Dom
Jean-Baptiste Chautard O.C.S.O. (1858-1935), mio Padre secondo l’istituzione e
il diritto, lo fu anche di fatto, per avermi ammesso ai voti solenni di
religione nella sua abbazia di Sept-Fons, e per avermi dato qualche piccola
cosa in più. Dom Chautard si poneva come un maestro assai deciso quanto
all’essenziale della vocazione monastica: l’orazione. “Figlio mio, fate
orazione?”, questo era l’invariabile ingresso in materia quando riceveva uno
dei suoi monaci. Con una tale insistenza, che rispondeva alla sua convinzione
profonda, imprimeva un marchio nei nostri spiriti; ci dava un impulso per il
resto della vita. Appartiene in effetti al padre di fissare per sempre le
priorità. Dom Chautard amava la santa Scrittura, soprattutto i Vangeli e le
Lettere di san Paolo. Aveva sofferto la penuria di dottrina spirituale che si
viveva alla fine del secolo XIX e all’inizio del XX. Don Bremond non aveva
ancora attirato l’attenzione sull’interesse degli scritti degli spirituali.
Nondimeno, Dom Chautard era riuscito a scovare alcuni scrittori accettabili:
Mons. Gay., Mons. De Ségur, Dom Vital Lehodey, più tardi Dom Marmion. Apprezzava
il piccolo libro dal titolo Lo spirito di
santa Teresa del Bambino Gesù. Fra gli scrittori anteriori, aveva saputo
scegliere i gesuiti Grou e Lallemant; di Bossuet, il piccolo trattato Maniera breve e facile per fare l’orazione
nella fede. Li citava spesso. Di san Francesco di Sales, gli Incontri spirituali; qualche lettera di
santa Jeanne de Chantal sull’orazione. Risalendo ancora più indietro, amava gli
scritti di santa Teresa d’Avila. Le Conferenze
IX e X di Cassiano, e naturalmente la Regola
del nostro santo Padre Benedetto, da cui traeva in ogni circostanza dei
princìpi di vita spirituale. Non gli sarebbe mai venuta l’idea di fare
legittimare questi princìpi dai voti della sua comunità, né di discutere della
loro attualità nei crocicchi. L’uomo che sente il bisogno di seguire la folla
per farsi ascoltare non è un maestro.
Dom
Chautard coltivava il gusto spirituale, accoglieva ogni domanda pertinente,
comprendeva i problemi di ciascuno. Ma quando insegnava, bisognava ascoltarlo!
Non sospendeva la sua dottrina all’acquiescenza dei suoi ascoltatori. Non me lo
immagino proprio dichiarare al proprio uditorio, dopo ogni istruzione – come
oggi fanno taluni –, giudicando ciò di un effetto eccellente: “Vi ho detto quel
che penso; ma non v’impedisco di pensarla diversamente, se avete avuto una
diversa esperienza”. Attitudine completamente non intelligente! Perché proporre
un insegnamento e lasciare nello stesso tempo ciascuno libero di sottrarsene?
Perché gettare in un solo colpo nella palude quanto si sta costruendo? Da parte
sua, Dom Chautard sapeva mostrarsi perentorio: “Per questa strada, figlio mio,
non perverrete mai all’unione con Dio”. Una volta detto, bisognava trarne le
conseguenze.
Poiché
non si è mai troppo fermi quando s’insegna; soprattutto quando s’insegnano
delle verità o dei comportamenti che svolgeranno un ruolo nelle scelte importanti
e nei destini. Fare delle scelte, e insegnare al discepolo a fare le medesime scelte:
è sempre da lì che occorre partire. Un indicatore stradale non decide nulla, e
il suo compito è svolto per il solo fatto che reca uno dei segnali del codice.
Il ruolo di un maestro non si può limitare a questo. La sua mansione non
consiste nell’indicare indifferentemente tutte le strade possibili, ma egli
deve decidere quale occorre intraprendere. Giacché voi gli avete conferito il
diritto di escludere e di affermare, il diritto di dirigere le vostre
preferenze. Diversamente, la vostra ricerca non sarebbe seria. Da parte mia, ho
subito i metodi di più di un pedagogo; varie influenze si sono esercitate su di
me. Ora, oggi, non mi ricordo che di tre o quattro maestri i quali furono fermi
nella loro lezione ed esigenti. Provo gratitudine e ammirazione per questi
pochi che sapevano imporsi per la loro autorità magistrale. Non mi ricordo
degli altri. Brave persone senza potenza persuasiva, costoro non mi sono stati
utili. Sono solo esistiti? E adesso, verso costoro, presi in blocco, provo
qualche amarezza che abbiano accettato, a mio riguardo, la loro propria
inconsistenza.
Dom
Chautard ebbe dei discepoli; li ha meritati. Ma direte: “Altri tempi, altri
costumi”. Sì e no. In ogni caso, per quanto qui ci occupa, la storia della
spiritualità dimostra che i costumi delle anime, come quelli di Dio, non
cambiano con i tempi. Se la Chiesa, a seconda delle epoche e precisamente
durante la nostra, ha molto cambiato nella sua maniera di fare, per contro, in
ciò che riguarda la vita delle anime che cercano Dio, non potrà mai dire “a
partire da quest’anno, Dio ha completamente modificato il suo modo di fare”. In
questo ambito, occorre dunque sempre tornare alle medesime leggi.
Ricordo
la prima testimonianza che ho inteso a proposito del monastero di Sept-Fons.
Credo si debba situare verso il mese di novembre del 1928, a Friburgo.
Ricevemmo alla tavola di famiglia due monaci di Maredsous che passavano per
andare al nuovo priorato di Corbières. Durante la cena, si parlò del mio
probabile ingresso in un monastero cistercense. Quando uno dei commensali
precisò che forse si sarebbe trattato di Sept-Fons, uno degli onorevoli
benedettini dichiarò: “A Sept-Fons, secondo il Reverendissimo Abate di
Maredsous, si trovano ancora dei giganti della preghiera”. Questo apprezzamento
avrebbe fatto piacere a Dom Chautard, non per l’espressione un po’
magniloquente, ma perché significava l’essenziale di ciò che egli desiderava.
Giacché allora io ignoravo tutto della vita di preghiera, non compresi se non
vagamente cosa potesse significare questa specie particolare di gigantismo.
Nondimeno mi sentii lusingato che si dicesse questo della mia futura comunità;
m’immaginavo già di parteciparvi! Vent’anni dopo, Dom Godefroid Belorgey
O.C.S.O. (1880-1964) mi diede la consegna seguente: “Per voi, continuate il
tempo di presenza, le ore di presenza davanti al tabernacolo”. Voleva
perpetuare la razza di giganti? Non ci pensava, senza dubbio. Sapeva che nella
professione monastica, non si tratta né di statura elevata né soprattutto di
prestigio.
Lui
che conosceva queste cose dall’interno, non avrebbe detto “giganti della
preghiera”, piuttosto: fedeli alla preghiera. All’epoca, d’altronde, non avrei
compreso il termine “fedele” meglio di “gigante”. Com’è possibile che il
termine “fedele”, il più bel complimento che si possa fare a un innamorato,
convenga anche a un monaco? Lo comprendo meglio ora, precisamente grazie a
quelle ore davanti al tabernacolo. Fedele? Colui che l’usura non può mai
vincere; né quella del soggetto, né quella – apparente – dell’Oggetto!
[Père
Jérôme (Kiefer, O.C.S.O., 1907-1985), Saint
Benoît de nouveau suivi, Ad Solem, Parigi 2013, pp. 10-14, trad. it di
fr. Romualdo Obl.S.B.]