mercoledì 25 agosto 2010

Un itinerario tra storiche abbazie. Da Solesmes a Fontgombault

Solesmes è un grazioso villaggio bretone, adagiato sulle rive della Sarthe, che s'incontra appena fuori la cittadina di Sablé nella direzione di Joigny. Costeggiando il fiume si vedono d'improvviso spuntare, dalla rigogliosa vegetazione di pioppi e salici, i pinnacoli e gli arditi spioventi d'imponenti edifici che evocano la grandiosità del palazzo dei Papi ad Avignone. Rifatta in stile gotico, ormai da quasi due secoli, la millenaria abbazia benedettina di Saint-Pierre — ricorre proprio quest'anno il millennio della sua fondazione — specchia la propria facciata nord nelle placide acque della Sarthe e cela tra torri e contrafforti la radice ben più antica, del monastero. Nell'abbaziale si distinguono la navata dell’XI secolo e il transetto del XV con i celeberrimi gruppi scultorei dei santi di Solesmes. Ma l'abbazia oggi è famosa ai più per l'operazione culturale di «restauro» del canto gregoriano. Allorquando nell'agosto del 1986, con un gruppo di amici, intrapresi un viaggio a Solesmes nulla sapevo di quale magnifico posto fosse per natura e per paesaggio, nessuna fotografia mi era nota degli edifici abbaziali; anzi fu per caso che, la vigilia della partenza, scoprimmo che il Solesmes verso il quale ci saremmo dovuti dirigere non era nei pressi di Cambrai. La mia conoscenza si limitava a un nome posto in calce a un librone dalla copertina nera con le pagine rosse donatomi, il giorno del mio ingresso in seminario, da un sacerdote cieco, a conoscenza della mia passione per la musica. Quel Liber usualis aveva un fascino del tutto particolare vergato com'era a matita dal sacerdote che da seminarista, prima della cecità, evidentemente l'usava. Non avevo ancora appreso dagli studi di liturgia che l'abbazia era famosa per quel dom Prosper Guéranger che l'aveva rifondata e che si era strenuamente opposto alla diffusione del rito neogallicano radicatosi in Francia all'indomani del concilio di Trento. Non sapevo che Guéranger era, di fatto, l'iniziatore di quel movimento liturgico che attraversò tutto il XX secolo giungendo fino al Vaticano II, e quindi fino a noi, seppure in modo diverso da come lui aveva pensato. Non sapevo che scopo della sua vita fu il recupero per tutta la Chiesa latina della liturgia romana nel suo uso più puro. Mi spinse a partire solo la consapevolezza che se un'abbazia cura e stampa libri come l’Usualis, in quell'abbazia la liturgia doveva manifestarsi come il punto di convergenza della vita di fede di un cristiano. La sorpresa fu grande. Scoprii una comunità numerosa come non avevo mai visto. Scoprii che il canto gregoriano era la forma normale della liturgia monastica delle ore e della messa in latino celebrata solennemente tutti i giorni con il messale di Paolo VI. Mi colpirono i monaci nel loro dir messa, silenziosamente, la mattina presto nelle cappelle. Il posto mi piacque: vi tornai molte volte anche per l'amicizia che i monaci mi dimostravano. Una volta notai in coro due giovani monaci con una rasatura di capelli diversa dagli altri — componeva una specie di corona intorno al capo — che li faceva manifestamente appartenenti a un altro monastero. Mi si disse che portavano la tonsura dei monaci dell'abbazia Sainte-Madeleine di le Barroux, un luogo dove si celebrava con il messale antico, e che erano lì ad apprendere il canto gregoriano. Udii per la prima volta, che nella Chiesa cattolica, in qualche parte del mondo, il messale di san Pio V era vivo. In quegli anni di studio della teologia sentivo, sì, parlare del rito antico e del suo messale, ma come qualcosa di superato e morto, in termini pressoché negativi. Fu una vera sorpresa trovarmi innanzi due monaci «vivi», appartenenti a un monastero «vivo», che non celebravano qualcosa di morto e nella Chiesa cattolica. L'amico monaco vide il mio stupore e un po' a malincuore aggiunse che pure un'abbazia dipendente da Solesmes aveva ripreso l'usus antiquior del messale: Notre-Dame di Fontgombault. Pensai che prima o poi sarei andato anche là: se un semplice Liber usualis mi aveva portato a Solesmes, due monaci in carne e ossa, testimoni di un mondo dato per morto, non erano da trascurare. A Fontgombault ci andai per la settimana santa del 2002. Arrivai sul far della sera quando in chiesa la comunità dei monaci, numerosa più di Solesmes, cantava il vespro. Il canto dei monaci elevava un mirabile inno alla bellezza dell'Onnipotente perfettamente aderente alla costruzione in pietra dell'abbaziale. Nell'intatta abside romanica del XII secolo innestata nel transetto, con il coro a deambulatorio su colonne sormontate da un'elegante tribuna si aprivano le cappelle radiali — dai giardini dell'abbazia il giro delle absidi trasmette un'emozione straordinaria. La solenne austerità delle tre navate, sebbene frutto dell'imponente restauro ottocentesco seguito alla rovina in cui versò l'abbazia dopo la rivoluzione, s'accordava perfettamente alle parti più antiche. La monumentale luminosità di quell'architettura mi comunicava la stessa trasparenza e forza che governano il pensiero della Summa Theologiae di Tommaso d'Aquino o la poesia della Commedia di Dante Alighieri. L'apprensione carica d'interrogativi circa il rito antico che m'aveva accompagnato fin lì s'attenuò già in quel primo vespro in cui non vidi nulla di strano rispetto a Solesmes. La tensione si sciolse la mattina seguente allorquando vidi la lunga fila dei sacerdoti celebrare, come a Solesmes e a San Pietro in Vaticano, la messa privata sugli innumerevoli altari della chiesa. Ogni perplessità si dileguò alla messa conventuale. La celebrazione del divin sacrificio, salvo che per l'orientamento della preghiera del sacerdote all'altare, il canone in silenzio e qualche altra piccola variazione, m'apparve non molto differente dalle messe di Solesmes. Scomparso ogni timore sentivo anche irrazionale l'ostracismo riservato all'usus antiquior del messale. Al mio ritorno da Fontgombault un sacerdote non più giovane, che aveva dimostrato preoccupazione per quel mio soggiorno, rimase perplesso nell'udire che avevo trovato un comunità intensa e giovane che pregava con fede, un monastero del tutto normale e a proprio agio con un rito che m'appariva in nulla eccentrico e sorpassato. Quando posso a Solesmes, a Fontgombault e a Le Barroux ci torno sempre volentieri.

