lunedì 2 agosto 2010

Alle fonti del monachesimo

[Originario di una regione dell’Impero romano (la Scizia, oggi Romania) dove si parlava sia il latino che il greco, Giovanni Cassiano (360 ca.-435), dopo un lungo soggiorno nei monasteri della Palestina e dell’Egitto, scrisse per i monaci d’Occidente, nei primi decenni del secolo IV, Le istituzioni cenobitiche (De institutis coenobiorum) e le Conferenze dei Padri (Collationes), pensate come progetto organico capace di trasmettere e di tradurre in un linguaggio accessibile l’esperienza e l’insegnamento dei “Padri” conosciuti in Oriente. Nell’assoluta fedeltà al Vangelo propose così un sapiente equilibrio tra vita comunitaria e vita solitaria, mettendo l’ascesi a servizio della carità. La sua opera, ponte e anello di collegamento fondamentale tra Oriente e Occidente, ha permesso a innumerevoli generazioni di monaci - san Benedetto ne raccomanda nella Regola le opere come autorevoli trattati per la formazione dei monaci - di attingere alle fonti più antiche e autentiche del monachesimo e rimane una delle pietre miliari della letteratura cristiana della Chiesa indivisa. Nel brano seguente Cassiano offre quella che è stata definita la "versione alessandrina" del racconto delle origini apostoliche del monachesimo; a essa egli affianca (in Conf. XVIII,5) una "versione gerosolimitana"]


Agli inizi della nostra fede, infatti, coloro che portavano il nome di monaci erano sì pochi, ma di specchiata virtù. Essi avevano ricevuto questa regola di vita dall'evangelista Marco, di beata memoria, che fu il primo vescovo della città di Alessandria, e non si limitavano a custodire i nobili costumi praticati dalla moltitudine dei credenti nella Chiesa primitiva, come leggiamo negli Atti degli Apostoli - La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuore solo e un'anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che possedeva, ma ogni cosa era fra loro comune. Quanti infatti possedevano campi o case li vendevano, portavano l'importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli Apostoli: poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno (At 4,32.34-35) -, ma a tutto ciò essi avevano aggiunto pratiche molto più sublimi.
Ritirandosi infatti in luoghi solitari alla periferia delle città, conducevano una vita di astinenza di un rigore tale, che perfino coloro che erano estranei alla religione si stupivano di questa loro pratica di vita così austera. Tale infatti era il fervore con cui si dedicavano notte e giorno alla lettura delle divine Scritture, alla preghiera e al lavoro manuale, che non sentivano neanche il bisogno né si ricordavano di mangiare, se non dopo due o tre giorni, quando era l'esigenza stessa del corpo a sollecitarli. Mangiavano e bevevano non tanto ciò che desideravano, ma il necessario, e mai prima del tramonto del sole, in modo tale da associare le ore di luce alle meditazioni spirituali e la cura del corpo alla notte; e compivano altre pratiche molto più sublimi di queste.
Tutte queste cose, anche chi non le conosce già dal racconto degli scrittori locali, potrà apprenderle dalla Storia ecclesiastica. A quel tempo, dunque, quando la perfezione della Chiesa primitiva perdurava ancora intatta presso i suoi successori, essendone il ricordo ancora recente, e quando la fede fervente dei pochi non si era ancora intiepidita diffondendosi tra la moltitudine, i Padri venerabili, preoccupandosi con vigile apprensione del bene dei loro posteri [...]

[Giovanni Cassiano, Le istituzioni cenobitiche. De institutis coenobiorum et de octo principalium vitiorum remediis libri XII, (II,5), traduzione dal latino a cura di Luigi d'Ayala Valva, Introduzione di Adalbert De Vogüé, Edizioni Qiqajon, Magnano (Biella) 2007, pp. 52-54]