venerdì 30 agosto 2013

Jean Madiran (1920-2013) - In memoriam

[Il 31 luglio 2013 è morto il pensatore e scrittore cattolico francese Jean Madiran (1920-2013), al secolo Jean Arfel, oblato benedettino dell’abbazia Sainte-Madeleine di Le Barroux con il nome di fr. Jean-Baptiste. In prossimità del trigesimo, trascriviamo di seguito la nostra traduzione dell’omelia pronunciata nel corso del funerale – svoltosi il 5 agosto 2013, presso la chiesa Notre-Dame des Armées, a Versailles – da Dom Louis-Marie Geyer d’Orth O.S.B., Abate del monastero di Le Barroux.]
 
Signori Sacerdoti,
Signori Canonici,
Cari Padri,
Carissima Michèle,
Cara famiglia Arfel,
 
San Bernardo diceva in un’omelia che gli occhi sono quanto di più eccellente vi sia nel corpo, malgrado la loro piccolezza. Diceva questo pensando alla visione beatifica. Avrebbe potuto dirlo anche vedendo gli occhi di Jean Madiran, perché egli aveva degli occhi eccezionali. Non solo in ragione del loro fascino, gioiosi e scoppiettanti – uno sguardo infantile –, ma anche per quel timore reverenziale che si provava davanti all’acutezza del suo sguardo. Jean Madiran era fatto per la luce, ma era anche un uomo che illuminava, senza compromessi.
Ben presto si è rivolto verso la luce. Giacché prima di diventare un maestro, come lo hanno salutato in numerosi omaggi – fra cui quelli di Philippe Maxence, Yves Chiron e molte altre decine –, Jean Madiran è stato un discepolo attento. Prima di Maurras, che per sette anni ha letto tutti i giorni, a partire dai suoi quindici anni, fino a quando ha incontrato il maestro di Martigues.
Poi fu la volta dell’altro maestro intellettuale che egli ebbe la grazia d’incontrare nella persona di Henri Charlier. Sarebbe meglio dire gli Charlier, la famiglia Charlier, attraverso la quale è giunta fino a lui la tradizione vivente di Péguy e del padre Emmanuel di Mesnil-Saint-Loup.
Madiran diceva: «È stato André Charlier a insegnarmi a leggere Chesterton, Claudel e Pascal. È lui che mi ha insegnato cos’è il gregoriano, che mi ha mostrato la Francia, che mi ha insegnato il silenzio. È lui che mi ha fatto comprendere quel che sapevo già ed è lui che mi ha disposto a quel che avrei dovuto comprendere più tardi. L’essenziale è l’educazione della libertà».
Se Jean Madiran ha saputo e potuto mettersi alla scuola di questi giganti, è perché lui stesso aveva del genio.
Glielo disse Maurras nella prefazione al suo libro sulla filosofia politica di san Tommaso d’Aquino. André Charlier diceva che solo Péguy si era spinto così avanti e con tale finezza nell’arte di leggere. Se Jean Madiran ha potuto appoggiarsi sulle spalle dei giganti, è perché con la sua intelligenza egli aveva ricevuto dalla sua educazione la pietà filiale, che dona alla conoscenza un’acutezza speciale, così che egli ha potuto interpretare fedelmente quanto aveva ricevuto, e a sua volta ha potuto aggiungere luce alla luce.
Per esempio, egli ha saputo – incoraggiato dallo stesso Maurras – sviluppare e innalzare il pensiero politico del suo maestro, alla luce della dottrina sociale della Chiesa, e trasmettere la luce diventando professore di filosofia precisamente a Maslacq, dove strinse un’amicizia indefettibile con un tale Gérard Calvet, il quale da allievo – talora indisciplinato – diventò un amico, per poi diventare il suo padre spirituale.
Ma è soprattutto nella sua battaglia, che ha condotto con un genio eccezionale, che Jean Madiran è meglio conosciuto, il più amato e il più detestato, senza alcun dubbio. Una battaglia condotta in un’eclissi nella quale tutto il mondo è all’oscuro. Padre Calmel diceva che la grande opposizione fra la luce e le tenebre sarebbe presto finita, che si sarebbe entrati in un’epoca di nebbia nella quale non si sarebbe più stati capaci di distinguere il fratello dall’avversario. Ma Jean Madiran aveva buoni occhi.
Oggi possiamo ricordare tutti i fronti sui quali ha condotto la sua battaglia spirituale con delle armi intellettuali  e che lo hanno reso un maestro di dimensione internazionale. Nell’ambito politico egli ha eccelso nella battaglia contro il comunismo che esalava il suo profumo seduttore fino al cuore della Chiesa. È lui che ha predisposto la più fedele traduzione dell’enciclica di Pio XI, Divini Redemptoris, e che ha pubblicato il capolavoro La vieillesse du monde.
Nell’ambito dell’impegno cristiano e politico, ha accompagnato l’avventura della Cité catholique, partecipando attivamente e intervenendo al primo Congresso di Losanna, denunciando in alcuni scritti – come La laïcité dans l’Église – la sfiducia nei confronti della nostra azione cattolica.
All’indomani del Concilio, Jean Madiran ha combattuto contro la cattiva gestione che s’installava a vari livelli nella Chiesa universale, e in particolar modo nella porzione che risiede in Francia.
Chi non ricorda questa costanza, fino alla sua morte, contro la smobilitazione dei cattolici in materia d’impegno politico, o contro alcuni erronei impegni.
In materia religiosa, Jean Madiran ha applicato quel che insegna il Catechismo della Chiesa Cattolica al numero 907, ove è detto: «In rapporto alla scienza, alla competenza e al prestigio di cui godono, essi [i fedeli laici] hanno il diritto, e anzi talvolta anche il dovere, di manifestare ai sacri Pastori il loro pensiero su ciò che riguarda il bene della Chiesa e di renderlo noto agli altri fedeli, salva restando l’integrità della fede e dei costumi e il rispetto verso i Pastori, tenendo inoltre presente l’utilità comune e la dignità della persona».