[Mons. Marco Agostini (cerimoniere pontificio, officiale della seconda sezione della Segreteria di Stato), L'Osservatore Romano, 14 agosto 2010]

lunedì 23 agosto 2010

Voices - Chant from Avignon

In passato ci siamo già occupati di presentare brevemente l’abbazia benedettina femminile Notre-Dame de l’Annonciation, sorta nel 1979 sulle orme di dom Gérard Calvet (1927-2008), fondatore e primo abate del monastero Sainte-Madeleine di Le Barroux.
Nelle ultime settimane ha avuto una certa risonanza sui mezzi di comunicazione internazionali l’uscita – prevista per il mese di novembre 2010 – di un disco di canto gregoriano realizzato da questo monastero femminile, che sarà prodotto dall’importante etichetta discografica Decca Records, e il cui titolo sarà Voices - Chant from Avignon (al CD in uscita è dedicato sin d’ora un sito Internet).
La comunità di religiose di Le Barroux è stata scelta dopo una selezione fra settanta monasteri di tutto il mondo per il suo modo eccellente d’interpretare il canto gregoriano. Così ha commentato l’abbadessa, Madre Placide Devillers O.S.B.: “Non abbiamo mai cercato una cosa di questo tipo, sono venuti in cerca di noi. All’inizio eravamo preoccupate dell’ipotesi che potesse intaccare la nostra vita di clausura, così abbiamo chiesto il parere a san Giuseppe nella preghiera. Le nostre preghiere sono state ascoltate, e abbiamo pensato che questo album potrà essere positivo se arriverà alle persone e le aiuterà a trovare la pace”.
Riproduciamo qui di seguito il primo video di presentazione del CD Voices - Chant from Avignon.


giovedì 19 agosto 2010

Le tre colonne - 40 anni di Le Barroux

[In prossimità del quarantesimo anniversario della fondazione monastica di Le Barroux – che ebbe inizio il 25 agosto 1970, presso il priorato del secolo XI dedicato a santa Maddalena (nella fotografia a fianco), nel vicino comune di Bédoin –, pubblichiamo lo scritto che Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008) – fondatore e primo abate della comunità – offrì «in azione di grazia», nel 2000, ai destinatari della «lettera agli amici del monastero», nella ricorrenza del trentesimo anniversario]

