venerdì 29 gennaio 2010

Ai monaci e alle monache dell'Ordine di San Benedetto / seconda parte


Così, è con vera angoscia che ci rivolgiamo a voi quando vediamo demolire con precipitazione ciò che ha costituito oggetto di venerazione per molti secoli. Perché, infine, per quanto siamo laici, abbiamo il diritto di dire quello che pensiamo delle riforme che, per quanto imposte in nome del Concilio, ci sembrano spesso una semplice consacrazione dell'anarchia che ha regnato nella Chiesa in tema di liturgia da un certo numero di anni. Ci rivolgiamo a voi, monaci e monache, per supplicarvi di salvare il tesoro della Chiesa. Abbiamo un gran numero di obbligazioni nei confronti dell'Ordine benedettino, che è stato per noi una fonte incomparabile di grazie, e abbiamo così profondamente percepito, ogni volta che siamo penetrati nei vostri monasteri, la fiamma spirituale che da voi s'irradiava, sicché eravamo convinti che la santa liturgia e il canto gregoriano avrebbero trovato in voi degli zelanti difensori. Quale non fu il nostro stupore e la nostra tristezza quando fummo resi edotti dalla Lettera apostolica Sacrificium laudis [di Papa Paolo VI, "sulla Lingua latina da usare nell'Ufficio Liturgico corale da parte dei religiosi tenuti all'obbligo del coro", del 15 agosto 1966]:
Rivela il Santo Padre: "Dalle lettere di alcuni di voi e da parecchie missive giunteci da varie parti siamo venuti a conoscenza che i cenobi o le province da voi dipendenti - parliamo solo di quelle di rito Latino - hanno adottato differenti modi di celebrare la divina Liturgia: alcuni sono molto attaccati alla lingua Latina, altri nell'Ufficio corale vanno chiedendo l'uso delle lingue nazionali e vogliono inoltre che il canto cosiddetto Gregoriano sia sostituito qua e là con canti oggi in voga; altri addirittura reclamano l'abolizione della lingua latina stessa. Dobbiamo confessare che tali richieste Ci hanno non lievemente colpiti e non poco rattristati; e vien da chiedersi da dove sia sorta e, perché si sia diffusa questa mentalità e questa insofferenza in passato sconosciuta".
Forse ritenete che la liturgia e il canto gregoriano siano questioni secondarie, ma sembra proprio che il sommo pontefice giudichi diversamente, a tal punto la sua lettera era colma di emozione e dolore:
"Quale lingua, quale canto vi sembra che possa nella presente situazione sostituire quelle forme della pietà cattolica che avete usato finora? Bisogna riflettere bene, perché le cose non diventino peggiori dopo aver rinnegato questa gloriosa eredità. (...) Preghiamo dunque tutti gli interessati, di ponderare bene quello che vorrebbero abbandonare, e di non lasciare inaridire la fonte alla quale hanno fino ad oggi abbondantemente attinto. Senza dubbio la lingua latina crea qualche, e forse non lieve, difficoltà ai novizi della vostra sacra milizia. Ma questa, come sapete, non è da ritenere tale che non possa essere superata e vinta, soprattutto tra voi che, più lontani dagli affanni e dallo strepito del mondo, potete più facilmente dedicarvi allo studio. Del resto quelle preghiere permeate di antica grandezza e nobile maestosità continuano ad attrarre a voi i giovani chiamati all'eredità del Signore; in caso contrario, una volta eliminato il coro in questione, che supera i confini delle Nazioni ed è dotato di mirabile forza spirituale, e la melodia che scaturisce dal profondo dell'animo, dove risiede la fede e arde la carità, il canto gregoriano cioè, sarà come un cero spento che non illumina più, non attrae più a sé gli occhi e le menti degli uomini".

[André Charlier (1895-1971), Aux moines et aux moniales de l'Ordre de saint Benoît, articolo-appello del 1967 comparso nel volume Le chant grégorien edito da Dominique Martin Morin (Bouère), di cui una prima versione risale al marzo 1965 (Itinéraires, n. 91), poi in Itinéraires, n. 246, settembre-ottobre 1980, pp. 78-84 (qui pp. 80-82), trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B. - 2 / continua]

mercoledì 20 gennaio 2010

La perenne lezione della teologia monastica

Catechesi di Benedetto XVI di mercoledì 28 ottobre 2009.