Si oppose, in tema di catechesi, ai teorici del pedagogismo poco rispettoso della tradizione. Per convincersene, sarà sufficiente rileggere nei suoi Éditoriaux et Chroniques, quei testi ardenti d’indignazione, che riguardano la distruzione del catechismo. Colmò il vuoto creato dai distruttori ripubblicando successivamente il Catechismo di san Pio X, maggiore e minore, e il Catechismo del Concilio di Trento, che per molti fra noi, nel mezzo della tempesta, si mostreranno dei fari indicanti la giusta direzione verso il Cielo.
Ancora recentemente, nel 2005, dopo il raddrizzamento impostato da Giovanni Paolo II e poi da Benedetto XVI con il Catechismo della Chiesa Cattolica e il suo compendio, Jean Madiran non dimenticava di tracciare un bilancio dello tsunami devastatore.
Nell’ordine della liturgia, ha protestato contro le traduzioni erronee – in particolare della Scrittura – e si è innalzato contro la brutalità con la quale fu interdetta, di fatto, la celebrazione di quella che ora si chiama la forma extraordinaria del rito romano. Trentasette anni di battaglia, ricompensati dal motu proprio Summorum pontificum, che è stato uno degli atti salienti del pontificato di Benedetto XVI, poiché ha abbattuto il muro di Berlino contro la tradizione vivente e trasmessa.
Ha seguito con attenzione lo sviluppo del Concilio Vaticano II, pubblicando in particolare su Itinéraires i resoconti di Mons. Marcel Lefebvre – altro grande amico, fino al 1988 –, allora superiore generale dei Padri dello Spirito Santo.
Intratterrà in seguito con padre Congar una corrispondenza sull’intimo rapporto fra il Concilio e la crisi che è seguita nella Chiesa.
Sin dal 1966, ahimé, l’episcopato francese si puntò contro la rivista Itinéraires. Si trattò di una grande sofferenza per il nostro caro fratello Jean Madiran, degno figlio della Chiesa. Sappiamo che rimase fino alla fine reticente nei confronti del Concilio Vaticano II, malgrado tutto quel che hanno potuto dire sul suo carattere vincolante i Papi Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Dobbiamo però notare che lo stesso Benedetto XVI ne ha sottolineato qualche limite; non mi dilungo oltre.
Cosa incredibile, con mezzi estremamente limitati, Jean Madiran ha osato lanciare assieme a qualche amico, nel 1982, il quotidiano Présent – di cui ne dirigerà la pubblicazione –, senza il sostegno di alcuna pubblicità. Vi scriverà fino ai suoi ultimi giorni contro l’inondazione dell’immoralità, del laicismo aggressivo, dell’empietà, del liberalismo, del relativismo massonico o del marxismo militante, distruttori della civiltà cristiana in tutti i suoi aspetti.
Non ci compete di tratteggiare qui quelle che furono le sue battaglie politiche a fianco dei suoi compagni d’armi; costoro – come per esempio Bernard Antony – lo faranno meglio di noi.
Si disconoscerebbe però Jean Madiran se si vedesse in lui solo un combattente duro e puro. Certo, non ha sempre avuto la reverenza dovuta ai pastori. Glielo si perdonerà. Dom Gérard sottolineava che il suo grande amico aveva dato dei magnifici colpi di spada, senza odio, ma con un piacere non dissimulato. Alcuni dei suoi amici lo hanno messo in guardia contro il rischio di confondere il vizio e il fratello, la ruggine e il vaso. Ma egli era capace di comprendere. Era capace di perdonare, malgrado il suo temperamento focoso. Perché se Jean Madiran era un uomo fatto per la luce, era anche un uomo fatto per il fuoco.
Un fratello mi ha raccontato una scena  che lo ha sconvolto: Jean Madiran che abbracciava in pubblico un uomo che gli aveva fatto la peggiore delle ingiustizie nella vita personale.
E noi, i monaci di Le Barroux e di Sainte-Marie de La Garde, e i cappellani di Notre-Dame des Armées, possiamo testimoniare della profondità della sua vita spirituale. Jean Madiran era capace di un profondo raccoglimento. Era un contemplativo. Lo rivedo ancora assistere agli uffici con uno zelo sereno, passare silenziosamente nel chiostro, con la testa leggermente chinata, secondo il dodicesimo grado d’umiltà della Regola di san Benedetto.
Jean Madiran ha così imitato la grande santa di Francia, santa Giovanna d’Arco, la cui grazia particolare fu quella di unire profondamente la vita mistica e la vita pubblica. È il primato della grazia.
Concludo citando il nostro fratello oblato, poiché Jean Madiran aveva preso lo scapolare sotto il patrocinio di san Giovanni Battista, colui che grida nel deserto. Jean Madiran diceva: «L’autentica azione è figlia della preghiera, e coloro i quali non agiscono abbastanza, è perché non pregano abbastanza, e non perché pregano troppo. È nella vita di preghiera che ciascuno trova la forza e la volontà di un’azione a misura delle sue attitudini. Questo è vero di ogni azione; l’azione politica non fa eccezione».
Preghiamo durante questa santa Messa – secondo la forma extraordinaria che Jean Madiran amava, non per ragioni affettive, ma per ragioni teologiche – affinché il nostro fratello possa contemplare con i suoi occhi il volto di Dio, e affinché ciò che ha seminato possa portare molto frutto.
Amen.

