mercoledì 28 luglio 2010

Nazarena


[Abbiamo letto con un senso di vertigine umana e spirituale la storia di una “Madre del deserto” del secolo XX, ovvero della monaca reclusa Maria Nazarena (Julia Crotta, 1907-1990), che dal 1945 al 1990 visse in reclusione presso la sua cella del monastero camaldolese di Roma. La prima biografia che abbiamo accostato è narrata da P. Louis-Albert Lassus O.P. nel libro Nazarena, Une recluse au coeur de Rome. 1907-1990, Editions Sainte-Madeleine, Le Barroux 1996. Il lettore italiano può tuttavia accedere alla fonte biografica e documentale più completa su questa straordinaria figura di santità, edita una prima volta nel 1993 e in seconda edizione nel 2007: Emanuela Ghini (a cura di), Oltre ogni limite. Nazarena monaca reclusa. 1945-1990, Edizioni OCD, Roma 2007. La curatrice dell’opera, monaca carmelitana scalza del Carmelo di Savona, riproduce in questo libro la toccante autobiografia di Nazarena (scritta nel 1989, un anno prima della morte, quando Nazarena aveva 82 anni), il Regolamento della sua reclusione, un’ampia scelta di lettere della reclusa e varie appendici, che rendono il volume particolarmente completo ed esaustivo. Ne caldeggiamo vivamente la lettura, e trascriviamo di seguito la Prefazione all’edizione del 2007]




A diciassette anni dalla morte di Nazarena questa raccolta di alcune sue lettere, uscita a tre anni dalla sua scomparsa per il desiderio e l’amore di padre Anselmo Giabbani, guida spirituale per quasi mezzo secolo della monaca camaldolese reclusa, vede, per una richiesta mai venuta meno, una seconda edizione.
Per rendere più agevole la lettura e non distrarre l’attenzione dalla parola di Nazarena, che non abbisogna di alcun supporto, sono state eliminate le note alle sue lettere che mettevano in luce la consonanza spirituale dell’eremita coi Padri del deserto e con Teresa di Lisieux.
Dalla morte di Nazarena a oggi la conoscenza della sua straordinaria vicenda spirituale si è diffusa ad ampio raggio non solo in Italia. In attesa dell’edizione critica di tutte le sue lettere, è significativa questa convergenza di attenzione affascinata e commossa nei confronti di una monaca che sembra emergere dal deserto di Scete, ma è invece una nostra contemporanea, una donna colta, uscita da una delle più antiche e prestigiose università degli Stati Uniti, dalla grande sensibilità artistica e musicale, dinamica, sportiva, nostra in ogni senso.
Incendiata dalla luce dello Spirito, lungo un percorso umanamente sconcertante, questa donna ha testimoniato in modo straordinario la forza dell’Amore che, amando per primo, può trasformare una creatura umana in un dono di sé oltre ogni limite.
Seguendo una singolarissima vocazione vissuta tutta nell’ambito della Chiesa e, in essa, dell’Ordine monastico che l’ha accolta riconoscendo e rispettando la sua tensione all’eremitismo più assoluto, Nazarena, severissima con se stessa, misericordiosa con tutti, è espressione di sapienza, di equilibrio, di una pace che supera ogni intendimento.
Nel nostro mondo frantumato, ma oscuramente teso all’unità, schiavo del rumore ma desideroso di silenzio, stordito dal vaniloquio ma avido di verità, asservito al potere ma anelante alla libertà, disperso per mille strade ma in cerca di una mèta, questa nostra contemporanea, così simile a noi e così diversa, non addita il suo cammino impervio e inimitabile, non si propone ad alcuno come modello.
Detersa dal rogo purificatore nel quale è stata irresistibilmente attratta, abitatrice del silenzio, spazio di ascolto della Parola che sazia e salva, fisso lo sguardo a Colui che rende raggianti (Sal 34, 6), dice con dolce vigore parole umanissime e consolanti, concrete della vita dello Spirito, sapienti della sapienza di Cristo, adatte a ogni condizione umana.
Parole d’amore, che emergono da un deserto arido al di là di ogni immaginazione, fiorito dalla sua vita crocifissa e risorta a «glorificare il Padre per tutta l’umanità». Ma anche a guarire i cuori feriti, aprendoli all’unico Consolatore.
È l’esperienza di quanti hanno incontrato finora questa nostra sorella così lontana e così vicina e l’augurio per quanti l’incontreranno ancora.
«L’equilibrio e la serenità di Nazarena, che ha vissuto oggi un’esperienza come quella dei padri del deserto, è miracolo evidente di una presenza di Dio nella notte del mondo» (D. Barsotti).

Emanuela Ghini

Carmelo S. Teresa
Savona, 6 agosto 2007
Trasfigurazione del Signore

martedì 27 luglio 2010

O alme Pater Benedicte, monachorum Pater

[La devozione a san Benedetto, come evidenzia questo antico testo di un benedettino di Saint-Vanne, è al cuore dell'universo benedettino. La liturgia propone orazioni e preghiere che fanno del Patriarca dei monaci un intercessore privilegiato, chiamato a intercedere presso Dio per ognuno dei suoi figli. San Benedetto appare così come colui che può ottenere da Dio la grazia di un'autentica preghiera, umile e continua]