Cari fratelli e sorelle,
oggi mi soffermo su un’interessante pagina di storia, relativa alla fioritura della teologia latina nel secolo XII, avvenuta per una serie provvidenziale di coincidenze. Nei Paesi dell’Europa occidentale regnava allora una relativa pace, che assicurava alla società sviluppo economico e consolidamento delle strutture politiche, e favoriva una vivace attività culturale grazie pure ai contatti con l’Oriente. All’interno della Chiesa si avvertivano i benefici della vasta azione nota come “riforma gregoriana”, che, promossa vigorosamente nel secolo precedente, aveva apportato una maggiore purezza evangelica nella vita della comunità ecclesiale, soprattutto nel clero, e aveva restituito alla Chiesa e al Papato un’autentica libertà di azione. Inoltre si andava diffondendo un vasto rinnovamento spirituale, sostenuto dal rigoglioso sviluppo della vita consacrata: nascevano e si espandevano nuovi Ordini religiosi, mentre quelli già esistenti conoscevano una promettente ripresa.
Rifiorì anche la teologia acquisendo una più grande consapevolezza della propria natura: affinò il metodo, affrontò problemi nuovi, avanzò nella contemplazione dei Misteri di Dio, produsse opere fondamentali, ispirò iniziative importanti della cultura, dall’arte alla letteratura, e preparò i capolavori del secolo successivo, il secolo di Tommaso d’Aquino e di Bonaventura da Bagnoregio. Due furono gli ambienti nei quali ebbe a svolgersi questa fervida attività teologica: i monasteri e le scuole cittadine, le scholae, alcune delle quali ben presto avrebbero dato vita alle Università, che costituiscono una delle tipiche “invenzioni” del Medioevo cristiano. Proprio a partire da questi due ambienti, i monasteri e le scholae, si può parlare di due differenti modelli di teologia: la “teologia monastica” e la “teologia scolastica”. I rappresentanti della teologia monastica erano monaci, in genere Abati, dotati di saggezza e di fervore evangelico, dediti essenzialmente a suscitare e ad alimentare il desiderio amoroso di Dio. I rappresentanti della teologia scolastica erano uomini colti, appassionati della ricerca; dei magistri desiderosi di mostrare la ragionevolezza e la fondatezza dei Misteri di Dio e dell’uomo, creduti con la fede, certo, ma compresi pure dalla ragione. La diversa finalità spiega la differenza del loro metodo e del loro modo di fare teologia.
Nei monasteri del XII secolo il metodo teologico era legato principalmente alla spiegazione della Sacra Scrittura, della sacra pagina per esprimerci come gli autori di quel periodo; si praticava specialmente la teologia biblica. I monaci, cioè, erano tutti devoti ascoltatori e lettori delle Sacre Scritture, e una delle principali loro occupazioni consisteva nella lectio divina, cioè nella lettura pregata della Bibbia. Per loro la semplice lettura del Testo sacro non bastava per percepirne il senso profondo, l’unità interiore e il messaggio trascendente. Occorreva, pertanto, praticare una “lettura spirituale”, condotta in docilità allo Spirito Santo. Alla scuola dei Padri, la Bibbia veniva così interpretata allegoricamente, per scoprire in ogni pagina, dell’Antico come del Nuovo Testamento, quanto dice di Cristo e della sua opera di salvezza.
Il Sinodo dei Vescovi dell’anno scorso sulla “Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa” ha richiamato l’importanza dell’approccio spirituale alle Sacre Scritture. A tale scopo, è utile far tesoro della teologia monastica, un’ininterrotta esegesi biblica, come pure delle opere composte dai suoi rappresentanti, preziosi commentari ascetici ai libri della Bibbia. Alla preparazione letteraria la teologia monastica univa dunque quella spirituale. Era cioè consapevole che una lettura puramente teorica e profana non basta: per entrare nel cuore della Sacra Scrittura, la si deve leggere nello spirito in cui è stata scritta e creata. La preparazione letteraria era necessaria per conoscere l’esatto significato delle parole e facilitare la comprensione del testo, affinando la sensibilità grammaticale e filologica. Lo studioso benedettino del secolo scorso Jean Leclercq ha così intitolato il saggio con cui presenta le caratteristiche della teologia monastica: L’amour des lettres et le désir de Dieu (L’amore delle parole e il desiderio di Dio). In effetti, il desiderio di conoscere e di amare Dio, che ci viene incontro attraverso la sua Parola da accogliere, meditare e praticare, conduce a cercare di approfondire i testi biblici in tutte le loro dimensioni. Vi è poi un’altra attitudine sulla quale insistono coloro che praticano la teologia monastica, e cioè un intimo atteggiamento orante, che deve precedere, accompagnare e completare lo studio della Sacra Scrittura. Poiché, in ultima analisi, la teologia monastica è ascolto della Parola di Dio, non si può non purificare il cuore per accoglierla e, soprattutto, non si può non accenderlo di fervore per incontrare il Signore. La teologia diventa pertanto meditazione, preghiera, canto di lode e spinge a una sincera conversione. Non pochi rappresentanti della teologia monastica sono giunti, per questa via, ai più alti traguardi dell’esperienza mistica, e costituiscono un invito anche per noi a nutrire la nostra esistenza della Parola di Dio, ad esempio, mediante un ascolto più attento delle letture e del Vangelo specialmente nella Messa domenicale. È importante inoltre riservare un certo tempo ogni giorno alla meditazione della Bibbia, perché la Parola di Dio sia lampada che illumina il nostro cammino quotidiano sulla terra.
La teologia scolastica, invece, - come dicevo - era praticata nelle scholae, sorte accanto alle grandi cattedrali dell’epoca, per la preparazione del clero, o attorno a un maestro di teologia e ai suoi discepoli, per formare dei professionisti della cultura, in un’epoca in cui il sapere era sempre più apprezzato. Nel metodo degli scolastici era centrale la quaestio, cioè il problema che si pone al lettore nell’affrontare le parole della Scrittura e della Tradizione. Davanti al problema che questi testi autorevoli pongono, si sollevano questioni e nasce il dibattito tra il maestro e gli studenti. In tale dibattito appaiono da una parte gli argomenti dell’autorità, dall’altra quelli della ragione e il dibattito si sviluppa nel senso di trovare, alla fine, una sintesi tra autorità e ragione per giungere a una comprensione più profonda della parola di Dio. Al riguardo, san Bonaventura dice che la teologia è “per additionem” (cfr. Commentaria in quatuor libros sententiarum, I, proem., q. 1, concl.), cioè la teologia aggiunge la dimensione della ragione alla parola di Dio e così crea una fede più profonda, più personale e quindi anche più concreta nella vita dell’uomo. In questo senso, si trovavano diverse soluzioni e si formavano conclusioni che cominciavano a costruire un sistema di teologia. L’organizzazione delle quaestiones conduceva alla compilazione di sintesi sempre più estese, cioè si componevano le diverse quaestiones con le risposte scaturite, creando così una sintesi, le cosiddette summae, che erano, in realtà, ampi trattati teologico-dogmatici nati dal confronto della ragione umana con la parola di Dio. La teologia scolastica mirava a presentare l’unità e l’armonia della Rivelazione cristiana con un metodo, detto appunto “scolastico”, della scuola, che concede fiducia alla ragione umana: la grammatica e la filologia sono al servizio del sapere teologico, ma lo è ancora di più la logica, cioè quella disciplina che studia il “funzionamento” del ragionamento umano, in modo che appaia evidente la verità di una proposizione. Ancora oggi, leggendo le summae scolastiche si rimane colpiti dall’ordine, dalla chiarezza, dalla concatenazione logica degli argomenti, e dalla profondità di alcune intuizioni. Con linguaggio tecnico, viene attribuito ad ogni parola un preciso significato e, tra il credere e il comprendere, viene a stabilirsi un reciproco movimento di chiarificazione.
Cari fratelli e sorelle, facendo eco all’invito della Prima Lettera di Pietro, la teologia scolastica ci stimola ad essere sempre pronti a rispondere a chiunque domandi ragione della speranza che è in noi (cfr. 3,15). Sentire le domande come nostre e così essere capaci anche di dare una risposta. Ci ricorda che tra fede e ragione esiste una naturale amicizia, fondata nell’ordine stesso della creazione. Il Servo di Dio Giovanni Paolo II, nell’incipit dell’Enciclica Fides et ratio scrive: “La fede e la ragione sono come le due ali, con le quali lo spirito umano s'innalza verso la contemplazione della verità”. La fede è aperta allo sforzo di comprensione da parte della ragione; la ragione, a sua volta, riconosce che la fede non la mortifica, anzi la sospinge verso orizzonti più ampi ed elevati. Si inserisce qui la perenne lezione della teologia monastica. Fede e ragione, in reciproco dialogo, vibrano di gioia quando sono entrambe animate dalla ricerca dell’intima unione con Dio. Quando l’amore vivifica la dimensione orante della teologia, la conoscenza, acquisita dalla ragione, si allarga. La verità è ricercata con umiltà, accolta con stupore e gratitudine: in una parola, la conoscenza cresce solo se ama la verità. L’amore diventa intelligenza e la teologia autentica sapienza del cuore, che orienta e sostiene la fede e la vita dei credenti. Preghiamo dunque perché il cammino della conoscenza e dell’approfondimento dei Misteri di Dio sia sempre illuminato dall’amore divino.

