione per esempio, al termine di un uffizio, nei quali è impossibile dire se i monaci siano ancora presenti nei loro stalli o già dileguati nei penetrali della clausura. Il silenzio è tale che si odono ardere i ceri dinanzi al solo altare minore. (Esso è dedicato ad un Sacro Cuore che altrove sarebbe un povero Sacro Cuore, ma alla Trappa, nella terribile potenza e nudità del luogo, figura un eccesso di dovizia, l’umiltà negligente del signore che non cura di buttar sulla spalla una giubba di fustagno). Una fibbia di antifonario che scatta, un sandalo che si approssima, la gran chiave che gira nella griglia sepolcrale, una figura ammantata che ne scivola fuori e lentamente, con un’altissima e sottilissima canna, posa un fiore di fuoco sotto ciascuna delle dodici croci alle pareti della chiesa: tutto alla Trappa fa trasalire, tutto è presagito, «atteso con misterioso timore». E là dentro, finalmente, nessuno trema più di compiere i gesti che il suo corpo ha fame di compiere. Un giovane sacerdote secolare, prostrato sulla pietra, incrocia le braccia sul petto. Una monaca le distende innanzi alla grata e resta così per ore, estatica, crocifissa, senza che alcuno la noti.
Vi è una tipologia degli ordini religiosi: bruno slanciato esangue il gesuita, vasto ed elastico il domenicano, sottile il benedettino dal chiaro sguardo intellettuale. Il Trappista, dal capo raso, non di rado barbuto, appare un uomo tagliato con l’ascia, arcaico. Ciò non significa che non sia aitante e spesso di gran razza come il decano spagnolo dal volto lunare e perfetto, al quale la morte non potrà nulla aggiungere, che nei giorni tiepidi sosta nel portico della chiesa a ricevere sulle mani un raggio di sole e il bacio reverente di povere donne e bambini. O l’ostiario francese con gli stivali sotto la tonaca e una barba cristiana intorno ai fini lineamenti del principe Myškin. O il converso camuso, in mantello bruno, che un caravaggesco avrebbe innalzato sulla croce del Buon Ladrone.
Non sappiamo se costoro dormano ancora su paglia e cenere, se sia ancora vietato loro di appoggiare la schiena al muro per riposarsi. Il resto della regola appare immutato. Tra le cocolle bianche non corre sillaba. Riverenze, pochi cenni di muti. Solo al superiore, previa licenza, si può rivolgere la parola, e dopo Compieta, all’ora del gran silenzio, neppure a lui. Nelle cronache della Trappa, tra i confratelli proposti per la beatificazione, vi sono i trenta martiri spagnoli gettati in mare vivi presso Santander, durante la guerra civile, le labbra cucite da fil di ferro. Terrificante sigillo di un voto. Ma quel filo di ferro il Trappista se lo cuce da solo alle labbra, giorno per giorno, al termine di ogni uffizio. Domine, labia mea aperies, egli può ben intonare all’apertura del Mattutino, segnandosi piamente la bocca: solo per lo spazio della lode – la divina lode gregoriana – gli è concessa di usare la sua voce. Curiose voci dei Trappisti, spesso fioche per lungo silenzio: penitenziale mischianza di nasalità ieratica e cavernosa decrepitudine con il fiore della vergine giovinezza. (Per i devoti di statistiche, i Trappisti sono giovani per lo più, e sempre più numerosi e affollati sorgono dappertutto i loro monasteri, così maschili come femminili; ve n’è uno a Vitorchiano che conta novanta religiose, quasi tutte assai giovani e di eccellente educazione).