Beato Padre san Benedetto, padre, guida e monarca dei religiosi, consolazione di tutte le persone che si ritirano con voi, io mi ritiro in tutta umiltà sotto l'ombra della vostra santa protezione, affinché l'eccellenza dei vostri meriti mi garantisca da tutte le cose che sono contrarie alla mia anima, e così, per l'abbondanza della vostra pietà, voi m'impetriate la grazia di una santa compunzione e il dono delle lacrime, in maniera tale che io possa degnamente e abbondantemente piangere le tante offese e i peccati con i quali molte volte ho offeso il mio dolce Signore Gesù Cristo, sin dalla mia giovinezza; e così che io possa rendervi un rispetto degno e lodevole. Oh olivo, oh vigna grandemente fruttuosa nella casa di Dio, oh vaso d'oro, solido, arricchito da ogni genere di pietra preziosa, scelto secondo il cuore di Dio e dolcissimo, ornato di un'infinità di grazie, come altrettante perle lucenti. Vi prego, vi supplico con tutto l'affetto del mio cuore e i desideri della mia anima, oh Padre benigno e mio dolce maestro, che vi degnate ricordarvi di questo povero peccatore al cospetto del Signore, affinché per la sua benignità egli mi perdoni le offese e i peccati e mi conservi al meglio e non permetta per alcuna ragione che io mi separi da lui, ma che mi ammetta dopo di voi, mio Padre, nella compagnia dei beati e alla partecipazione della visione beatifica, dove io possa gioire per sempre con voi e con questa grande moltitudine di santi religiosi che camminano sotto le vostre insegne. Lo stesso Dio e Nostro Signore Gesù Cristo voglia così, egli che vive e regna con Dio suo Padre e il suo Santo Spirito, nei secoli dei secoli. Amen.

[Dom Philippe François O.S.B. (1579-1635), Guide spirituelle tirée de la Règle de saint Benoît, C. Chastellain, Parigi 1628, pp. 376-377, trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B.]

venerdì 9 luglio 2010

Il monaco è un bambino che canta e gioca

La festa di San Benedetto (11 luglio)