mercoledì 28 agosto 2013

La liturgia è la Tradizione stessa nel suo più alto grado di potenza e di solennità

Sapete di quali tesori siete depositari? Alla fine del secolo VI, nel momento in cui l’Impero romano in piena decadenza passa il testimone della cultura al mondo cristiano, la Chiesa è in possesso dei più bei gioielli del suo tesoro liturgico, tra i quali bisogna contare le preghiere del Messale e specialmente le ammirevoli collette che precedono la lettura dell’Epistola.
Charles Péguy scopriva con stupore che c’è un santo per ogni giorno; dovete inoltre sapere che ogni giorno c’è una preghiera destinata a guidare i vostri passi sulla via stretta.
Queste preghiere, cesellate da anni di fede da mani fini e sapienti, dovete saperle a memoria, studiarle e meditarle, perché vi si trova lo spirito incorrotto del cristianesimo contenuto sotto forma di massime scolpite nel bronzo, e non c’è niente di più adatto da mettere in pratica come le alte certezza dell’anima: queste preghiere sono regole di vita.
Il nome di colletta è stato dato alla preghiera che introduce le letture della Messa e che ritroviamo a conclusione di tutte le ore canoniche, poiché era recitata davanti ai fedeli, riuniti all’inizio della Messa. La secreta (preghiera sulle offerte) e il postcommunio devono il loro nome al posto che occupano nel dramma del sacrificio eucaristico. La colletta, come il prefazio, era un tempo improvvisata dal celebrante, quando sant’Ambrogio e sant’Agostino — in un’estasi comune — alternavano per la prima volta ut fertur, i versetti del mirabile Te Deum. Poi lo Spirito santo fissò divinamente la giovane preghiera della Chiesa come l’età matura fissa i tratti dell’infanzia. In alcune raccolte di orazioni erano conservati i brani meglio riusciti, e vi si possono riconoscere le preghiere dovute a san Leone Magno grazie alla perfezione del ritmo e al rigore del pensiero: la regola salvò l’ispirazione fissandone l’eccellenza.
Ai nostalgici della Chiesa delle origini, in preda al creativismo, messa da parte la loro incredibile pretesa, rispondiamo che si può essere bambini solo una volta nella vita. Per fortuna, oggi, grazie alla pietà delle generazioni passate che ci hanno trasmesso questi gioielli della nostra liturgia, se un giovane barbaro entrasse in una chiesa per ascoltare una Messa, sarebbe messo direttamente in comunicazione con il pensiero di un Padre della Chiesa del secolo IV.
Secondo un’usanza molto antica, il celebrante invita la comunità al raccoglimento con l’avvertimento solenne del Dominus vobiscum. «Il Signore sia con voi!», dopo di che i fedeli rispondono: «E con il tuo spirito». Il Signore dev’essere con il sacerdote per renderlo degno di esprimere i voti della comunità. Dev’essere con i fedeli per renderli attenti alla preghiera. Il sacerdote prega allora ad alta voce, o canta, la colletta con un tono recitante nel quale solo due note sposano la forma letteraria propria delle orazioni del Messale che si chiama cursus. Parleremo più avanti di questa forma letteraria destinata a sottolineare lo svilupparsi del pensiero. Molto presto, senza dubbio sin dal secolo IV, si fecero delle raccolte di preghiere che costituiscono la ricchezza del nostro patrimonio liturgico.
Alla fine del Messale troverete delle collette che si possono aggiungere, secondo i bisogni, alla preghiera del giorno. Sono le orazioni per casi particolari: per domandare la pioggia, per allontanare la tempesta, per difendersi dal demonio, per domandare la pazienza, la castità, nonché quella meravigliosa orazione per domandare la grazia del dono delle lacrime: pro petitione lacrymarum. «O Dio onnipotente e mitissimo, che hai fatto scaturire dalla roccia una fonte d’acqua viva per il popolo assetato, strappa dalla durezza del nostro cuore lacrime di compunzione: affinché possiamo piangere i nostri peccati e meritare, per la tua misericordia, la loro remissione».
Verrà un giorno nel quale alla Sorbona saranno difese tesi di laurea sulla bellezza letteraria delle preghiere della Chiesa? Il Breviario, il Messale, il Processionale contengono una quantità di orazioni straordinarie per eleganza di stile, penetranti e profonde per pensiero. Le nostre collette sono tra le testimonianze più antiche della pietà della Chiesa primitiva; esse sono sopravvissute a lente trasformazioni della liturgia e risultano di considerevole interesse.
Due caratteristiche meritano di essere sottolineate: la ricchezza dottrinale e il valore pedagogico.
 