domenica 17 gennaio 2010

Il segreto dei monaci / ultima parte

Risponderò che la Chiesa, sotto l'aspetto umano e temporale che implica la sua duplice natura, può conoscere talune cadute, ma l'istituzione monastica rinasce senza fine dalle sue ceneri, ed è precisamente ai monaci che è affidata la missione di rappresentare la santità della Chiesa, di salvare, nel mezzo dei peggiori compromessi con il mondo, il puro annuncio del Regno che viene. Attraverso ciò il monachesimo raggiunge la sua vera grandezza, perché è semplicemente e d'un solo colpo che esso assume vocazione personale e vocazione ecclesiale: il monaco, nel suo faccia a faccia di una vita eterna già iniziata, guarda Dio.
Ma per vedere Dio occorre morire.
La vocazione monastica comporta un rischio di morte che gli è essenziale. Gli antichi lo assimilavano al sacrificio con il fuoco, quando non rimane nulla della vittima. Con maggiore bonomia un vecchio monaco ci disse, nel giorno dei nostri voti di religione: "Voi firmate in calce a una pagina bianca; in ogni momento, Dio s'incarica di riempirla". Se quel giorno mi fosse stato predetto che dopo avere salvato i sacri impegni della mia professione, mi sarei occupato della salvezza dei giovani ragazzi che mi avrebbero raggiunto, e che l'afflusso dei postulanti mi avrebbe costretto a costruire un grande monastero di tipo medievale, che avrei mandato i miei figli più cari verso le terre lontane del Brasile, e poi che un'altra sfida - lacerante - mi avrebbe obbligato a scegliere di rimanere fedele alla verità cattolica integrale, al costo di una dolorosa relegazione del mio Ordine; avrei avuto il coraggio di firmare? Vi è qui il segreto di Dio e di questo dialogo sottile fra la grazia e la libertà, che è probabilmente la sola avventura importante quaggiù. Ma si attornia di silenzio. E da questo silenzio si eleva un canto, l'unico che ci esprime totalmente: Magnificat!

[Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), Le secret des moines, postfazione a Marc Dem, Dom Gérard et l'aventure monastique, Plon, Parigi 1988, pp. 193-198, ripreso in La vocation monastique, Editions Sainte-Madeleine, Le Barroux 1990, pp. 39-47, e infine in Les amis du monastère, n. 126, giugno 2008, pp. 5-7 (qui pp. 6-7), trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B. - 4 / fine]

sabato 16 gennaio 2010

Il segreto dei monaci / terza parte



E inoltre il seguente, che considero come la nervatura della vocazione monastica, perché san Paolo vi svela la sua vita e la definisce come una corsa:
"Non ho certo raggiunto la mèta, non sono arrivato alla perfezione; ma mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch'io sono stato conquistato da Cristo Gesù. Fratelli, io non ritengo ancora di averla conquistata. So soltanto questo: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la mèta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù" (Fil 3, 12-14).
Allora l'esistenza non procede più come un tempo, a seconda degli incontri e degli accidenti della vita. Gli eventi fanno spazio all'Avvenimento, il relativo svanisce davanti all'Assoluto, il tempo perde il suo spessore e si fonde nell'eterno, l'amaro disincanto delle creature muta in dolcezza di appartenere tutto a Dio.
Immagino un'obiezione: dove mettete la sofferenza? La vita del monaco progredisce senza storia, andando tranquillamente verso l'ultimo riposo come le acque di Siloe che scorrono in silenzio? No, vi sono degl'incidenti dello spirito, dei drammi nel fondo dell'anima, che nessuno vede; bisogna fare i conti con l'uniformità della vita, i silenzi di Dio, la rinuncia che costa tanto quanto offre. Un monaco [Samuel Stehman O.S.B.] che aveva scritto, per obbedienza, la storia della sua anima aveva intitolato il suo scritto Voyage à l'ancre ("Viaggio sul fondale" [Casterman, Parigi 1949, préface di Gustave Thibon]). Un altro, italiano [Silvestro Maria Dogliotti O.S.B.], aveva dato per titolo alle sue memorie Domani ricomincia la mia vita [Tipografia dei Monasteri, Subiaco 1953]. Questo può essere inteso o come una confidenza che vela la prova del terribile quotidiano, ovvero come l'annuncio di un'aurora ogni giorno più bella. Mi piace questa accezione. A condizione, come diceva Bernanos, di avere la pazienza di andare ogni giorno fino al fondo della notte.
La pazienza, ecco la parola chiave. Si tratta della virtù dei soldati, dei monaci e dei martiri. Di tutti coloro i quali non scelgono i loro tempi. Possiamo dire che da quattordici secoli la virtù della pazienza congiunta al desiderio fa del monaco una sentinella in piedi davanti all'orizzonte del tempo, dove si confrontano gl'imperi. Tuttavia, mi direte, se anche la Chiesa è soggetta alle catastrofi della storia, com'è possibile che l'istituzione monastica non sia ferita a morte?

[Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), Le secret des moines, postfazione a Marc Dem, Dom Gérard et l'aventure monastique, Plon, Parigi 1988, pp. 193-198, ripreso in La vocation monastique, Editions Sainte-Madeleine, Le Barroux 1990, pp. 39-47, e infine in Les amis du monastère, n. 126, giugno 2008, pp. 5-7 (qui p. 6), trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B. - 3 / segue]

venerdì 15 gennaio 2010

Una lettura teologica della Regula Benedicti / ultima parte

Il primato di Cristo. Nihil amori Christi praeponere (RB 4, 21). Indubbiamente san Benedetto sa che la nostra affettività, che il nostro impegno si ramifica in tanti rapporti. Il cuore del cristiano è il cuore di uno che ama tutti e ama tutto, tranne il peccato. Là dove c’è il peccato, e quindi dove c’è la menzogna, là dove c’è la mancanza di carità, non ama; ma tutto quello che c’è è oggetto dell’amore di un cristiano. Però in questa ramificazione affettiva il primato dev’essere quello di Cristo. Non può amare di più qualche altra cosa. Cristo non lo si deve posporre mai, ma deve avere l’assoluta precedenza. In fondo non è che l’affermazione già fatta. Se nessuno e nulla deve stare più a cuore di Cristo, è chiaro che nessuno deve precedere Cristo nell’impegno affettivo del monaco.
Per capire bene la Regula Benedicti bisogna andare a pescare queste che non sono tanto delle frasi, sono molto di più. Sono i dati principali; poi per il carattere pratico troviamo capitoli e capitoli, per esempio, su come distribuire la salmodia.
La rinuncia a se stesso vuol dire il collocare se stessi non in funzione assoluta ma in funzione di dipendenza rispetto a Gesù Cristo. Abnegare semetipsum sibi ut sequatur Christi. Per la sequela di Cristo, quindi il primato di Gesù diventa operativo, mette in moto una scelta, un cammino. Questo è ciò che caratterizza il discepolo di Gesù. Il cristiano è uno che precisamente dice di no a se stesso per seguire Cristo. Il monaco fa il cristiano mettendo in pratica questo mandato evangelico: diventare discepolo del Signore. Il monaco è il discepolo del Signore.
La sequela di Cristo come condizione e come esperienza di libertà o di liberazione. La rinuncia non vale per se stessa; ha valore se libera il cuore, se rende spedita la vita.
Altro elemento che mette in relazione con le radici cristiane evangeliche è la presentazione della vita monastica come un dominicum servitium, un mettersi a servire Dio, il Signore. Il concetto del servo è importante. Non con quella connotazione negativa che può avere il concetto di servo. Il servire Cristo, l’essere al servizio di Dio, l’essere alla schola dominici servitii. Il monastero è il luogo dove si impara a essere servi di Dio, servi del Signore. Il tema del servizio al Signore è un tema propriamente evangelico, però è un servizio di liberazione, che promuove l’identità, dice tutta la dipendenza del Signore e l’umiltà profonda. Possiamo evocare nel testo del Prologo 45 tutta la tematica evangelica del servizio, che domanda fedeltà, operosità, vigilanza, attesa della remunerazione dal Signore; servizio che lega la vita al comando di Dio. Servizio che ci fa diventare operarii Domini (Prologo). Allora si è in monastero per lavorare, ma la laboriosità monastica ha una sua caratteristica tutta particolare: il monaco non è colui il quale ha trovato uno stato tranquillo di vita. La Regola potrebbe essere un pericolo nella misura in cui è osservata: se l’osservanza dovesse creare una specie di passività senza iniziativa, occorre inventiva all’interno del monastero; non vuol dire capriccio, arbitrio. La laboriosità monastica, l’iniziativa, richiama la parabola di coloro che hanno ricevuto dei talenti e operosamente li hanno trafficati rispetto a colui il quale lo ha sepolto perché così non ha né lavorato, né rischiato. I monaci sono degli operai del Signore e quindi lavorano, si danno da fare. Proprio perché è Gesù il Signore, non si pretende nessun anticipo di paga e soprattutto non si aspetta di essere remunerati da altri signori. C’è un solo Signore, proprio perché lui sta al primo posto e consuma tutta la potenza affettiva del monaco, allora dal Signore ci si aspetta tutto, quando lui verrà. Da qui viene questa evangelica vigilanza, questa attesa che torni lui perché sarà lui a remunerare. Questo viene a introdurre nella vita spirituale del monaco un senso di indipendenza profonda, indipendenza interiore perché è il mio Signore, il mio datore di lavoro che mi giudicherà e mi remunererà. È lui che devo aspettare, tutto quanto è fatto al di fuori di questa prospettiva è segno che altri padroni prendono il posto di lui, allora il mio lavoro è fatto per loro, ecco allora l’ansia di essere subito pagato. Ma Gesù remunera alla fine del mondo, alla fine della vita. Ecco allora la trasposizione del senso della vita monastica in senso escatologico, alla fine.
