lunedì 9 settembre 2013

Un commento alla Regola di san Benedetto: l'intenzione principale (seconda parte)

Detto questo, occorre dedurre che la preghiera contemplativa non è – strettamente parlando – l’intenzione principale del monaco. In effetti, la contemplazione si colloca un po’ al di qua, poiché appartiene all’ordine dei mezzi. Nondimeno la contemplazione è ben vicina alla nostra intenzione principale, perché – in quanto mezzo – essa facilita grandemente la concentrazione del cuore umano sull’intenzione principale poc’anzi descritta. Mediante la contemplazione – che realizza presenza e intimità – Dio, sovrano Maestro, aiuta egli stesso il suo servo a compiere verso di lui i suoi doveri di attenzione, di amore e di religione. A causa di questo aiuto divino, sono molte le condizioni della vita spirituale che cambiano di livello. Dio non chiede che una cosa sola: essere amato. Se egli può aiutare una creatura ad amarlo, per lei questo aiuto è evidentemente il mezzo migliore per giungere là dove l’intenzione principale la spinge. Ma, come in altri casi, il mezzo rimane distinto dal fine.
In un certo senso, si può dire che san Benedetto spinge tutti i suoi figli verso la grazia della contemplazione, sperata, possibile, augurabile, a titolo di mezzo molto utile ed eccellente. Ma non può fare niente di più in favore del suo discepolo. Così come il patriarca Giuseppe spingeva i suoi due figli sotto le mani benedicenti del vecchio Giacobbe, senza tuttavia potergli imporre le proprie preferenze, né l’ampiezza della benedizione concessa.
La preghiera contemplativa realizza, fin da quaggiù, l’intimità con Dio. Se leggiamo attentamente la santa Regola, non si deve forse concludere che questa intimità con Dio fa parte del contratto? Certamente. Per cui il monaco non deve mai disperare di ottenerla. È in questo senso che Dom Godefroid Belorgey O.C.S.O. (1880-1964) poteva affermare, in un’istruzione data a Sept-Fons nel 1944: «San Benedetto vuol fare di noi dei contemplativi? Ma tutta la sua opera è per questo! Senza di ciò la nostra vita è un non-senso, il nostro monastero è un non-senso! “Soli Deo”! Tutto, nella vita monastica, è ordinato a questo!».
Ma il caro Dom Belorgey sapeva anche che – in quest’ambito delle grazie particolari – i beneficiari sfuggono a ogni verifica (beati coloro che vivono nascosti), e che queste stesse grazie non si lasciano possedere (beati i poveri).
Riprendiamo gli stessi concetti sotto un’altra angolatura. L’intenzione principale mira alla più grande felicità, la più sicura e la più duratura; questa felicità che produce in anticipo un peso nell’intimo del nostro cuore e, in superficie, una fiammella inestinguibile. L’intenzione principale mira dunque alla vita eterna, che è partecipazione personale alla vita stessa di Dio. Ciò significa inoltre che anche la nostra intenzione principale riguarda delle Persone: Dio Padre, che ci darà questa vita eterna, e Gesù Cristo, Figlio di Dio e Salvatore, che a lui ci conduce accompagnandoci. Da cui l’espressione «cercare Dio», che si trova nella santa Regola e che riassume perfettamente sia la nostra intenzione principale sia la spiritualità del nostro Padre san Benedetto.
Il monaco desidera cercare – per poi un giorno possedere – un Oggetto che è il Bene supremo. Avvicinarsi a questo oggetto occupa il suo pensiero. Mette così in pratica contemporaneamente diversi precetti della Sacra Scrittura. Ma attenzione: vi è una bella differenza tra questa ricerca, precisa, coraggiosa, di un Oggetto supremo più grande – ossia la ricerca monastica – e la moderna pretesa di «essere in ricerca», che significa solo – oserei dire – una miserevole assenza di oggetto.
Quindi, se in questa teologia insegnata da san Benedetto io ritrovo la voce divina che un tempo mi aveva inquietato, e poi invitato e chiamato; se il mio spirito e il mio cuore si rivolgono ormai verso questo Oggetto, io corro il rischio di chi non ha e non avrà mai altro che un solo cibo per nutrire la sua fame. La manna, e ancora manna, fino al termine della vecchiaia! Allora gustiamoci la gran varietà di cibi al banchetto della vita! Così pure sarò nella situazione di chi ha una sola carta da giocare: posizione sfavorevole. Per scegliere la vita monastica ci vorranno quindi motivi solidi, incrollabili. Questi motivi il discepolo non li cerca nell’analisi o nei calcoli; li trova già depositati, da un Altro, nel proprio cuore. Da quel momento, se non si distoglie dalla luce che ha intravisto, se accetta ogni rischio per quest’unica pietra preziosa, allora «inclini l’orecchio del suo cuore» e proceda: la sua intenzione principale non subirà mai un’eclissi.
Notiamo che se la vita monastica mira intensamente al Cielo, non per questo – secondo san Benedetto – essa è già una vita celeste. Avviamento, preparazione, promessa: sì. Ma anticipazione, pregustamento: no, nel modo più assoluto. Non prestandosi a questa confusione, san Benedetto – preciso e realista – evita al suo discepolo tante illusioni quante delusioni. San Benedetto non segue quindi i Padri – i Padri greci soprattutto –, che si sono precipitati con diletto in questa confusione, occasione di ottimi slanci oratori. Un bel danno per loro e per la causa: infatti esaltare la vita monastica con pseudo-verità non è piuttosto farle un cattivo servizio? San Benedetto ci guadagna un sovrappiù di fiducia.
L’intenzione principale, che il discepolo fa sua, lo lega a tutta una serie di obblighi, molto più strettamente di quanto potrebbero fare molte e dettagliate osservanze. Così san Benedetto, dopo avere presentato al discepolo in modo approfondito e leale questa intenzione principale«perché prenda coscienza dell'impegno che sta per assumersi» («ut sciat ad quod ingreditur», RB 58,12) –, giunge a porgli questa domanda, a nome del Signore: «Ecco la legge sotto la quale vuoi militare; se ti senti di poterla osservare, entra; altrimenti, va’ pure via liberamente», «si vero non potes, liber discede» (RB 58,10).
Ammiriamo questo «va’ pure via liberamente», che eviterà – da una parte e dall’altra – tanti problemi conseguenti! Dolce compassione? O ancor meglio dolce ironia? «Quando un novizio entra – diceva Dom Jean-Baptiste Chautard O.C.S.O. (1858-1935)suoniamo la campana piccola. Quando un novizio non abbastanza convinto si ritira, suoniamo la campana grande». In ambedue i casi, legittima gioia. Perché fra coloro che rimangono nel campo del Signore, non ci vuole né esitazione, né ambiguità riguardo all’intenzione principale.
 
[Père Jérôme (Kiefer, O.C.S.O., 1907-1985), Saint Benoît de nouveau suivi, Ad Solem, Parigi 2013, pp. 47-51]