Ricchezza dottrinale
 
Il campo della liturgia costituisce in sé un «luogo teologico» di una ricchezza inesauribile, una specie di rete di verità dottrinali sparse, non ordinate sistematicamente. Péguy diceva bene quando affermava che la liturgia è una «teologia distesa». Quando il canto dell’Exsultet, sgorgante di poesia, si eleva nella notte pasquale, il dogma della Redenzione illumina le menti di un bagliore proprio che non è altro se non lo splendore del vero: l’Exsultet, il Lauda Sion, il Dies Irae sono dogmi cantati che infondono direttamente nell’anima luce e amore. Dom Guéranger diceva che «la liturgia è la Tradizione stessa nel suo più alto grado di potenza e di solennità»; un’affermazione che all’epoca suscitò qualche stupore.
I materiali che servono agli artigiani della teologia speculativa sono contenuti nella Preghiera della Chiesa, come quelli nelle cave di pietra che servono per la costruzione del Tempio: è in questo tesoro che attingono i teologi di tutti i tempi per illustrare e affermare il dogma. Padre Emmanuel André, abate di Notre-Dame de la Sainte-Espérance, trovava la dottrina della grazia nelle orazioni del Messale. Queste preghiere risentono delle lotte dottrinali del secolo IV, minacciato dall’eresia pelagiana; Pelagio minimizzava le conseguenze del peccato originale e ignorava la necessità della gratia sanans, ossia la grazia che guarisce. L’eresia pelagiana è una delle forme correnti di naturalismo che si ripresenta in ogni epoca. Padre Emmanuel non voleva contrapporre tesi a tesi; costruiva la sua teologia della grazia nel solco della preghiera della Chiesa. Le orazioni lo aiutavano a mettere in luce l’assoluta necessità della grazia divina nell’ordine della salvezza. È una perfetta spiegazione della lex orandi che stabilisce e fissa la lex credendi. Ricorderete che recentemente abbiamo ricevuto un esponente dei pentecostali: non abbiamo avuto difficoltà a provargli la novità inquietante di una preghiera che s’indirizza esclusivamente alla terza Persona, sottolineando il carattere trinitario delle nostre collette, che si elevano al Padre, mediante il Figlio, nello Spirito. La stessa orazione della festa di Pentecoste espone questo modo di preghiera: la sequenza della Messa — una specie di effusione libera che s’indirizza al solo Spirito santo — dev’essere considerata come una glossa del versetto alleluiatico; la colletta resta trinitaria. «Nihil inovetur nisi quod traditum est».
Ecco ciò che insegnano le preghiere liturgiche. Ci istruiscono sulla Maestà di Dio, sull’abisso della nostra miseria, sul modo di comportarci davanti a Dio e di come indirizzare a Lui le nostre richieste per essere esauditi.
 