Il clamore degli eletti pervenuti alla soglia della vita eterna, lo sappiamo, sarà quello di un’immensa gratitudine: esaltazione infinita, estasi di gioia e di riconoscenza per Colui che ci ha amati per primo. Gioia, gioia, lacrime di gioia, come diceva Pascal.
Tuttavia, saremo ingrati a comprimere ancora per lungo tempo nei nostri cuori un così grande grido d’amore: ecco che sgorga improvvisamente – perché attendere? – in questo trentesimo anniversario del nostro arrivo a Bédoin, quando – un certo 25 agosto 1970 – un piccolo monaco giungeva in ciclomotore con i suoi poveri bagagli per iniziare una strana avventura. Un’avventura interiore, in primo luogo, che lo dovrà collegare – lui e quanti verranno dopo di lui – non anzitutto alla comunità umana, né alla lunga genealogia dei monaci che l’hanno preceduto – grazie, cari anziani: cosa saremmo senza di voi? –, ma a Dio.
Uniti a Dio, nella sete di amarlo, di essere da lui condotti e governati. Sì, collegati a lui, rivettati alla sua essenza infinita. Grazie, mio Dio, per averci permesso – per mezzo delle sventure dei tempi – di continuare la corsa della nostra vita monastica, di proseguire questo misterioso sforzo di nutrirsi, per tutta la vita, della Vostra sostanza.
Tre colonne, affinché la casa non crolli, hanno sostenuto il fragile edificio quale intendemmo costruirlo, e la loro evocazione a grandi tratti sarà l’oggetto di questa lettera ai cari amici del monastero. Menzioniamole: una filosofia dell’uomo, la sapienza della Regola, l’irradiamento della liturgia.

Una filosofia dell’uomo

Vedendo così tanti abbandoni attorno a noi, sentivo a quale punto ci erano mancate le fondamenta di una solida filosofia. Perché? Giacché l’eterna tentazione dello spirito umano è quella d’ignorare la struttura essenziale dell’essere creato: sostituire al reale una macchinazione dello spirito. Mi spiego. Perché i divorzi in massa? Perché fra il clero così tanti abbandoni del sacerdozio? Perché questa follia delle unioni contro natura? Quest’odio per la famiglia? Sono solo l’intossicazione di una generazione, sensualità, debolezza di temperamento? No. Ciò che, oggi, fa tremare sulle sue basi una civiltà millenaria, non è anzitutto il peccato della carne. Il quale è sempre esistito. Si tratta invece di un’abominevole menzogna dello spirito che s’industria in mille modi per fare credere agli uomini che la natura umana cambia, che il mondo evolve – sia chiaro, esiste un’evoluzione al livello dei mezzi tecnici, ma la natura umana rimane immutata – e dunque che ogni epoca può reinventare un ordine della creazione. Tale è il veleno satanico che infetta l’insieme della società. A questa follia dell’orgoglio umano noi risponderemo con un’umile e gioiosa sottomissione al reale, all’essere nella sua divina permanenza. Abbiamo constatato che il realismo aristotelico e di san Tommaso d’Aquino ci aveva dato la salute dello spirito. Perciò, abbiamo edificato basandoci su una filosofia dell’essere e su una teologia ortodossa, sicura e vigilante. Giacché, infine, in un universo mentale per il quale è impossibile conoscere la verità, cosa diventa la fede, se non una semplice opzione fra le altre?

La sapienza della Regola

Inoltre – è la nostra seconda colonna – abbiamo scoperto che la nostra vita di monaci aveva bisogno di un elemento fondante stabile. Non avemmo l’insolenza d’inventare un nuovo modello di vita monastica. Molto semplicemente, abbiamo riscoperto la sapienza della Regola di san Benedetto, tale e quale ci è stata trasmessa dagli antichi, la sua ricchezza, la sua universalità e la sua inesauribile capacità di adattamento. Si constata che essa risponde a tutte le aspirazioni del cuore umano, in Vietnam, nell’Africa nera, in Brasile, come pure nella nostra piccola comunità embrionale – nel 1971 eravamo in tre – quale fu quella di Bédoin. Ma come parlare della santa Regola? Ispiratrice di tutta la spiritualità occidentale, miracolo d’equilibrio e d’armonia, essa non è né un regolamento né un codice stradale, ma ben piuttosto un’arte di vivere, un’arte evangelica del cercare Dio al seguito del Cristo Gesù, alleando lo spirito comunitario al desiderio di solitudine, la preghiera corale all’orazione silenziosa, una condiscendenza per i deboli a un’elevata esigenza per i forti, una fedeltà alle tradizioni del passato a un’incredibile flessibilità d’attualizzazione, una disciplina dell’anima a una felice libertà dello spirito, un gusto per l’assoluto a un’accettazione dei limiti. Per dirla tutta, la santa Regola propone un apprendistato della vita celeste interamente tesa verso Dio, che non bara con l’implacabile serietà delle leggi della natura. Come diceva Louis Salleron: «Si ha talora l’impressione di una legione straniera votata al sacrificio assoluto per l’onore di Dio, in una dura battaglia che altro non è che il dispiegamento pacifico dei lavori e delle giornate». Ben detto. Aggiungete la gioia dello spirito d’infanzia e la gratuità del servizio inutile: felici di non essere nulla affinché Dio sia tutto.
Poiché ogni famiglia monastica riceve un marchio proprio che le dà il suo spirito e che la distingue dalle altre, sembra che la nostra piccola comunità si sia ingrandita e si sia sviluppata grazie all’influsso esercitato su di essa dal ricordo e dall’esempio dei nostri fondatori: Padre Jean-Baptiste Muard, «un uomo di grande preghiera» (Pio IX), Dom Romain Banquet e Madre Marie Cronier, la santa abbadessa di Dourgne, la cui idea maestra fu la vita interiore. Senza dubbio è in questa direzione che dovremo lavorare, se vogliamo rimanere fedeli allo spirito del nostro santo Patriarca. Tuttavia, avremmo osato consacrarci a una tale opera senza l’irradiamento di quella meravigliosa colonna di luce che è la liturgia della Chiesa?