Tutto ciò apparirà privo di senso a chi non abbia meditato, o respinga senza esame, la maestosa vita della contemplazione. Vi è, ad esempio, un articolo del Credo che i cattolici, pur costretti a recitarlo ogni domenica nella più triste delle traduzioni, sembrano avere dimenticato: «Credo nella Comunione dei Santi». Pare che ai più la confessione di questo dogma suggerisca figurazioni vaghe di serafici cori. Laddove essa riguarda precisamente chi la pronunzia e chi gli sta accanto: come due vasi comunicanti, Dio mediatore, in grazia di una energia spirituale pressoché senza limiti: la preghiera. «La nostra libertà» scrisse Bloy durante una visita alla Grande Certosa «è solidale con l’equilibrio del mondo, ed è questo che bisogna comprendere se non si vuole stupirsi del profondo mistero della Reversibilità, che è il nome filosofico del gran dogma della Comunione dei Santi. Ogni uomo che produce un atto libero proietta la sua personalità nell’infinito. S’egli dà a malincuore un soldo a un povero, quel soldo trapassa la mano del povero, cade, fora la terra, buca i soli, traversa i firmamenti e compromette l’universo… Un moto di vera pietà canta per lui le lodi divine… guarisce gli infermi, consola i disperati, placa le tempeste, riscatta i cattivi, converte gli infedeli e protegge il genere umano».
Donde l’antichissima dottrina cristiana della sostituzione delle pene e delle colpe, così come delle grazie; la moltitudine di santi, canonizzati o no, che si offersero e si offrono in un immenso Suscipe, quali «ostie pure, ostie sante, ostie immacolate» in luogo di vivi e di morti: assumendosi infermità, tentazioni, orrori d’ogni genere in luogo d’altri e più deboli, dilapidando favori celesti, energie sovrumane a beneficio d’altri e più poveri. Questo «admirabile commercium» che fece dire a Huysmans: «Senza la sua cintura di conventi immersi nel silenzio e nell’incessante orazione, Parigi sarebbe già perita in un bagno di sangue» (e gli rispose l’abate: «Se la cintura fosse stata più salda, Parigi non avrebbe corso il rischio di perire»), questo scambio di moneta invisibile tra gli spiriti dei viventi, e tra quelli dei viventi e quelli dei morti, è la ricchezza vertiginosa che Dio ha concesso all’uomo su questa terra. Ed è la sola che dipenda da lui accogliere o rifiutare. Da san Bernardo da Chiaravalle, da papa Eugenio III, abate delle Tre Fontane, attraverso i pontificati di otto secoli fino a san Pio X, le strane creature che credono al potere sulla terra dell’uomo perduto nel cielo, hanno imposto le loro paradossali persuasioni fino a un Giovanni XXIII.
Disse quel pontefice ai Trappisti delle Tre Fontane che non riteneva di poter dare inizio alla gran battaglia di un Concilio Ecumenico senza averne affidato le sorti alla preghiera delle mute, inesorabili guarnigioni che, lasciando operare Marta, s’erano appropriate da sempre, con Maria, l’«unum necessarium», e sole ormai potevano dispensarlo.
Usciranno indenni i solitari di san Bernardo dalla febbre umanistica e umanitaria che sconvolge gli spiriti, come un tempo la malaria sconvolgeva la valle degli eucalipti? Lo si dovrebbe presumere ricordando le vicende dei monaci di Chateubriand. Passerà il prete in maglione e fuoriserie, patito di psicanalisi e televisione, il frate che suona la chitarra e «comprende tutto», come passarono l’abatino voltairiano e il cardinale dodicenne del Rinascimento. Resterà il Trappista: terribilmente moderno attraverso i secoli, come ciò che è unicamente radicato nel cielo. Il Trappista che non comprende quel che non è da comprendere, che può vivere con pari indifferenza e misericordia ai bordi di un villaggio indio o di una metropoli. Il Trappista da cui vanno a confessarsi, a quanto si dice, i Principi della Chiesa, nelle ore di tenebra e contraddizione. «Dio» disse l’abate Rancé «non ha comandato a tutti gli uomini di abbandonare il mondo; ma non c’è uomo al quale abbia proibito di amare il mondo».

[Vittoria Guerrini (1923-1977), La Trappa, originariamente comparso con lo pseudonimo Bernardo Trevisano, in Il Giornale d’Italia, 6 settembre 1967, p. 3, ripubblicato in Cristina Campo [pseudonimo di Vittoria Guerrini], Sotto falso nome, Adelphi, Milano 1998, pp. 141-147]

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