Nei nostri messali antichi il 21 marzo si trova ancora la festa di san Benedetto da Norcia, abate. Era il suo dies natalis, il giorno della sua morte preziosa, la sua nascita al Cielo. Questa data, che segna il primo giorno di primavera, faceva dire a Papa Giovanni XXIII, in un saluto ai benedettini di Montecassino: “Voi appartenete a un ordine primaverile”.
In verità, l’espansione dell’ordine benedettino fu nei primi secoli della Chiesa come un annuncio della primavera. In un’Italia in piena anarchia, verso l’anno 530, san Benedetto s’installa a Montecassino, gli eserciti di Bisanzio fanno razzia a nord della penisola, la Scuola di filosofia di Atene chiude i battenti, Augustolo – l’ultimo imperatore romano – muore assassinato. In quest’epoca continuamente turbata dalle invasioni barbariche, i primi benedettini si riuniscono in comunità e sotto la Regola del loro Padre svolgono l’apprendistato della vita eterna.
Come? Vivendo sotto lo sguardo di Dio, in umiltà e con il canto – non vi è orgoglio ad anticipare il Cielo –, mediante le sante letture, con la pazienza e la carità fraterna. Se i barbari si convertirono è perché i monaci vivevano meglio, con maggiore dignità e dolcezza: essi recavano la prova di quanto annunciavano.
Ricorrendo la data del 21 marzo durante il tempo quaresimale, i figli di san Benedetto ritaglieranno nel tessuto dell’anno liturgico una festa più solenne, nella quale durante otto giorni d’ottava, per mezzo di processioni e alleluia, si darà libero corso all’allegria di bambini che cantano l’opera della grazia nell’anima del loro Padre. Questa l’origine della festa dell’11 luglio. I monaci francesi che avevano tradotto con sé le reliquie di san Benedetto, la cui tomba non era più sicura nella sua patria, ne profitteranno per celebrare in tale giorno la festa della traslazione del santo d’Italia in Francia.
La riforma del calendario liturgico, che aveva soppresso la festa del 21 marzo, conserva quella dell’11 luglio, nella quale si celebra dunque san Benedetto, non più soltanto quale Patriarca dei monaci d’Occidente, ma come Patrono d’Europa. Di per sé, i cambiamenti introdotti nella liturgia non sono una buona cosa. Un giurista faceva notare che è soprattutto la grande antichità delle leggi a renderle sante e venerabili: il popolo disprezza ben presto quelle che vede cambiare tutti i giorni. Ma la festa benedettina dell’11 luglio estesa alla Chiesa universale non può che rallegrare il cuore di un monaco, e si apporterà la più gran cura nel preparare questa solennità, meditando su una delle figure più elevate dei tempi antichi, quella stessa che ha dato il suo stile e il suo accento all’intero cristianesimo occidentale, a tal punto che i Papi hanno voluto porre sotto il suo patrocinio la cultura e lo spirito della civiltà cristiana.
Chi dice civiltà cristiana dice costumi cristiani. Ebbene, i costumi cristiani sono i costumi del Cielo. Poiché san Benedetto è stato un gigante della contemplazione e della santità, i suoi discepoli hanno osato vivere imitando gli abitanti del Cielo; è essenzialmente per questo, e non anzitutto per lo sviluppo delle scienze, che costoro sono stati i padri dell’Europa. Il termine PAX sormontato dalla croce che presiedeva la facciata dei loro edifici significava che la pace del Cielo era discesa sullo spazio terrestre.
Chi era san Benedetto? Ci sembra che la bellezza soprannaturale della sua anima si possa esprimere in alcuni tratti essenziali.
Un’anima del desiderio – Quando il giovane Benedetto, deluso dallo spettacolo delle vanità, lascia Roma – nella cui aria fluttua ancora una tara del paganesimo –, egli è spinto essenzialmente dalla sete di conoscere Dio, di amarlo, di vivere solo per lui. “Soli Deo placere desiderans”, dice di lui il suo biografo san Gregorio: desiderando di piacere solo a Dio. L’idea di consacrazione religiosa che ha dato al mondo cristiano una delle sue istituzioni più belle e più sante, è nata da questa sete, da questa fuga dal mondo di un giovane innamorato d’amore assoluto. Tutti i grandi fondatori d’ordini hanno seguito questa corsa sfrenata verso il Cielo, o verso ciò che sulla Terra vi si avvicina di più: l’unione a Dio lontani dal mondo.
Benedetto, il giovane studente romano appena coinvolto nel cursu honorum – che un gioco di parole potrebbe tradurre con “corsa agli onori” – ha iniziato a fuggire la città degli uomini per vivere solitario nella grotta di Subiaco, come un angelo.
Dopo di lui tutti gli ordini religiosi, che lo Spirito Santo farà nascere per rispondere a una necessità particolare – insegnamento, cura dei malati, riscatto dei prigionieri – avranno per finalità primaria e fondamentale la ricerca della perfezione evangelica, cioè della santità.
Ci sia consentito insistere su questa sete. Si tratta dell’espressione di una chiamata di Dio, poiché è anzitutto il segno fondamentale di tutte le creature: l’uomo creato a immagine di Dio, orientato verso Dio, in uno stato di tensione e desiderio verso il suo fine. Da migliaia di anni, dalle prime manifestazioni dell’arte e del pensiero, si percepisce quest’aspirazione inquieta, quest’ardente singulto che rotola di epoca in epoca, riassunto nella famosa preghiera di sant’Agostino: “Signore […], ci hai fatti per te, e il nostro cuore non ha posa finché riposa in te”.
Se fosse rimasto nella sua solitudine, Benedetto da Norcia avrebbe raggiunto l’immensa schiera dei mistici anonimi in cerca del regno invisibile di cui ogni uomo è portatore, e di cui così pochi rendono testimonianza. Ma Dio ha suscitato taluni per essere i capi di un grande esercito, nel quale a migliaia altri uomini verranno ad arruolarsi, per militare sotto l’influenza e l’irradiamento di una grazia iniziale, che è l’avvenimento fondatore.
Il raccoglitore – È appropriato che gli avvenimenti gettino una luce sugli esseri che li hanno provocati, la loro fisionomia essendo stata nel corso delle epoche ricoperta dalle ombre. Come gli artisti dei tempi antichi, il Patriarca dei monaci svanisce dietro la sua opera. Come la luce di una radura in piena foresta parla del sole, il lungo lignaggio dei discepoli di san Benedetto ci parla della sua anima pacifica e unificata. Non è il monaco a essere andato al mondo, ma il mondo che – per permesso di Dio – è andato dal monaco, nel corso di una visione celeste. In tal guisa un giorno fu posto davanti ai suoi occhi tutto intero il mondo, non nelle dimensioni delle grandezze terrestri, bensì umilmente raccolto sotto un unico raggio della luce divina. Allora, ci dice san Gregorio, l’uomo di Dio percepì quanto ogni creatura è ben piccola cosa, “quam angusta essent omnia creatura”.
La pochezza del mondo creato non fu per Benedetto un pretesto per disprezzarlo, o distruggerlo, ma per considerarlo interamente illuminato da una luce soprannaturale, dotato per ciò stesso di un carattere sacro; un mondo la cui stessa pochezza renderebbe facilitata la restaurazione: san Benedetto è il patrono d’Europa perché fu prima di tutto l’educatore che raddrizza e corregge gli elementi informi di una civiltà allo stato infantile. San Benedetto ha radunato le componenti sparse dell’esperienza monastica orientale – i Padri del deserto, Giovanni Cassiano, Pacomio, Basilio – e le ha adattate al carattere organizzatore del genio romano. Ha conciliato l’arte e la religione, la contemplazione e l’azione, il lavoro e la preghiera, lo studio e le opere servili, il nobile e il servo.
Se un barbaro incolto veniva a bussare alla porta del monastero, lo mescolava fraternamente al figlio del patrizio, e insegnava a tutti e due a vivere come i figli di un medesimo Padre. “Siete stati comprati a caro prezzo: glorificate dunque Dio nel vostro corpo!”.
Il duro combattimento contro le passioni, le prodezze ascetiche e le straordinarie penitenze, avrebbero potuto assorbire i discepoli di san Benedetto, come accadde un secolo prima ai monaci di san Colombano; ma vi è nella Regola una dolcezza soprannaturale più adatta a scoraggiare l’uomo dalle follie del mondo: mediante una lunga e tenera distrazione a fianco delle cose di Dio, con il canto dei Salmi, il casto amore dei fratelli, l’innocenza di una terra da coltivare.
Se ci si chiede in qual modo l’ordine benedettino abbia compiuto la sua duplice missione di ripulitura della terra e delle anime, la storia risponderà invariabilmente che ovunque si trova un gusto familiare e terreno che fissava le popolazioni al suolo, una proiezione del Vangelo su quel dato naturale rappresentato dalla famiglia romana. Lo stesso san Benedetto ne dava l’esempio, con un accento posto sulla comunità, la pace interiore, i legami fraterni, lo spirito filiale: ciò che gli storici hanno chiamato una civiltà della bontà.