La presentazione della vita monastica come un impegno militare. I monaci sono dei servi del Signore, sono operarii Domini. In Prologo 3 la prospettiva, l’immagine diventa quella della vita monastica come un servizio militare, una milizia. Domino Christo vero regi militari. La visione della vita cristiana come lotta, impegno. San Paolo mette in luce questa necessità dell’equipaggiamento militare spirituale del cristiano. Il monaco andando in monastero sa che non affronta una vita serena, ma una vita militare, dove la lotta è lo stato normale ma dove le armi con cui si combatte sono le armi evangeliche; dove il re, il conduttore è Gesù Cristo. Cristo Re: il tema della regalità di Cristo che tornerà particolarmente nell’Ordine dei Gesuiti, in realtà è preceduto nella Regula Benedicti. La vita monastica è vista come un militare agli ordini, alle dipendenze di Cristo Re, di Cristo vero Re.
Occorre sostanziare, animare di valore evangelico questa immagine, la quale è una presentazione autentica di Gesù in quella sua regalità che sorprendentemente è la regalità del servizio ultimo, la regalità della croce. Regnavit a ligno Deus. Cristo vive e rappresenta la sua regalità attraverso la croce, cioè attraverso il servizio. Il Dominicum servitium è la regalitas domenica. Vivendo la vita monastica come un servizio, si vive la vita monastica come condivisione della regalità del Signore. Il luogo, la forma della regalità che è servizio e del servizio regale è la carità, la quale porta sempre l’impronta della croce. Gesù si è mostrato re proprio morendo in croce; la croce che diventa trono. Gesù che è presentato da Pilato con la corona di spine, lo scettro in mano, con la canna, e su una sedia come era quella del giudice. L’apparenza è la burla, la realtà è invece la regalità autentica secondo il disegno di Dio. Il monaco si mette a seguire Cristo Re sulla strada precisamente della croce e del servizio della carità. La sua militanza è dietro a questo Re.
La vita monastica come una lotta, un’agonia sostenuta, come dice Paolo, nei confronti delle potenze delle tenebre. Del resto Gesù stesso parlava delle potenze delle tenebre, contro cui ha lottato attraverso la sua passione. Il monaco non è uno che s’illuda che la vita spirituale sia un’esperienza tranquilla; egli si dispone alla lotta perché questa fa parte della definizione della figura della vita cristiana e quindi non può non far parte, questo aspetto agonistico, della vita monastica. La vita monastica è una vita di lotta, dove si vive la condizione del militare, della milizia.
Proprio perché Cristo è amato più di tutti, sta al primo posto; perché lui è il Re e lo si vuole seguire nell’operoso discepolato, ecco allora che il monaco si dispone a partecipare alle passioni di Cristo, passionibus Christi partecipare, partecipazione ai misteri di Gesù Cristo (Prologo 50). Nella misura in cui l’affetto che lega Cristo vuol essere vero, allora non può non avere come risultanza la condivisione dei misteri e particolarmente la condivisione del mistero della passione. Il monaco manifesta tutta la sua disponibilità a rivivere la passione di Cristo mediante una imitazione reale. Il legame affettivo prende consistenza e verità in questo essere disposti, in questo volere prendere parte alla morte del Signore.
Altro squarcio evangelico propriamente cristiano: bisogna prendere la propria croce e andar dietro a Cristo crocifisso, al Cristo che va in croce. È così che si è discepoli. Quanto a Paolo, presenta proprio la vita cristiana come una reviviscenza del mistero della morte di Gesù per la sua risurrezione. Secondo Paolo, il cristiano è uno che è dentro, installato, collocato dentro la passione del Signore, questa è la conseguenza o la natura realistica del battesimo. La vita cristiana allora è una vita da crocifisso. Paolo si presenta come colui dove la passione di Cristo si rivive, non soltanto, non compiutamente nel sacramento dell’Eucaristia, ma nel sacramento dell’Eucaristia che ha la forza di attrarre a far si che la passione di Cristo sia presente nella vita. Tutta la consumazione della vita monastica come passione del Signore.
La vita monastica è un ritorno a Dio da cui (Prologo 2) ci si è allontanati col peccato, attraverso il cammino laborioso dell’obbedienza, attraverso la comunione con il mistero della passione del Signore, della sequela di lui attraverso il servizio e la militanza in dipendenza da Cristo Re.
Chi è il soggetto della vita monastica? È l’uomo alienato che è in viaggio verso la sua identità e l’uomo difforme inteso a diventare conforme, è l’uomo lontano che intende diventare vicino, è l’Adamo vecchio che vuol trasformarsi nell’Adamo nuovo. In maniera sintetica, dal capitolo 58,7: il monaco è colui il quale veramente e non illusoriamente, operosamente e non pigramente, cerca Dio. Cerca Dio che fu invece disatteso da Adamo, cerca di vedere Dio da cui invece Adamo si nascose a motivo del peccato. La vita monastica è tutta una ricerca di Dio.
“Ascolta, figlio mio, i precetti del maestro, piega l’orecchio del tuo cuore. Accogli con docilità [con gioia] e metti concretamente in pratica gli ammonimenti che ti vengono da un padre pieno di comprensione perché tu possa per la fatica dell’obbedienza [da notare che la passione di Cristo è presentata come obbedienza al Padre] tornare a colui dal quale ti eri allontanato per l’inerzia della disobbedienza, [il peccato, il distacco dal mistero di Dio, dalla sua volontà]. Queste mie parole si rivolgono a te che deciso a rinunziare alle tue volontà per prestare servizio sotto il vero re, Cristo Signore, sei disposto a brandire le armi dell’obbedienza invincibili e gloriose sopra tutto”.