L’irradiamento liturgico

Per essere brevi su questo soggetto enorme, ricondurrò a tre le note essenziali della preghiera liturgica, che da trent’anni incanta le anime di questo monastero e alimenta la loro vita interiore. Queste tre note sono la sacralità, il senso pedagogico e il lirismo.
Sacralità, cioè riflesso del divino in ciò che vi è di eterno e di trascendente: il carattere altamente sacrale di una preghiera trasmessa per mezzo di una lingua fissa – protetta dall’individualità e dal cambiamento mediante regole immemori – disciplina le anime con un rigore di cui esse sono oggi a tal punto private, e le inclina all’adorazione. Come dice il cardinale Joseph Ratzinger: «La liturgia non vive di sorprese “simpatiche”, di trovate “accattivanti”, ma di ripetizioni solenni. Non deve esprimere l’attualità e il suo effimero ma il mistero del Sacro» (Rapporto sulla fede, p. 130).
Menzioniamo in seguito il senso pedagogico della liturgia. Si può dire che constatiamo questo aspetto a ogni passo: la Chiesa, mediante la sua preghiera, insegna ai suoi figli senza darne l’impressione, donando loro un gusto soave e profondo delle verità di fede, racchiudendo nelle orazioni latine del messale tutta una teologia dalle formule concise e cariche di significato, mentre lo svolgersi regolare dei medesimi gesti e degli stessi simboli inscrive nei cuori il senso misterioso delle parole divine.
Quanto al lirismo, esso appartiene di diritto alla liturgia, la quale si può esprimere sia con sobrietà sia con magnificenza, mescolando con un’arte sovrana, come in un grande poema, il canto, il silenzio, le incensazioni e le letture. Così, nel rito di una Messa pontificale è all’opera una specie di magia divina, che fa scendere un po’ di Cielo nel quaggiù dei nostri inizi quotidiani. E il ciclo dell’anno liturgico non è lui stesso un’ammirevole sinfonia, in cui il santorale viene a incrociarsi con le feste di Nostro Signore, trasformando ogni giorno in un giorno di festa?
E che dire del canto gregoriano? Più che una musica religiosa, è una preghiera cantata: onda portatrice di un’umile supplica, al contempo popolare e sacra, offerta e nutrimento, libera e obbediente, essa riversa ogni giorno nelle nostre anime il segreto di un’inesauribile consolazione. Uno di voi mi ha confidato che nei primi tempi, quando la vita non mancava di asprezze, senza la grazia della preghiera liturgica non avrebbe perseverato nella sua vocazione.
Ma noi sappiamo che tutto questo ci è stato dato senza alcun merito da parte nostra. Ecco perché oggi cantiamo più che mai il nostro Magnificat!

[Dom Gérard Calvet O.S.B., Action de grâce pour nos trente ans de fondation – Les trois «piliers», in Les amis du monastère, n. 95, 25 agosto 2000, pp. 1-3, trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B.]

giovedì 12 agosto 2010

André Charlier, Dom Gérard e Maslacq

[Grazie alla cortese autorizzazione di Yves Chiron, riproduciamo l’integralità della sua “lettera d’informazioni religiose” Aletheia, anno XI, n. 150, 28 gennaio 2010, pp. 1-2 (16 rue du Berry, 36250 Niherne, France), trad. it. di sr. Bertilla Obl.S.B.]