Come dice Jean de La Varende in Guillaume le conquérant: “Tali ambienti monastici, con le loro aziende agricole, le loro scuole, i loro ospedali, crearono un’immensa poetica umana, un candore, una bonomia, una dilezione, una pace, una felicità contro la quale nulla poteva prevalere. È necessario impregnarsi di tali nozioni per spiegare questa specie di controllo sulla terra realizzato dalle abbazie”.
Attingendo alle fonti del Vangelo sin dall’inizio dell’era cristiana, lo spirito dei primi monaci si è trovato naturalmente estraneo ai conflitti dottrinali che, in seguito, chiederanno agli ordini religiosi un servizio ecclesiale fondato sulla sorveglianza e l’opposizione. La Regola alla quale si sottomettevano non li spingeva a comporre gli elementi di una strategia dottrinale, bensì a riunire gli sforzi degli uomini laddove – in uno spirito di confidenza e aiuto fraterno – tutto concorreva alla lode divina. Così si esprime Henri Pourrat in La véritable histoire de France: “L’ordine divino vuole che tutto salga verso la sua luce. Ma le nature non si elevano se non sono guidate e assistite da nature più elevate: l’intero universo è assistenza e amicizia. Gli esseri umani non saprebbero salire se non seguissero i santi davanti a loro; e i santi se non fossero a ciò chiamati dagli angeli”. In questo spirito di unità e di riunione le comunità monastiche uscite da san Benedetto hanno messo in onore l’ordine della preghiera sociale, l’ospitalità, la risoluzione delle liti, l’architettura e la musica, il gusto della vita armoniosa alla quale si associano tutte le creature.
La semplicità – Il cardinale John Henry Newman, storico dei primi tempi del monachesimo, è rimasto colpito dalla semplicità di vita dei monaci antichi: “Il loro obiettivo era il riposo e la pace; il loro stato, il ritiro; la loro occupazione, qualche semplice lavoro, quasi opposto al lavoro intellettuale, cioè la preghiera, il digiuno, la meditazione, lo studio, la trascrizione, il lavoro manuale e altri impieghi calmi e lenitivi. Tale era la loro pratica nel mondo intero. Erano fuggiti dal mercato affollato, dalle vincite truccate, dal banco dei cambi, dal commercio del bottegaio. Avevano girato le spalle al foro litigioso, all’assemblea politica e al bazar del commercio. Avevano trattato i loro ultimi affari con architetti e sarti, macellai e cuochi. Tutto ciò che volevano, tutto ciò che desideravano, era la dolce presenza pacificatrice della terra, del cielo e del mare, la grotta ospitevole, il candido ruscello che discende, i doni semplici dati dalla terra materna – justissima tellus – quando la si prega appena”.
Condivisa la tenerezza newmaniana per il carattere virgiliano con il quale egli designa il monachesimo, rimane che una delle costanti del monachesimo benedettino è il ritorno a una vita che si è sbarazzata di tutto ciò che costituisce ostacolo alla pura ricerca di Dio, nella pace di una ritrovata innocenza.
Una natura affettuosa – Questa semplicità di vita va di pari passo con una carità dolce e affettuosa, presa dal vivo presso taluni cronisti. Ecco il ritratto dell’abate Easterwine di Wearmouth che ci ha lasciato Simeone di Durham, nel secolo VII: “Sebbene fosse stato al servizio di re Egfrido, una volta abbandonati gli affari del secolo e avere messo da parte le armi, non fu altro che un umile monaco, in tutto uguale a ognuno dei suoi fratelli, lavorando assieme a loro con grande gioia, alla mungitura delle pecore e delle mucche, andando al forno del pane, in giardino, in cucina, in tutti i lavori domestici, gioioso e obbediente. E quando ricevette il titolo d’abate, egli fu ancora in spirito esattamente quel che era stato prima con ciascuno, dolce, affabile e buono.
Se si era compiuta qualche mancanza, certamente la correggeva, in nome della Regola, ma ciò nonostante guadagnava così bene il colpevole con il suo modo immediato, sincero, a tal punto che non si desiderava per nulla di commettere mai più la propria manchevolezza o di oscurare la radiosità di quel volto chiarissimo con la nube di una trasgressione. Spesso, quando si recava qui o là, di corsa per il monastero, e vedeva i suoi fratelli al lavoro, vi si associava all’istante, guidava l’aratro, martellava il ferro, trainava il carro, o faceva altre cose simili. Era giovane e robusto, con una voce dolce, un carattere gioioso, un cuore generoso, un bel volto. Mangiava le stesse pietanze dei suoi fratelli e sotto lo stesso tetto. Dormiva nel dormitorio comune, come prima di essere abate.
Continuò a comportarsi in tal modo durante i primi due giorni della sua malattia, quando la morte l’aveva già avvicinato, come egli sapeva bene. Ma durante gli ultimi cinque giorni, si ritirò in un locale più appartato. Allora, uscendo all’aperto, si sedette, chiamò a sé tutti i monaci, com’era d’abitudine con la sua natura affettuosa, diede il bacio della pace ai monaci in lacrime e spirò durante la notte, mentre cantavano le Lodi”.
Sono trascorsi appena pochi decenni dalla morte di san Benedetto e già si delineano nella vita dei suoi discepoli i tratti essenziali dell’anima del loro Padre.
Lo spirito d’infanzia – Se nell’universo benedettino vi è una parentela con i primi anni dell’esistenza umana, è anzitutto perché il Vangelo c’invita a ciò dall’altezza della sua autorità morale. Inoltre, poiché la vita vi è concepita come quella dei bambini attorno al loro padre, in un’atmosfera di dolcezza nella quale fioriscono volentieri i sentimenti che sono propri alla giovane età: l’innocenza, la pace dell’anima, la confidenza filiale, la gioia di sapersi amati nell’assenza di preoccupazioni per il domani. Aggiungiamo, il gusto per la liturgia.
Dom Filibert, abate fondatore di Tournay, al quale certi visitatori chiedevano, non senza enfasi, una definizione formale della vocazione monastica, rispondeva tutt’a un tratto: “Il monaco è un bambino che canta e gioca”. Non si tratta di una definizione scolastica per il genere e la differenza specifica, ma ciò faceva del monaco un cantore e un liturgo, qualcuno che anzitutto s’interessa a Dio e che anticipa il Regno. Non s’insisterà mai troppo sul potere educatore della liturgia, sull’influenza che essa esercita ben presto sull’anima e sul corpo, per ricordare all’uomo la sua appartenenza sociale, visibile, alla Chiesa di Cristo, per ridargli il senso della sua dignità soprannaturale, il senso dell’adorazione. Infine, la liturgia, elevandosi al di sopra delle categorie dell’utile e del redditizio, proietta l’uomo in un universo di gratuità, che è la nozione la più dimenticata del mondo moderno.
Ritrovare il candore che ha fatto i mondi, raggiungere quel Dio pieno d’inventiva e di gioia che ha “fissato la luna e il sole” (Sal 73,16), che non ha avuto paura d’imprimere il suo marchio su una materia promessa alla cenere, che ha plasmato “il Leviatàn […] per giocare con lui” (Sal 103,26), significa entrare nello spirito d’infanzia, che canta, che ammira, e che ama. Questa felice contemplazione inscritta nei cantici di lode del giorno e della notte reclama una freschezza, un’imprevedibilità, una gioventù dell’anima, di cui non tutti – ahimé! – sono capaci, ma che è il segno di questo spirito del quale lo stesso Dio fece l’elogio. Così, quando il Signore compare nel Vangelo, non prevale un sentimento di paura, ma un canto di ammirazione e di gratitudine. Lo testimoniano i cantici della storia sacra: il Gloria degli angeli sopra la grotta, il Magnificat della Vergine Maria, il Benedictus di Zaccaria, il Nunc dimittis di Simeone. Alla presenza di Dio, la creatura canta. Esulta. Rende gloria a Dio.
Un’ultima immagine si presenta per completare questa successione di pennellate destinate a chiarire la fisionomia di un Padre. San Gregorio ci ha mostrato il grande Patriarca realizzare miracoli, come un tempo i veri amici di Dio. Ma un’immagine si staglia sopra le altre nei Dialoghi, più emozionante e più cara di tutte le altre al cuore dei suoi discepoli. È un’immagine silenziosa. Si tratta di quella veglia notturna di san Benedetto, in piedi, vicino alla finestra, mentre i suoi figli dormivano. Niente è più bello di questa veglia del Padre sui suoi figli, nel silenzio della notte, immagine della paterna bontà di Dio proteso verso le sue creature, funzione di guardiano che san Benedetto prosegue nell’eternità, nel mezzo di una grande luce, al livello più alto di un potere d’intercessione richiesto dallo stato della Chiesa e del mondo, lo sguardo fisso sull’immenso esercito di monaci neri, talora mal guidati, scarsamente illuminati, attorniati da tutte le trappole del mondo, ma partiti con un coraggio infantile alla ricerca della patria celeste.

[Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), La Saint-Benoît d’été (11 juillet), in Itinéraires, n. 335, luglio-agosto 1989, pp. 83-93, trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B.]

mercoledì 7 luglio 2010

In preparazione alla solennità di san Benedetto (11 luglio)


Deus in adiutorium meum intende. Domine ad adiuvandum me festina. Gloria.

Veni Sancte Spiritus, reple tuorum corda fidelium, et tui amoris in eis ignem accende.
V. Emitte Spiritum tuum et creabuntur.
R. Et renovabis faciem terrae.
Oremus: Deus, qui corda fidelium Sancti Spiritus illustratione docuisti: da nobis in eodem Spiritu recta sapere, et de eius semper consolatione gaudere. Per Christum Dominum nostrum. Amen.

Credo in Deum Patrem omnipotentem, Creatorem caeli et terrae, et in Iesum Christum, Filium Eius unicum, Dominum nostrum, qui conceptus est de Spiritu Sancto, natus ex Maria Virgine, passus sub Pontio Pilato, crucifixus, mortuus, et sepultus; descendit ad inferos, tertia die resurrexit a mortuis; ascendit ad caelos, sedet ad dexteram Dei Patris omnipotentis: inde venturus est iudicare vivos et mortuos. Credo in Spiritum Sanctum, sanctam Ecclesiam Catholicam, sanctorum communionem, remissionem peccatorum, carnis resurrectionem, vitam aeternam. Amen.

Preghiamo: O Dio, che con il dono dello Spirito Santo guidi i credenti alla piena luce della verità, donaci di gustare nel tuo Spirito la vera sapienza e di godere sempre del suo conforto. Per Cristo nostro Signore. Amen.

1. O glorioso Patriarca San Benedetto, tu che nei primi anni della giovinezza, abbandonando onori e ricchezze, ti ritirasti in una solitaria grotta per servire il Signore, ti preghiamo di ottenere anche a noi la grazia di distaccarci dalle cose vane di questo mondo e di tendere alla nostra santificazione osservando fedelmente i divini comandamenti. Pater, Ave, Gloria.