[Trascrizione di una conferenza spirituale del prof. don Inos Biffi presso il Monastero San Benedetto di Bergamo / 3 - fine]

martedì 12 gennaio 2010

Una lettura teologica della Regula Benedicti / seconda parte

I monaci nascono nel battesimo, come ogni cristiano nasce nel battesimo. E sono quindi tutti intesi a vivere la grazia battesimale per la quale sono associati radicalmente ai comuni cristiani. Consapevoli, non di sovrastrutture ma della essenzialità. Ho l’impressione che sia nella teoria, sia nella prassi della vita religiosa in generale, non raramente si trascurano i principi essenziali e normali per focalizzare l’attenzione, non dico a ciò che è periferico, ma a ciò che è più eccezionale e in fondo più secondario.
Credo che quando in un monastero si osservano i dieci comandamenti e si mangia da cristiani, il monastero va bene e la vita spirituale è un trionfo. Perché non è facile per nessuno osservare i dieci comandamenti e alla difficoltà dell’osservanza dei dieci comandamenti non è sottratto nessuno, nemmeno il Papa! Tutti i cristiani fanno fatica a osservare i dieci comandamenti e se si osservano si sta correndo sulla strada della perfezione; perché c’è il rischio che tutti un po’ abbagliati dalla mèta dei consigli, si trascurino i comandi; mentre penso che i consigli siano la riuscita dei comandamenti. Più uno vive i comandamenti, li matura dentro di sé e più si trova sulla strada dei consigli, ma ciò che conta sono i comandamenti. Che non avvenga per esempio che ci sia un’alta e perfetta regola sulla contemplazione mistica e poi si coltiva il risentimento, non si conceda il perdono. Questo fa parte dei comandamenti, cioè di quegli elementi elementari che sono propri della vita cristiana. Ecco l’importanza alle radici. Per questo la vita monastica trova le sue radici precisamente nel Vangelo. La grazia del monastero è la grazia evangelica. Non che si porta a perfezione in maniera unica e assoluta nel monastero, ma che si porta a perfezione in maniera singolare nel monastero. Perché la stessa grazia che tutti condividiamo e che è dono dello Spirito santo, che è il dono del corpo e del sangue di Cristo è fatta ai coniugi cristiani i quali tendono alla perfezione evangelica secondo lo stile della vita sponsale, che ha a suo suggello, impulso sacramentale il sacramento del matrimonio.
Per evitare fraintendimenti e illusioni catastrofiche: che non avvenga che si dissipi la vita nell’illusione dei consigli che non hanno a fondamento i comandamenti; questo sarebbe veramente lo sfacelo.
La seconda cosa: mangiare da cristiani! Vuol dire mangiare come le persone normali, le quali sanno che il corpo è un dono di Dio, esprime lo spirito e il nutrimento è per la libertà, per la maturazione, per la carità, per la convivenza e la comunione.
Che non avvenga che ci siano digiuni che estenuano il corpo e rendono pettegola, insofferente e isterica l’anima. Allora ne verrebbe l’impigrimento e quando c’è l’impigrimento c’è la mancanza di carità e l’egoismo. Anche lì c’è la discretio. Allora, certo: la sobrietà; ma insieme anche al gusto. Nella vita della beata Caterina da Pallanza, una delle fondatrici delle Romite ambrosiane, si legge che per fare penitenza copriva di cenere il pesce. Ma al di là dell’intenzione, che io rispetto, questa è un’offesa non tanto al pesce - che è morto e non se ne accorge -, quanto invece al Signore che ha fatto i pesci e al tuo stomaco. Avere uno stomaco che funziona è segno che si è nella condizione di far funzionare lo stomaco degli altri. Far funzionare lo stomaco degli altri è la condizione per una vita comunitaria serena o quanto meno umana e vivibile; altrimenti non è possibile.
Il valore della Regula Benedicti è la normalità.
La difficoltà vera della prassi è la difficoltà di essere cristiani. Tutto è inteso a far vivere queste virtù che naturalmente, poiché mosse dallo Spirito santo, non hanno un termine; ecco perché parlavo di maturazione. La vita monastica è attraversata dalla passione verso Gesù Cristo - vedremo l’impostazione cristologia, quasi cristocentrica, della Regula Benedicti -, è attraversata da questo desiderio di crescere a partire dai fondamenti e di arrivare alla perfezione cristiana. E infatti se noi la scrutiamo con attenzione - la Regula Benedicti non si pone come raffinata nell’elaborazione teorica, che non c’è -, ci sono invece dei dati precisi, che direi sono i dati evangelici fondamentali.
- Elementi principali nella Regula Benedicti.
- Elementi sullo sfondo della teologia cristiana, dell’esperienza della dottrina cristiana.
- Commento analitico.
Il primo elemento fondamentale che unifica la Regula Benedicti è l’amore a Cristo. I monaci chi sono? “His qui nihil sibi a Christo carius aliquid existimant” (RB 5,2), espressione che ha dentro di sé qualcosa di affettuoso. Sono coloro i quali ritengono “che non hanno niente più caro di Cristo”. Il monaco è colui a cui nessuno e nulla sta più a cuore di Gesù Cristo. È uno al quale Cristo sta ai vertici dell’affetto. Il monaco è uno che non ama nessuno più di Gesù Cristo. La ragione del monaco, l’anima del suo impegno, la forza del suo vivere, l’impronta della sua esistenza è Gesù Cristo.
Questa sottolineatura affettiva fa sì che Cristo emerga non tanto come dottrina, ma come persona. Non si può avere cara una dottrina, si ha cara una persona. Certo una dottrina la si può condividere, perché è vera, piace, è consona; la si può professare, se ne fa oggetto di studio e d’insegnamento. Una persona è qualcosa di più.
L’amore totale a Cristo non è forse ciò che distingue il cristiano? Chi è il cristiano? Non è forse uno per il quale Gesù Cristo è tutto? E quindi ogni cristiano può essere definito “qui nihil sibi a Christo carius aliquid existimant”.
Proprio perché Gesù Cristo rappresenta l’attrattiva più profonda unificante del monaco, allora quale sarà la sua preoccupazione fondamentale? Di conoscere Gesù Cristo. Ecco, allora: non è tanto di conoscere la Regula Benedicti di per sé, ma in quanto è strumento per fissare l’attenzione della mente e la potenza affettiva del cuore su Gesù Cristo. Abbiamo obiettivamente l’indicazione per il monaco di aprire il grande libro della sua vita monastica, che non è la Regola, ma la Scrittura, la Parola di Dio che si unifica in Gesù Cristo. Ecco allora che acquisisce tutto il suo significato la lectio divina come contatto vivo con la Parola di Dio, che è Gesù Cristo, proprio perché Cristo è colui che si ama assolutamente più di tutti, assolutamente più di tutto. C’è l’indicazione a meditare molto sulle lettere di Paolo e sul Vangelo di Giovanni perché esprimono precisamente il mistero di Cristo in quanto è termine di attrattiva. Pensiamo al Vangelo giovanneo tutto fondato sulla carità che prima di essere condivisione fraterna è passione cristologica e pensiamo a Paolo per il quale Cristo è tutto, Cristo è vivere, per il quale Paolo è disposto a perdere tutto e che ci parla della bellezza e preziosità di Cristo e del suo mistero, che ci parla di profondità, di altezza, di larghezza del mistero di Cristo.
C’è una parentela fra san Tommaso d’Aquino e san Benedetto. Dai cinque ai quattordici anni il primo fu monaco a Montecassino. San Tommaso commentando la Lettera ai Colossesi dice: “Come uno il quale è alla ricerca della scienza, se trova un libro che la contiene tutta altro non desidererebbe che di conoscere quel libro, così noi altro non dobbiamo desiderare che di leggere il libro che è Gesù Cristo perché nel libro che è Gesù Cristo è contenuta tutta quanta la sapienza”. Sappiamo dei colloqui fra san Tommaso e Gesù Cristo, e dalla biografia scritta da Guglielmo come alla fine della vita egli proclamava che per Gesù aveva vegliato, aveva studiato, aveva insegnato. Altro premio non desiderava che lui. Aliam mercedem non concupivit.
Siamo in perfetta sintonia con questa presentazione di Cristo nella vita monastica: nessuno deve stare più a cuore di lui, che è poi la definizione della vita cristiana. Non è pensabile che un cristiano possa amare qualche cosa di più di Gesù Cristo; neanche lo sposo deve amare la sposa più di Gesù Cristo, neanche la sposa può amare lo sposo più di Gesù Cristo. Non si amano i genitori, i figli più di Cristo, ma in Gesù Cristo. Gesù ha chiaramente affermato l’assolutezza dell’affezione della scelta nei suoi confronti di fronte al padre, alla madre, ai figli, a tutto perché Egli veramente deve rappresentare il centro dell’attrattiva.