André Charlier (1895-1971) fu un educatore, un moralista e uno scrittore. Professore presso l’École des Roches a Verneuil (Eure), a partire dall’ottobre 1924; direttore dell’École des Roches, trasferita a Maslacq (Pirenei atlantici), dall’ottobre 1941 al luglio 1950; direttore del Collège de Normandie a Clères (Senna marittima), dall’ottobre 1950 al luglio 1962. Ha pubblicato una raccolta di testi – Lettres aux capitaines (1955) –, un saggio – Que faut-il dire aux hommes? (1964) – e, in collaborazione con suo fratello, lo scultore Henri Charlier (1883-1975), Le chant grégorien (1967) [1].
Dom Gérard Calvet (1927-2008), fondatore e primo abate del monastero Sainte-Madeleine di Le Barroux, fu allievo dell’École des Roches di Maslacq, dal 1940 al 1947, restandovi un anno supplementare – un anno sabbatico – dopo il baccalaureato e prima della partenza per il servizio militare, nell’ottobre 1948.
Nel gennaio 1950, Gérard Calvet entrò come postulante nel monastero benedettino di Madiran (Pirenei atlantici). Prese l’abito il 2 febbraio 1950 e fece la professione semplice il 4 febbraio 1951. Nel 1952 il monastero di Madiran fu trasferito a Tournay. Il 18 febbraio 1954 Dom Gérard vi fece la professione solenne e il 13 maggio 1956 fu ordinato sacerdote.
Come tutti i sacerdoti novelli, Dom Gérard celebrò le sue prime Messe alla presenza e per le intenzioni dei suoi cari. Dopo Bordeaux, alla presenza della propria famiglia, Dom Gérard si recò a celebrare una Messa al Collège de Normandie. Era il riconoscimento di un debito nei confronti di André Charlier che era stato, per lui, più di un maestro: «un padre», secondo la sua stessa espressione.
In tale occasione, André Charlier pronunciò un discorso. Ringrazio la figlia di André Charlier per avermi trasmesso questo testo inedito e di averne autorizzata la pubblicazione.
Non farò un commento riga per riga di questo discorso in tre parti. Vi si ritrovano in primo luogo un ritratto dell’allievo Gérard Calvet e alcune considerazioni su «la libertà e la grazia» [2]. Segue il racconto della scoperta della vita monastica da parte del giovane Gérard e la rivelazione della sua vocazione monastica. Infine, vi è l’esposizione della lotta condotta da André Charlier, la sua rivendicazione dell’«esigenza» [3] e la sua visione delle avanguardie e degli avamposti necessari, tra i quali poneva il giovane monaco-sacerdote.

Yves Chiron

[1] Su André e Henri Charlier ci si riferirà ai numeri speciali che sono stati loro consacrati dalla rivista Itinéraires (n. 166, settembre-ottobre 1972, e n. 266, settembre-ottobre 1982).
[2] Dom Gérard dirà di avere ricevuto a Maslacq «un’intelligenza dei rapporti fra la natura e la grazia che è senza dubbio l’apporto più prezioso e il più originale del messaggio che ci era rivolto» (Histoire de Maslacq, in Itinéraires, n. 266, cit., p. 268).
[3] Anche in questo caso, non si può che rimandare alle pagine di Dom Gérard su Maslacq. Lui stesso pone in esergo la nozione di «esigenza» (ibid., p. 338).