2. O nostro protettore San Benedetto, tu che fosti così potente nel superare le seduzioni diaboliche e sapesti riportare un bel trionfo sulla ribellione dei sensi, ottienici che anche noi, vincendo le insidie del demonio e superando le tentazioni della carne, possiamo conservarci sempre casti e puri agli occhi di Dio. Pater, Ave, Gloria.

3. O San Benedetto, eroe di santità, per quell'amore così grande che avesti verso Dio e che ti meritò di essere favorito di grazie singolari in vita e in morte, ottienici che anche noi, infiammati di vivo amore verso Dio, lo amiamo per tutta la vita, per amarlo eternamente, dopo la morte, in Paradiso. Pater, Ave, Gloria.

Litanie a San Benedetto

Signore, abbi pietà di noi
Cristo, abbi pietà di noi
Signore, abbi pietà di noi

Cristo, ascoltaci
Cristo, esaudiscici
Padre celeste, che sei Dio, abbi pietà di noi
Figlio, Redentore del mondo, che sei Dio, abbi pietà di noi
Spirito Santo, che sei Dio, abbi pietà di noi
Santa Trinità, unico Dio, abbi pietà di noi

Santa Maria, prega per noi
Regina dei Monaci, prega per noi

San Benedetto, prega per noi
Benedetto di nome e di grazia, prega per noi
San Benedetto, uomo di Dio, prega per noi
San Benedetto, uomo di vita venerabile, prega per noi
San Benedetto, uomo di preghiera, prega per noi
San Benedetto, animato dall'amore di Dio, prega per noi
San Benedetto, amante della Santa Croce, prega per noi
San Benedetto, patrono d'Europa, prega per noi
San Benedetto, vincitore dei demoni, prega per noi
San Benedetto, padre dei monaci, prega per noi
San Benedetto, imitatore degli apostoli, prega per noi
San Benedetto, patriarca dei monaci d'occidente, prega per noi
San Benedetto, autore della Santa Regola, prega per noi
San Benedetto, maestro di vita spirituale, prega per noi
San Benedetto, patrono degli esorcisti, prega per noi
San Benedetto, modello d'obbedienza, prega per noi
San Benedetto, modello di povertà, prega per noi
San Benedetto, modello di purezza, prega per noi
San Benedetto, modello d'umiltà, prega per noi
San Benedetto, modello di perseveranza, prega per noi
San Benedetto, modello di ardente carità, prega per noi
San Benedetto, modello dei padri spirituali, prega per noi
San Benedetto, protettore di chi ti invoca, prega per noi
San Benedetto, aiuto nelle tribolazioni, prega per noi
San Benedetto, servitore di Gesù Cristo, prega per noi
San Benedetto, guida delle anime che cercano Dio, prega per noi
San Benedetto, difensore dei poveri, prega per noi
San Benedetto, sostegno dei deboli, prega per noi
San Benedetto, conforto degli ammalati, prega per noi
San Benedetto, consolatore degli afflitti, prega per noi
San Benedetto, sollievo dei moribondi, prega per noi
San Benedetto, protettore dei bambini, prega per noi
San Benedetto, padre di una grande famiglia di Dio, prega per noi
Santo Padre Benedetto, prega per noi

Agnello di Dio che togli i peccati del mondo, perdonaci, o Signore
Agnello di Dio che togli i peccati del mondo, esaudiscici, o Signore
Agnello di Dio che togli i peccati del mondo, abbi pietà di noi

Preghiamo: Onnipotente ed eterno Dio che hai onorato il tuo amato San Benedetto col dono del Tuo grande Amore, affinché vengano a Te innumerevoli anime, umilmente Ti supplichiamo, per i suoi meriti, di infiammare e consumare i nostri cuori col fuoco del Tuo amore. Per Cristo nostro Signore. Amen