[Trascrizione di una conferenza spirituale del prof. don Inos Biffi presso il Monastero San Benedetto di Bergamo / 2 - continua]

domenica 10 gennaio 2010

Il segreto dei monaci / seconda parte


Così confessiamo di assumere assai moderatamente la parte che ci compete, secondo il punto di vista dell'uomo, nell'avvenimento di un mondo civilizzato. I monaci hanno fatto l'Europa, ma non l'hanno fatta deliberatamente. La loro avventura è anzitutto, e direi quasi esclusivamente, un'avventura interiore, il cui unico motivo era la sete. La sete d'assoluto. La sete di un altro mondo, che il potere educatore della liturgia accendeva al punto di orientare lo sguardo verso gli invisibilia, al punto di fare del monaco un uomo teso con tutto il suo essere verso la realtà che non passa. Prima di essere delle accademie di scienza e dei crocevia della civilizzazione, i monasteri sono stati delle dita silenzione puntate verso il cielo, il richiamo ostinato, non negoziabile, che esiste un altro mondo di verità e di bellezza, di cui l'attuale non è che un'assai caotica e goffa preparazione.
Il monaco, per il tipo di vita insolita che lo mette a parte degli altri uomini, diventa quindi, nel mezzo di un mondo che diventa via via più veloce, il testimone immobile di un mondo a venire. Silenzioso, ma non totalmente, perché canta. Il canto occupa uno spazio straordinario nella vita monastica. Noi siamo i figli di quei Padri del deserto che intrecciavano cesti cantando i salmi; e quanto compivano spontaneamente, il nostro patriarca san Benedetto l'ha saggiamente stabilito mediante l'assistenza al coro sette volte al giorno e una volta la notte, ciò che è immagine dell'eternità. Dunque, mi direte, i monaci sono dei cantori? E quelli che cantano male? La questione per noi non ha senso. L'ufficio divino non ha in sé un valore propriamente musicale; esso significa che il monaco appartiene a un universo di gioia e di bellezza che prefigura il Regno, in cui la lode diventa la più pura espressione dell'amore, dove la carità fraterna diventa comunione, dove la liturgia e il silenzio congiunti fanno di tutta l'esistenza del monaco un'anticipazione della vita eterna. Il giorno in cui l'aspirante alla vita monastica scopre che la sua vita non trae il suo valore da una qualsiasi utilità per il mondo, che non s'incasella in alcuna classificazione sociale, non si giustifica per alcun servizio reso, quel giorno egli comincia a diventare monaco, e la sua reputazione di sapiente e civilizzatore, lungi dal piacergli, lo fa fuggire una seconda volta. Questa è la ragione della sua attrazione congenita per il deserto. Il deserto è la sua patria, il suo ambito vitale. Il più grande pericolo che possa minacciarlo risiede meno nell'incomprensione che raccoglie attorno a sé, piuttosto che nelle opere che gli fanno rifuggire la sua solitudine. Quando la schiera silenziosa dei cenobiti si lascia guidare dal tumulto del mondo, fosse pure quello dell'apostolato, il monaco è in pericolo di perdere la sua anima. Allora, da questa schiera toccata dallo spirito del mondo si stacca un piccolo gruppo che, senza rumore, ritorna al deserto. Tale è la storia di tutti i ricominciamenti monastici. E questa fuga è una sete. Un brano di san Paolo svela meglio di ogni altra spiegazione il segreto dei monaci:
"Ma queste cose, che per me erano guadagni, io le ho considerate una perdita a motivo di Cristo. Anzi, ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore. Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura, per guadagnare Cristo" (Fil 3, 7-8).

[Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), Le secret des moines, postfazione a Marc Dem, Dom Gérard et l'aventure monastique, Plon, Parigi 1988, pp. 193-198, ripreso in La vocation monastique, Editions Sainte-Madeleine, Le Barroux 1990, pp. 39-47, e infine in Les amis du monastère, n. 126, giugno 2008, pp. 5-7 (qui pp. 5-6), trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B. - 2 / segue]

mercoledì 6 gennaio 2010

Valore apostolico e sociale della preghiera

Il culto di Dio nella sua forma compiuta e perfetta, la lode divina nella sua espressione liturgica la più ampia e completa, questa è l'occupazione centrale e prima della vita monastica, ciò che san Benedetto chiama l'Opera di Dio, Opus Dei: l'Opera che ha Dio - e Dio soltanto - quale oggetto diretto, l'Opera che magnifica Dio, l'Opera che realizza le cose divine, l'Opera alla quale Dio s'interessa unicamente, di cui è l'agente principale, ma che ha voluto vedere compiersi per mezzo di mani e sulle labbra umane. Il sacrificio eucaristico è l'Opera centrale del culto cattolico, ma attorno a tale sacrificio - al quale i monaci danno una solennità particolare - si raggruppano le diverse ore della lode divina, celebrate anch'esse con tutto lo splendore dei canti e delle cerimonie della Chiesa. Mentre la vita cristiana così com'è condotta comunemente nel mondo non lascia a Dio che una parte minore e dei rapidi istanti - soprattutto da quando la celebrazione solenne dei divini uffici è pressoché cessata ovunque nella Chiesa ed è rimasta deserta dalle anime cristiane là dove essa esiste ancora -, il monaco appartiene con tutta la sua vita, mediante tutte le ore del giorno e della notte al culto divino, alla lode divina: egli veglia costantemente affinché si elevi dalla terra al cielo un concerto di voci che benedicono il nome di Dio. Mentre la terra si spinge fino alla blasfemia e tutto ciò che richiama Dio è percepito come un fardello pesante e un odioso ostacolo, la vita monastica è il tributo prelevato da Dio dalla razza umana; tale dovere essenziale di culto e religione, l'adorazione, la lode, la preghiera e l'azione di grazie, la voce dell'amore e del pentimento saliranno senza fine sino al trono di Dio. Se è vero che Dio cerca in tutte le cose la sua gloria, se il mondo intero non ha altro fine che procurarla, chi può negare che là sia pienamente compiuta l'intenzione divina, ove la vita cristiana non ha altro fine, altro disegno, altra funzione, altro impiego che di essere tutta intera dispiegata per la gloria e l'onore di Dio.