Reverendo Padre,
Ti ricordi senza alcun dubbio i saluti che t’indirizzammo quando lasciasti Maslacq per entrare a Madiran. Fu nel famoso studio numero uno, e c’era una certa emozione nell’uditorio. Anche dello stupore. Ci si stupiva di vedere entrare in monastero colui che aveva ricoperto con tanta buffoneria il ruolo della Contessa d’Escarbagnas, o con tanta naturalezza quella dello Stordito, o ancora – te ne ricordi? – colui che aveva scordato di passare i suoi abiti da donna per rappresentare Viola scagliata dalla tempesta sulle coste dell’Illiria, ne La dodicesima notte di Shakespeare. I tuoi titoli nella scuola erano riassunti in un biglietto da visita del quale forse non hai conservato il ricordo. Era fortemente umoristico. Quanto a me, ho pensato che non ci fosse nessuna rottura nel percorso. Non è inutile avere giocato e danzato (con un certo spirito) al fine di comprendere i giochi della Libertà e della Grazia, allorché s’intraprendono i primi passi nella vita mistica. Non è detto nella Scrittura che la Saggezza di Dio giocava davanti a Lui in ogni tempo? La vita devota non è sinonimo di noia e di rigidezza. I clown possono essere le persone più serie del mondo.
Mi ricordo il primo soggiorno che facemmo insieme all’abbazia di Madiran. Abbiamo dormito in un granaio pieno di fieno e tu eri sceso acrobaticamente al piano di sotto attraverso il tavolato per cadere in una rastrelliera delle mucche, cosa che ti era valsa la rottura di una costola. Credo che con noi ci fossero Guy de La Chapelle, Bertrand de Galard e Denis Chapon. La vita dei monaci vi sembrava straordinaria. Insomma, non ci capivate un granché. Nel refettorio, durante la lettura recto tono, avete trattenuto il riso a fatica. Tuttavia, prima di partire, tu sei entrato da solo nella cappella e mi sono detto di frequente che, anche se non te ne sei reso conto, la tua vocazione si decise in quest’unico istante. Le più grandi cose della vita dipendono dalle più piccole circostanze: è sufficiente che in un dato momento siamo capaci di vedere e intendere ciò che bisogna fare, purché in seguito non si rimetta tutto in discussione attraverso le sottigliezze del dubbio e della discussione. Quando s’intraprende un cammino bisogna sempre andare fino in fondo. Credo che se l’École des Roches ti ha insegnato qualcosa, è stato semplicemente di prendere le cose sul serio, cioè alla lettera. Prendere il proprio lavoro alla lettera. Che vi dice: «Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste».
Tale comandamento si applica a tutti gli uomini, non solo ai monaci. Ma senza dubbio i monaci sono gli unici a prendere questo comandamento alla lettera e a mettere tale esigenza al primo posto tra le loro preoccupazioni, davanti a tutto il resto.
Nella sua ultima lettera, fr. Marie mi ricordava un’espressione di Padre Romain, che ha un posto così importante nella scuola, benché ne sia così lontano: «Maslacq dev’essere un vivaio per gli avamposti». Vi è, in effetti, una seconda cosa che la scuola ha potuto insegnarvi: è la gravità della lotta che vi attende, perché nel mondo moderno tutti i valori che determinano la nobiltà e il significato della vita sono minacciati pericolosamente, perché li vediamo morire sotto i nostri occhi senza che nessuno, persino i cristiani, reagisca se non con proteste letterarie o verbose. Per aver detto ciò, sono stato tacciato di pessimismo. Tanto peggio! Non me ne distacco di una parola. D’altra parte, mi sono sempre sentito a mio agio tra gli avamposti e le avanguardie. Non ho il gusto per la morte. Non sono tra coloro che considerano il proprio lavoro già come una ritirata. Io mi batto. Mi sono molto battuto negli ultimi quindici anni e rendo onore a coloro, professori e allievi, che hanno voluto battersi al mio fianco; perché, cosa curiosa, anche alcuni degli stessi allievi hanno acconsentito a battersi e non hanno voluto rimanere spettatori ironici. So bene di essere considerato impaziente, esigente, amo che si marci velocemente, che si realizzi velocemente, che si comprenda velocemente. Quali retroguardie ho dovuto trascinarmi in questi quindici anni di battaglie! Ma che importa? La tua presenza qui, questa sera, significa che c’è qualcuno tra voi che ha scelto gli avamposti, perché dietro a te ce ne sono altri, grazie a Dio. Così penso di poter dire ora come Simeone: «Nunc dimittis servum tuum Domine». In una lettera che mi scrivesti circa due anni fa, tu mi dicesti: «Voglio consacrare il mio sacerdozio all’anima della Francia». Queste parole mi sono state a cuore, perché le ho prese alla lettera. Il volto del mondo può essere cambiato e il mondo può essere salvato, quando la volontà corrisponde davvero all’appello. Cinque secoli fa, l’anima della Francia è stata messa per intero nelle mani di una ragazza della Lorena che non sapeva né leggere né scrivere. Eccola oggi deposta nelle tue mani sacerdotali e nelle mani di coloro che, come te, non avranno paura di battersi negli avamposti.

lunedì 9 agosto 2010

Alle fonti del monachesimo - II

[In una pagina precedente abbiamo proposto la cosiddetta "versione alessandrina" del racconto delle origini apostoliche del monachesimo a opera di Giovanni Cassiano (360 ca.-435), tratta da Le istituzioni cenobitiche. In questa seconda occasione riproduciamo invece la "versione gerosolimitana", tratta dalle Conferenze ai monaci]