lunedì 5 luglio 2010

Gli oblati benedettini / ultima parte

La vita in famiglia

San Benedetto definisce il monastero un esercito di fratelli – acies fraterna [cfr. RB I,5] –, ovvero una famiglia i cui membri conducono assieme le battaglie della vita spirituale. In effetti, la Regola organizza il monastero come una famiglia: il capo è un padre, abbas, e quanti vi abitano sono dei fratelli. Tale carattere familiare domina l’intera Regola, come pure la storia dell’Ordine benedettino.
Penetrati da questi sentimenti, gli oblati vedono nella famiglia un’istituzione sacra; vi si collegano come al quadro naturale della loro esistenza, ne amano e ne conservano lo spirito, anche quando le circostanze li obbligano a separarsene.
Gli oblati compiono con delicatezza e generosità i doveri spirituali e materiali che una tale fedeltà impone loro. È da ciò che deve sempre cominciare l’esercizio della carità.
Gli oblati reagiscono, con tutte le loro forze, contro le idee, le istituzioni e i vizi contrari al vigore fisico o morale e alla prosperità della famiglia, come pure incoraggiano personalmente ogni azione finalizzata a fortificarla.
Nell’azione religiosa che esercitano, non perdono mai di vista la famiglia, ed è questo il modo migliore per evitare gli scogli dell’individualismo. Non separano in nulla i loro interessi materiali dalla pratica delle virtù che li possono sostenere.
Per quanto li riguarda, quando hanno l’onore di essere dei capi di famiglia, fanno il giusto spazio a Dio, compiendo insieme i principali doveri religiosi: l’accostamento all’eucaristia, l’assistenza agli Uffici in parrocchia, le preghiere della sera. Onorano con un culto speciale i santi patroni; consacrano, con la preghiera, la Messa e la comunione, l’anniversario dei defunti, dei battesimi e dei matrimoni. S’ingegnano a temperare, con pensieri di fede, tutte le gioie e tristezze del focolaio domestico, e a rendere per quanto possibile dolce e gioiosa questa vita religiosa in comune.
La vocazione sacerdotale o religiosa di un figlio è ai loro occhi il più grande onore che Dio possa fare a una famiglia, e i genitori non temono di sollecitarla. Se Dio accorda loro una corona di numerosi figli, essi sanno felicitarsene e benedire; è crescendoli che essi sono assai più utili alla Chiesa e al loro Paese.
Le famiglie non sono isolate le une dalle altre; si aggregano in società e, al suo vertice, si trova la nazione, che le ingloba e fornisce loro un quadro. Come la famiglia, la nazione è voluta da Dio, il quale ci prescrive dei doveri a suo proposito, ricollegabili a due: la sottomissione alle leggi e il patriottismo. Gli oblati ne rendono soprannaturale la pratica mediante un sentimento di fede e tramite la preghiera.
Il loro patriottismo dev’essere intelligente e vivificato dagl’insegnamenti della Chiesa e il rispetto dei suoi diritti.
Opporsi alle leggi ingiuste, alle idee che le motivano e agli uomini che le fanno e le applicano, è servire il proprio Paese. Parimenti si dica nei casi in cui la trasmissione di una legge è un dovere. I cristiani, allora, si liberano da ogni passione per non obbedire che alla propria coscienza, illuminata dalla dottrina della Chiesa.
Gli oblati cercano di conoscere esattamente la natura e l’estensione dei propri doveri nella società, cioè verso la patria, il comune o la parrocchia, la regione, la condizione o la professione. I legami che li uniscono a tali ambiti provvidenziali non sono mai privi di obbligazioni. Occorre esserne coscienti e renderli soprannaturali, penetrandoli di carità cristiana.
Per entrare in questo spirito, gli oblati servono quanto meglio riesce loro gli uomini con i quali vivono, lavorano e si santificano. La loro efficace devozione al Paese, alla città o al villaggio che abitano, alla professione che esercitano, alla condizione cui appartengono, li porta a dispensare un’attività generosa, anziché lasciarla al caso, non importa come, in favore di oziosi di passaggio, e perciò fuori controllo e privi di responsabilità. Si risparmiano così uno spreco peccaminoso delle loro risorse e del loro tempo.
Gli oblati costituiscono una famiglia attorno al monastero; sono dei fratelli. Si riuniscono almeno una volta al mese, e in particolare nelle grandi feste dell’Ordine, per trascorrere assieme una giornata monastica, impiegata nel canto della Messa e dei Vespri, ricevendo gl’insegnamenti del direttore e occupandosi in altri esercizi pii. L’organizzazione di queste riunioni non può essere la medesima per tutti i monasteri. Spetta all’abate o al maestro degli oblati di prepararla e metterla in opera.

Le tradizioni

Le famiglie e le società conservano un insieme di pensieri, di sentimenti, di costumi che i loro membri si trasmettono. Sono le tradizioni, che assicurano la forza e la vita delle società, conservando il presente sotto l’influsso del passato. Nelle nazioni che sono state a lungo cattoliche, queste tradizioni conservano in sé lo spirito cristiano, in una forma e in condizioni che ne facilitano la diffusione.
Le abbazie benedettine sono considerate, a ragione, delle scuole in cui il rispetto delle tradizioni è accuratamente conservato: è un effetto della loro lunga storia.
Gli oblati devono seguire il loro esempio. Costoro si guardano quindi bene contro l’amore eccessivo delle novità, che precipitano le società nell’anarchia e nella rivoluzione, e che rendono gl’individui incapaci di mettere a profitto le esperienze acquisite. I princìpi immutabili che devono reggere le società e disciplinare gl’individui gli bastano, e il modo migliore di non allontanarsene mai è ancora una volta la fedeltà alle tradizioni. Anch’esse non sono che un’applicazione della sapienza alla vita degli uomini in società.
Queste riflessioni non devono sembrare oziose: sono ispirate dalla condizione che la Provvidenza ha dato agli uomini e nella quale si devono santificare, ricercando, al di sopra di tutto, la perfezione cristiana.

[Dom Jean-Martial Besse (1861-1920), Les Oblats de saint Benoît, opuscolo del 1918, poi in Itinéraires, n. 320, febbraio 1988, pp. 73-90 (qui pp. 87-90), trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B. - 6 / fine]

domenica 4 luglio 2010

Domani, la Cristianità


Non indietreggio verso ciò che fu, avanzo verso ciò che resta.
(Gustave Thibon)

Possiamo concepire in due modi l'idea di cristianità. Il primo, fortemente colorato dalla storia, si manifesta mediante uno sguardo sul passato, attraverso i monumenti artistici e letterari, la vita degli eroi e dei santi. Essa appartiene alla virtù di pietà, virtù religiosa e nazionale; si basa sulla memoria e a questo titolo possiamo dire che ogni cultura, ogni civiltà è anzitutto, essenzialmente, memoria. Il secondo modo di concepire l'eredità provoca uno sguardo sull'attualità e sull'avvenire, alla maniera in cui un ragazzo di vent'anni osserva i campi incolti ereditati dal padre deceduto. Egli osserva e ne prende atto. Tuttavia, si guarda bene dall'imitare in maniera servile le modalità di aratura del padre. Poi calcola le proprie risorse e assume la risoluzione di salvare l'eredità. Fosse pure con l'insolenza della sua età, spera di fare meglio.