Valore pedagogico
 
La liturgia è anche — e soprattutto, come ideale — una norma di preghiera. Possiamo affermare che essa ci offre il più antico e il più onorato dei metodi di preghiera.
A partire dal secolo XVI si è molto parlato di orazione e di metodi di orazione. Santa Teresa d’Avila dichiarava che avrebbe voluto stare sulla cima di una montagna per convincere, se fosse stato possibile, tutto l’universo dell’importanza dell’orazione. Ma la preghiera, a partire dal secolo XVI, è stata fortemente segnata dall’umanesimo del Rinascimento e l’orazione si è trovata sottomessa a investigazioni e vaneggiamenti umani. Era fatale che lo sviluppo della psicologia inclinasse gli spiriti a forgiare metodi d’orazione nei quali dominava l’aspetto analitico e discorsivo.
Durante i primi secoli della Chiesa la preghiera non aveva cessato d’irrigare i terreni dove si coltivava la vita spirituale. Dunque, come pregavano gli antichi? Usavano dei metodi? Sembra evidente di no. L’orazione scaturiva spontaneamente dall’intimo grazie all’ufficio divino. Il fiume dei misteri liturgici alimentava le prime generazioni di cristiani, come i quattro fiumi del Paradiso, senza che dovessero inventare altri metodi di accesso al santuario della vita interiore. La liturgia è stata, nelle età della fede, la grande educatrice dei figli di Dio. Gli inni, i salmi, il canto gregoriano, l’ordine sacramentale versavano nelle anime la luce delle verità della fede e spingevano l’uomo a guardare verso Dio piuttosto che a sé stesso; a cantare le «mirabilia Dei», in dissolvenza, come gli scultori dei capitelli di Chartres si eclissavano davanti al loro soggetto. Grazie alla liturgia, il primato era dato alla vita teologale e contemplativa. Le collette acquisiscono a tale proposito un considerevole valore pedagogico.
Considerate l’importanza delle parole dell’orazione. Talvolta un’invocazione maestosa ci mette di fronte all’onnipotenza divina — «Omnipotens sempiterne Deus…» —, altrove la Chiesa è nominata per prima: «Ecclesiam tuam, Deus…», oppure «Familiam tuam». L’orazione si colora allora di affettuosa tenerezza. In altre occasioni l’uso di un verbo forte mette in rilievo l’azione divina: «Fac, Domine…», «Presta, quaesumus Domine…». In seguito il corpo dell’orazione esprime l’oggetto della richiesta, la quale è indicata con poche parole che indicano gioia, cosicché l’oggetto principale di una festa si trova perfettamente riassunto nella sua colletta.
Ecco per esempio l’orazione della Messa di mezzanotte: «O Dio, che hai illuminato questa santissima notte con lo splendore di Cristo, vera luce del mondo, concedi a noi, che sulla terra lo contempliamo nei suoi misteri, di partecipare alla sua gloria nel cielo».
Con arte, la liturgia ci fa passare da una realtà creata alla sua analoga di livello superiore: dalla luce del Natale alla luce celeste, dal visibile all’invisibile. L’orazione della Messa dell’aurora invita a passare dal piano dell’essere al piano dell’agire; in poche parole ecco stabilito il fondamento della morale: «La luce che, per la fede, brilla nelle nostre anime, rifulga nelle nostre azioni» («In nostro resplendeat opere quod per fidem fulget in mente»).