La vita cenobitica ebbe dunque il suo inizio al tempo della predicazione apostolica. Infatti tale risultò quell’intero gran numero dei credenti in Gerusalemme, così descritto negli Atti degli Apostoli: “La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuore solo e un’anima sola, e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune” [At 4,32]. “Vendevano proprietà e sostanze, e ne facevano parte, secondo il bisogno di ciascuno” [At 2,45]. E ancora: “Nessuno tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi e case, li vendevano, portavano l’importo di ciò che era stato venduto ai piedi degli apostoli; e veniva distribuito poi a ciascuno secondo il bisogno” [At 4,34-35]. Tale, dirò ancora, era allora tutta la Chiesa, quale, al tempo nostro, è difficile riscontrare, se non in numero molto ridotto proprio nei cenobi. Infatti dopo la morte degli Apostoli, la moltitudine dei credenti cominciò a intiepidirsi, quelli specialmente che erano confluiti alla fede di Cristo dal di fuori, dalle parti cioè dei gentili, ed erano coloro, dai quali gli Apostoli, in vista degli stessi rudimenti della fede e data l’inveterata tradizione della stessa loro vita pagana, nulla più richiedevano al di fuori delle norme seguenti: “Astenersi dalle carni offerte agli idoli, dalla fornicazione, dal sangue e dagli animali soffocati” [At 15,29]; una tale libertà, concessa ai gentili per la debolezza della loro fede appena iniziata, cominciò a contaminare un po’ per volta anche la Chiesa che s’era formata a Gerusalemme, e così, raffreddatosi il fervore della fede primitiva per il crescente numero di quanti ogni giorno vi affluivano, giudei o estranei che fossero, finirono per rilassarsi da quella austerità non solo quanti avevano aderito alla fede di Cristo, ma anche coloro che erano stati preposti alla guida della Chiesa.
Alcuni infatti, ritenendo lecito anche per loro quello che vedevano concesso ai gentili in vista della loro debolezza, credettero di non incorrere in nessun male, se avessero conservato il possesso dei loro beni, continuando a professare la fede di Cristo. Invece coloro che conservavano ancora il vero fervore, memori com’erano di quella primitiva perfezione, separatisi dalle loro città e dal consorzio di quanti ritenevano lecito per loro e per la Chiesa di Dio la negligenza d’una vita rilassata, presero a dimorare in luoghi periferici alle città e in siti separati, e a osservare privatamente e personalmente quelle norme che essi ricordavano dettate dagli Apostoli in forma generale per tutto il corpo della Chiesa; venne così a crearsi quella disciplina, di cui sto parlando, tutta propria dei discepoli che si erano sottratti al contagio in precedenza richiamato. Essi, separatisi col progresso del tempo dalle folle dei credenti per il fatto che si astenevano dalle nozze e venivano separati dalla comunione dei parenti e del mondo, vennero denominati monaci, ossia monázontes, per l’austerità della loro vita così singolare e solitaria. Ne derivò ovviamente che dalla comunione di vita da loro condotta, essi furono chiamati cenobiti, e le loro celle e i loro alloggi furono detti cenobi.
Fu dunque unicamente questa la specie più antica dei monaci, la prima non soltanto in ordine di tempo, ma anche della grazia; fu quella che perdurò inviolabile per moltissimi anni fino all’età di Paolo e di Antonio. Di essa noi vediamo perdurare i resti ancora al tempo nostro nei monasteri più osservati dei cenobiti.

[Giovanni Cassiano, Conferenze ai monaci, [Libro III, Conf. XVIII,5], traduzione e note a cura di Lorenzo Dattrino, 2 voll., Città Nuova, Roma 2000, vol. 2, pp. 234-236]

giovedì 5 agosto 2010

Una meditazione patristica sulla Messa

Dobbiamo dunque disprezzare con tutto il cuore il secolo presente, almeno perché lo vediamo già passato, immolare a Dio sacrifici di lacrime ogni giorno e ogni giorno immolare le vittime della sua carne e del suo sangue. Infatti questa vittima salva, in modo incomparabile, l'anima dalla morte eterna, rinnovando per noi nel mistero la morte del Figlio unico. Benché "risuscitato dai morti non muore più; e la morte non ha più potere su di lui", tuttavia, in sé stesso immortalmente e incorrutibilmente vivente, è immolato per noi di nuovo nel mistero della santa oblazione. Qui il suo corpo è consumato, la sua carne divisa per la salvezza del popolo, il suo sangue sparso non più sulle mani degli infedeli, ma nella bocca dei fedeli.
Perciò pensiamo cos'è per noi questo sacrificio che per il nostro perdono imita sempre la passione del Figlio unico. Chi dunque tra i fedeli potrebbe dubitare che all'ora precisa dell'immolazione i cieli si aprano alla voce del prete, che gli angeli siano presenti a questo mistero di Gesù Cristo, ciò che è innalzato si unisca a ciò che è basso, ciò che è celeste al terreno, e l'invisibile e il visibile si fondano?