[...] Ogni cristianità nascente ci collega alla storia della Chiesa primitiva e porta con sé la grazia degli inizi. Eccoci al lavoro. Per il momento, non si tratta ancora del sorgere dell'aurora, forse non è che il barlume dell'alba che lentamente si distingue dalla notte. Ma vedo Perpetua e Felicita: la giovane patrizia che abbraccia la serva, e tutte due che avanzano assieme verso il martirio. E sant'Ignazio, vescovo di Antiochia, che scrive ai cristiani perseguitati di Roma: "Voi avete la regalità dell'amore".

Dubiteremo forse del fatto che si stesse rivolgendo anche a noi?

[Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), Demain la chrétienté, 2a ed., Dismas, Dion-Valmont 1988, p. 7, p. 154 e pp. 168-169, trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B.]

venerdì 2 luglio 2010

Gli oblati benedettini / quinta parte


Penitenza e mortificazione

I digiuni e le astinenze ordinati dalla Chiesa sono le prime e migliori mortificazioni.
Ogni cristiano riceve dalla Provvidenza una somma più o meno grande di pene o di dolori: esse provengono dalla salute, dal carattere, dalle intemperie, dalle durezze della natura, dalle contrarietà dell’esistenza, dalle contraddizioni del mondo circostante, dalle difficoltà inerenti a una situazione, dalla povertà, dal lavoro, e così via. Sono le croci, che puniscono, mortificano, purificano. Gli oblati le accettano con pietà e rassegnazione, lasciandole compiere nella loro anima le salutari purificazioni.
Coloro che ne sentono attrazione fanno bene a imporsi delle penitenze a loro scelta, dopo avere chiesto il parere del proprio confessore. Tutti devono coltivare quello spirito di mortificazione e penitenza che san Benedetto inculca così frequentemente nella Regola e più particolarmente nel capitolo sull’umiltà.
Per ottenere l’umiltà, gli oblati recitano spesso e meditano il Salmo 50 – Miserere mei Deus –, ricorrono con cuore contrito e umiliato all’uso dell’acqua benedetta, e soprattutto si dispongono nel modo migliore a ricevere il sacramento della penitenza.

Il lavoro

San Benedetto vuole che il suo discepolo sia sempre occupato. Docili ai suoi insegnamenti, gli oblati considerano l’ozio come un pericoloso nemico dell’anima, e il lavoro come la condizione dell’uomo durante la vita terrena. Accettano con intera sottomissione alla volontà di Dio e in espiazione dei propri peccati tutto quanto questa legge offre di penoso nella pratica.
Il primo lavoro è sempre quello che incombe all’uomo in ragione della sua situazione di vita e degl’impegni che gli derivano dal suo dovere di stato. Gli occorre lavorare per vivere e per fare vivere i suoi familiari. Gli oblati s’impegnano in ciò con l’impegno e la cura di cui sono capaci; ogni seria negligenza appare loro come un’infrazione alla legge divina.
Ogni uomo ha un’occupazione lavorativa. Quanti non hanno bisogno d’esercitare una professione per guadagnarsi di che vivere sono sottomessi agli obblighi che accompagnano la fortuna: anche questo è un lavoro; assumono dunque delle mansioni utili al bene comune, per le quali gli altri non hanno né il tempo libero né i mezzi per assecondarle.
Compiuti tali doveri, gli oblati si dedicano alla lettura, alle arti o alle opere manuali conformi ai loro gusti e alle loro attitudini, in ciò determinati, tenendo conto delle risorse di cui dispongono. Danno la preferenza alle occupazioni che elevano ulteriormente il loro spirito a Dio e che sono di profitto per la loro famiglia, per i poveri o la società.
Quale che sia il lavoro manuale o intellettuale al quale si dedicano, lo santificano con la preghiera. San Benedetto raccomanda prima del lavoro la recita del versetto “Deus in adiutorium meum intende, Domine ad adiuvandum me festina” (“O Dio, vieni in mio soccorso; Signore, vieni presto in mio aiuto” [RB XXXV,17]), seguito dal Gloria Patri. Terminato il lavoro, si ringrazia il Signore con quest’altro versetto: “Benedictus es, Domine Deus, qui adiuvasti me et consolatus es mei” (“Sii benedetto, Signore Dio, che mi hai aiutato e mi hai consolato” [RB XXXV,16]).
Prima della lettura e dello studio il “Deus in adiutorium” può essere sostituito dall’antifona allo Spirito Santo “Veni Sancte Spiritus, reple tuorum corda fidelium, et tui amoris in eis ignem accende” [“Vieni, o Spirito Santo, riempi il cuore dei tuoi fedeli, e accendi in essi il fuoco del tuo amore”], con versetto e orazione [V. Emitte Spiritum tuum et creabuntur. R. Et renovabis faciem terrae. Oremus: Deus, qui corda fidelium Sancti Spiritus illustratione docuisti: da nobis in eodem Spiritu recta sapere, et de eius semper consolatione gaudere. Per Christum Dominum nostrum. Amen. (V. “Manda il tuo Spirito, o Signore, per una nuova creazione”. R. “E rinnoverai la faccia della terra”. Preghiamo. “O Dio che hai illuminato la mente dei tuoi fedeli con la grazia dello Spirito Santo, concedi a noi di godere sempre la luce della sua verità e di essere consolati dai frutti della sua gioiosa presenza. Per Cristo nostro Signore. Amen.”)].

[Dom Jean-Martial Besse (1861-1920), Les Oblats de saint Benoît, opuscolo del 1918, poi in Itinéraires, n. 320, febbraio 1988, pp. 73-90 (qui pp. 85-87), trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B. - 5 / continua]