Così ogni festa ci fa domandare una grazia speciale con una dolcezza e una precisione che conduce l’anima direttamente al centro del mistero celebrato. Siamo illuminati su cosa domandare, sul come dobbiamo chiedere, sul perché è necessario interpellare. L’orazione dell’Immacolata Concezione sviluppa armoniosamente l’ordine delle quattro cause; quella della quarta domenica dopo Pasqua attira verso l’alto i nostri cuori con una soavità che solo il latino può rendere: «ut inter mundanas varietates ibi nostra fixa sint corda ubi vera sunt gaudia», «affinché nei cambiamenti di questo mondo i nostri cuori restino fissi là dove si trovano le vere gioie».
Il latino delle orazioni ci fa pregare con tanto gusto ed esattezza, che la traduzione talvolta è impossibile. Come tradurre parole come: «ostia», «pietas» o «devotio»? A venti secoli di distanza, la parola calcata sul latino appare vuota della sua sostanza o ha cambiato significato.
In latino hostia significava vittima di un sacrificio con spargimento di sangue e devotio consacrazione irrevocabile. La parola pietas, così sbiadita dall’uso continuo, avrebbe bisogno — onde non tradirne il vero significato — di una lunga perifrasi che le possa ridare la sua linfa antica e sacra.
La pietas romana, virtù nazionale, carica di un senso carnale e religioso, significava sia l’attaccamento alla terra, la fedeltà, la gratitudine, sia il culto reso agli dèi, ai parenti, alla patria, e ancora alla famiglia, alla casa, ai penati. Si percepisce cosa la parola pietà, bagnata dall’acqua del battesimo, potesse significare per i primi cristiani. Alla tenerezza paterna di Dio l’anima illuminata dal Verbo rispondeva sicut naturaliter rifluendo verso il focolare beatificante della vita trinitaria.
Alcuni tra voi si domanderanno come pregare con le orazioni del Messale. La prima condizione è di sapere leggere; scienza poco comune, contrariamente a quello che si crede, e che comporta due operazioni: scrutare e soppesare. Consiglio a chi tra voi vuole ispirarsi alla santa liturgia per alimentare la propria vita di preghiera, d’imitare il metodo dei cercatori d’oro. Il ciclo dell’anno liturgico è simile a un grande fiume carico di riti, canti e poemi. Vi si trovano anche brevi formule brillanti di un vivo splendore che si possono paragonare a pagliette d’oro.
Leggere lentamente il proprio del Messale è un eccellente metodo di preghiera, setacciare per così dire giorno dopo giorno l’acqua di questo fiume e cogliere con cura ciò che risponde alle attese e al desiderio dell’anima.
La colletta della domenica diventerà, sotto la guida della Chiesa, una gustosa meditazione e un’esortazione pratica per tutta la settimana. Potremo così portare, incise nella nostra mente, le formule delle preghiere preferite, arricchite da brillanti massime che illuminano la nostra strada. Ecco qualche esempio preso a caso:
 
«Sic transeamus per bona temporalia, ut non amittamus aeterna» [1].
 
«Sacramentum vivendo teneant quod fide perceperunt» [2].
 
«Sine te nihil potest mortalis infirmitas» [3].
 
«Ad promissiones tuas, sine offensione curramus» [4].
 
«Da nobis fidei, spei et caritatis augmentum» [5].
 
«Discamus terrena despicere et amare caelestia» [6].
 
«Auctor ipse pietatis!...» [7].
 
In queste ultime parole «Voi che siete l’autore stesso di ogni pietà» —, che arte di commuovere il cuore di Dio!
C’è una grande dolcezza nel pregare con le stesse parole e accenti dei primi cristiani rinati dall’acqua battesimale, ascoltando le medesime letture, intonando uguali canti, attenti come loro alla misteriosa voce dello Spirito e della Sposa che dice: «Vieni, Signore Gesù!».
 