[San Gregorio Magno (540 ca.-604), Libro IV dei Dialoghi, 60,1-3]

martedì 3 agosto 2010

Un fiume basso, e insieme profondo

Accostiamo la presentazione di un'opera di san Gregorio Magno (540 ca.-604) e c'imbattiamo in un suo pensiero sulla Sacra Scrittura che ci lascia senza respiro: «Un fiume basso, e insieme profondo, nel quale un agnello può passeggiare e un elefante nuotare»

lunedì 2 agosto 2010

Alle fonti del monachesimo

[Originario di una regione dell’Impero romano (la Scizia, oggi Romania) dove si parlava sia il latino che il greco, Giovanni Cassiano (360 ca.-435), dopo un lungo soggiorno nei monasteri della Palestina e dell’Egitto, scrisse per i monaci d’Occidente, nei primi decenni del secolo IV, Le istituzioni cenobitiche (De institutis coenobiorum) e le Conferenze dei Padri (Collationes), pensate come progetto organico capace di trasmettere e di tradurre in un linguaggio accessibile l’esperienza e l’insegnamento dei “Padri” conosciuti in Oriente. Nell’assoluta fedeltà al Vangelo propose così un sapiente equilibrio tra vita comunitaria e vita solitaria, mettendo l’ascesi a servizio della carità. La sua opera, ponte e anello di collegamento fondamentale tra Oriente e Occidente, ha permesso a innumerevoli generazioni di monaci - san Benedetto ne raccomanda nella Regola le opere come autorevoli trattati per la formazione dei monaci - di attingere alle fonti più antiche e autentiche del monachesimo e rimane una delle pietre miliari della letteratura cristiana della Chiesa indivisa. Nel brano seguente Cassiano offre quella che è stata definita la "versione alessandrina" del racconto delle origini apostoliche del monachesimo; a essa egli affianca (in Conf. XVIII,5) una "versione gerosolimitana"]


Agli inizi della nostra fede, infatti, coloro che portavano il nome di monaci erano sì pochi, ma di specchiata virtù. Essi avevano ricevuto questa regola di vita dall'evangelista Marco, di beata memoria, che fu il primo vescovo della città di Alessandria, e non si limitavano a custodire i nobili costumi praticati dalla moltitudine dei credenti nella Chiesa primitiva, come leggiamo negli Atti degli Apostoli - La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuore solo e un'anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che possedeva, ma ogni cosa era fra loro comune. Quanti infatti possedevano campi o case li vendevano, portavano l'importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli Apostoli: poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno (At 4,32.34-35) -, ma a tutto ciò essi avevano aggiunto pratiche molto più sublimi.
Ritirandosi infatti in luoghi solitari alla periferia delle città, conducevano una vita di astinenza di un rigore tale, che perfino coloro che erano estranei alla religione si stupivano di questa loro pratica di vita così austera. Tale infatti era il fervore con cui si dedicavano notte e giorno alla lettura delle divine Scritture, alla preghiera e al lavoro manuale, che non sentivano neanche il bisogno né si ricordavano di mangiare, se non dopo due o tre giorni, quando era l'esigenza stessa del corpo a sollecitarli. Mangiavano e bevevano non tanto ciò che desideravano, ma il necessario, e mai prima del tramonto del sole, in modo tale da associare le ore di luce alle meditazioni spirituali e la cura del corpo alla notte; e compivano altre pratiche molto più sublimi di queste.
Tutte queste cose, anche chi non le conosce già dal racconto degli scrittori locali, potrà apprenderle dalla Storia ecclesiastica. A quel tempo, dunque, quando la perfezione della Chiesa primitiva perdurava ancora intatta presso i suoi successori, essendone il ricordo ancora recente, e quando la fede fervente dei pochi non si era ancora intiepidita diffondendosi tra la moltitudine, i Padri venerabili, preoccupandosi con vigile apprensione del bene dei loro posteri [...]

[Giovanni Cassiano, Le istituzioni cenobitiche. De institutis coenobiorum et de octo principalium vitiorum remediis libri XII, (II,5), traduzione dal latino a cura di Luigi d'Ayala Valva, Introduzione di Adalbert De Vogüé, Edizioni Qiqajon, Magnano (Biella) 2007, pp. 52-54]