Note:
 
[1] «Affinché passiamo tra i beni temporali senza perdere quelli eterni» (colletta della terza domenica dopo Pentecoste).
[2] «Concedi di conservare nella vita quel sacramento che ricevettero per la fede» (colletta del martedì di Pasqua).
[3] «Senza di voi la debolezza della nostra natura mortale non può nulla» (colletta della I domenica dopo Pentecoste).
[4] «Fai che corriamo senza ostacoli verso i beni da te promessi» (colletta della XII domenica dopo Pentecoste).
[5] «Accresci in noi la fede, la speranza e la carità» (colletta della XIII domenica dopo Pentecoste).
[6] «Impariamo a disprezzare le cose terrene e ad amare quelle del cielo» (postcommunio della Messa del Sacro Cuore).
[7] «Voi che siete l’autore stesso di ogni pietà» (colletta della XXII domenica dopo Pentecoste).
 
[Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), La santa liturgia, trad. it., Nova Millennium Romae, Roma 2011, pp. 59-70]

martedì 20 agosto 2013

L'arte di essere discepolo

Dom Jean-Baptiste Chautard O.C.S.O. (1858-1935), mio Padre secondo l’istituzione e il diritto, lo fu anche di fatto, per avermi ammesso ai voti solenni di religione nella sua abbazia di Sept-Fons, e per avermi dato qualche piccola cosa in più. Dom Chautard si poneva come un maestro assai deciso quanto all’essenziale della vocazione monastica: l’orazione. “Figlio mio, fate orazione?”, questo era l’invariabile ingresso in materia quando riceveva uno dei suoi monaci. Con una tale insistenza, che rispondeva alla sua convinzione profonda, imprimeva un marchio nei nostri spiriti; ci dava un impulso per il resto della vita. Appartiene in effetti al padre di fissare per sempre le priorità. Dom Chautard amava la santa Scrittura, soprattutto i Vangeli e le Lettere di san Paolo. Aveva sofferto la penuria di dottrina spirituale che si viveva alla fine del secolo XIX e all’inizio del XX. Don Bremond non aveva ancora attirato l’attenzione sull’interesse degli scritti degli spirituali. Nondimeno, Dom Chautard era riuscito a scovare alcuni scrittori accettabili: Mons. Gay., Mons. De Ségur, Dom Vital Lehodey, più tardi Dom Marmion. Apprezzava il piccolo libro dal titolo Lo spirito di santa Teresa del Bambino Gesù. Fra gli scrittori anteriori, aveva saputo scegliere i gesuiti Grou e Lallemant; di Bossuet, il piccolo trattato Maniera breve e facile per fare l’orazione nella fede. Li citava spesso. Di san Francesco di Sales, gli Incontri spirituali; qualche lettera di santa Jeanne de Chantal sull’orazione. Risalendo ancora più indietro, amava gli scritti di santa Teresa d’Avila. Le Conferenze IX e X di Cassiano, e naturalmente la Regola del nostro santo Padre Benedetto, da cui traeva in ogni circostanza dei princìpi di vita spirituale. Non gli sarebbe mai venuta l’idea di fare legittimare questi princìpi dai voti della sua comunità, né di discutere della loro attualità nei crocicchi. L’uomo che sente il bisogno di seguire la folla per farsi ascoltare non è un maestro.
Dom Chautard coltivava il gusto spirituale, accoglieva ogni domanda pertinente, comprendeva i problemi di ciascuno. Ma quando insegnava, bisognava ascoltarlo! Non sospendeva la sua dottrina all’acquiescenza dei suoi ascoltatori. Non me lo immagino proprio dichiarare al proprio uditorio, dopo ogni istruzione – come oggi fanno taluni –, giudicando ciò di un effetto eccellente: “Vi ho detto quel che penso; ma non v’impedisco di pensarla diversamente, se avete avuto una diversa esperienza”. Attitudine completamente non intelligente! Perché proporre un insegnamento e lasciare nello stesso tempo ciascuno libero di sottrarsene? Perché gettare in un solo colpo nella palude quanto si sta costruendo? Da parte sua, Dom Chautard sapeva mostrarsi perentorio: “Per questa strada, figlio mio, non perverrete mai all’unione con Dio”. Una volta detto, bisognava trarne le conseguenze.
Poiché non si è mai troppo fermi quando s’insegna; soprattutto quando s’insegnano delle verità o dei comportamenti che svolgeranno un ruolo nelle scelte importanti e nei destini. Fare delle scelte, e insegnare al discepolo a fare le medesime scelte: è sempre da lì che occorre partire. Un indicatore stradale non decide nulla, e il suo compito è svolto per il solo fatto che reca uno dei segnali del codice. Il ruolo di un maestro non si può limitare a questo. La sua mansione non consiste nell’indicare indifferentemente tutte le strade possibili, ma egli deve decidere quale occorre intraprendere. Giacché voi gli avete conferito il diritto di escludere e di affermare, il diritto di dirigere le vostre preferenze. Diversamente, la vostra ricerca non sarebbe seria. Da parte mia, ho subito i metodi di più di un pedagogo; varie influenze si sono esercitate su di me. Ora, oggi, non mi ricordo che di tre o quattro maestri i quali furono fermi nella loro lezione ed esigenti. Provo gratitudine e ammirazione per questi pochi che sapevano imporsi per la loro autorità magistrale. Non mi ricordo degli altri. Brave persone senza potenza persuasiva, costoro non mi sono stati utili. Sono solo esistiti? E adesso, verso costoro, presi in blocco, provo qualche amarezza che abbiano accettato, a mio riguardo, la loro propria inconsistenza.
Dom Chautard ebbe dei discepoli; li ha meritati. Ma direte: “Altri tempi, altri costumi”. Sì e no. In ogni caso, per quanto qui ci occupa, la storia della spiritualità dimostra che i costumi delle anime, come quelli di Dio, non cambiano con i tempi. Se la Chiesa, a seconda delle epoche e precisamente durante la nostra, ha molto cambiato nella sua maniera di fare, per contro, in ciò che riguarda la vita delle anime che cercano Dio, non potrà mai dire “a partire da quest’anno, Dio ha completamente modificato il suo modo di fare”. In questo ambito, occorre dunque sempre tornare alle medesime leggi.
Ricordo la prima testimonianza che ho inteso a proposito del monastero di Sept-Fons. Credo si debba situare verso il mese di novembre del 1928, a Friburgo. Ricevemmo alla tavola di famiglia due monaci di Maredsous che passavano per andare al nuovo priorato di Corbières. Durante la cena, si parlò del mio probabile ingresso in un monastero cistercense. Quando uno dei commensali precisò che forse si sarebbe trattato di Sept-Fons, uno degli onorevoli benedettini dichiarò: “A Sept-Fons, secondo il Reverendissimo Abate di Maredsous, si trovano ancora dei giganti della preghiera”. Questo apprezzamento avrebbe fatto piacere a Dom Chautard, non per l’espressione un po’ magniloquente, ma perché significava l’essenziale di ciò che egli desiderava. Giacché allora io ignoravo tutto della vita di preghiera, non compresi se non vagamente cosa potesse significare questa specie particolare di gigantismo. Nondimeno mi sentii lusingato che si dicesse questo della mia futura comunità; m’immaginavo già di parteciparvi! Vent’anni dopo, Dom Godefroid Belorgey O.C.S.O. (1880-1964) mi diede la consegna seguente: “Per voi, continuate il tempo di presenza, le ore di presenza davanti al tabernacolo”. Voleva perpetuare la razza di giganti? Non ci pensava, senza dubbio. Sapeva che nella professione monastica, non si tratta né di statura elevata né soprattutto di prestigio.
Lui che conosceva queste cose dall’interno, non avrebbe detto “giganti della preghiera”, piuttosto: fedeli alla preghiera. All’epoca, d’altronde, non avrei compreso il termine “fedele” meglio di “gigante”. Com’è possibile che il termine “fedele”, il più bel complimento che si possa fare a un innamorato, convenga anche a un monaco? Lo comprendo meglio ora, precisamente grazie a quelle ore davanti al tabernacolo. Fedele? Colui che l’usura non può mai vincere; né quella del soggetto, né quella – apparente – dell’Oggetto!
 
[Père Jérôme (Kiefer, O.C.S.O., 1907-1985), Saint Benoît de nouveau suivi, Ad Solem, Parigi 2013, pp. 10-14, trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B.]