Tale è stato il pensiero di san Benedetto. In tal senso egli ha consacrato alla distribuzione e al regolamento dell'ufficio divino una porzione considerevole della sua Regola, e anzitutto egli chiede a colui che entra in monastero l'attenzione e l'amore per l'ufficio divino. Il monaco non deve anteporre nulla all'Opera di Dio. In effetti è a essa che si riconducono tutti gli altri lavori monastici; è essa che determina l'intero nostro orario, che reclama quasi tutte le opere della nostra giornata, e le migliori. Siamo monaci anzitutto per questo, dobbiamo procurare la gloria di Dio e occuparci di Lui, rendergli onore, omaggio e servizio secondo le forme, le preghiere, i canti e le cerimonie istituite dalla Chiesa. Dobbiamo inoltre associare la nostra voce a quella degli angeli e anticipare le ore dell'eternità. Dobbiamo spendere la vita di quaggiù al fianco di Colui che è unicamente interessante, unicamente simpatico, unicamente attraente.

Altresì, la preghiera della Chiesa, celebrata con intelligenza e pietà per onorare Dio, diventa per noi il mezzo della nostra santificazione. Nulla arricchisce l'anima come il contatto con Dio; nulla santifica l'anima come l'esercizio della sua tenerezza con Dio. Perciò abbeveriamoci alla fonte della santa liturgia, mezzo per rendere gloria a Dio. Questi due elementi agiscono l'uno sull'altro; il contatto con Dio purificando ed elevando la nostra anima, e la nostra anima santificata diventando più capace di offrire a Dio un'adorazione degna di lui. Man mano che si elimina ciò che proviene da noi, entriamo più pienamente nel mistero e nel sacrificio del Signore, fino a che Cristo sia tutto in noi tutti. Non è questa la pienezza della vita cristiana?

Non importa nulla che il mondo non comprenda quest'opera della preghiera e non ne apprezzi affatto la portata, se non talora dal punto di vista estetico: peraltro, quanti penetrano la reale e soprannaturale bellezza dei riti della Chiesa e del canto sacro? Noi tuttavia crediamo al valore apostolico e sociale della nostra preghiera e riteniamo di raggiungere direttamente per suo tramite non solo Dio e noi, ma anche il prossimo. Senza nemmeno parlare del suo segreto influsso sull'andamento provvidenziale degli avvenimenti, non vi è una predicazione assai efficace nello spettacolo di un ufficio divino degnamente celebrato? Sin dai tempi della Chiesa primitiva, la liturgia cattolica è un principio d'unità per il popolo di Dio, e la carità sociale è stata creata da lei. Bisogna sperare di vedere rinascere la vera e profonda solidarietà del popolo cristiano al di fuori di questa riunione di tutti attorno a Dio, in una medesima preghiera e nella comunione di un unico pane vivo? Comunque sia, noi acconsentiamo d'altro canto a non produrre nulla che si veda e si tocchi, e a non avere altra utilità che quella di adorare Dio. E gioiosamente assumiamo quale nostro compito di raggiungere con l'Opus Dei il fine essenziale delle cose, la fine dell'intera creazione intelligente, il fine medesimo della Chiesa.

[Dom Paul Delatte O.S.B. (1848-1937), La vie monastique à l'école de saint Benoît, Abbaye Saint-Pierre de Solesmes, Sablé-sur-Sarthe 1980, pp. 29-32, trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B.]

martedì 5 gennaio 2010

Una lettura teologica della Regula Benedicti

La Regula Benedicti ha un carattere eminentemente pratico. Questo vuol dire diverse cose. Vuol dire anzitutto quello che non è, specialmente ciò a cui rimanda. Non è un trattato di vita spirituale dove sia elaborata tutta una teoria sull’esperienza cristiana che via via si assimila e quindi produce una spiritualità; non è un trattato di mistica cristiana e neppure riflette un’esperienza interiore fatta oggetto di speciale riflessione. Sotto questo aspetto è diversa da altri testi di vita spirituale perché ha una precisa funzione: quella di regolare la vita cenobitica, questo stare insieme di persone che hanno ricevuto un dono, un carisma singolare che è quello di cercare Dio, quaerere Deum, insieme, attraverso questa vita monastica dove solitudine e compagnia si associano, dove singolarità e comunità fra di loro si coniugano così da rappresentare un cammino verso Dio, una forma di vita cristiana. Con questa singolarità per la quale questa forma di vita cristiana si distingue rispetto ad altre forme di vita.
Si tratta di un insieme coerente di norme, d’indicazioni precise e insieme discrete. Precise perché si caratterizza per la sua sobria analiticità. Se la si confronta con la Regula Magistri si capisce subito che a prescindere dai rapporti fra le due regulae, ci si trova di fronte a un testo sintetico, equilibrato però con delle indicazioni molto circostanziate, che regolano lo stare insieme nella ricerca di Dio, nella forma particolare della vita monastica.
Stare insieme non è ciò che distingue la vita monastica, perché anche i coniugi stanno insieme, anche altre forme di vita religiosa si esprimono comunitariamente; poi, stare insieme nella ricerca di Dio, ma ogni cristiano ricerca Dio. È uno stare insieme nella ricerca di Dio, ma attraverso questa forma particolare che è la forma monastica. La forma non semplicemente di un convento, ma di un monastero.
Sono norme precise, circostanziate ma nello stesso tempo discrete; non sono intolleranti, non soffocano: lasciano sempre quello spazio di agio dove possa esprimersi la libertà, l’iniziativa, quella prudenza, quel rispetto, quell’attenzione alle situazioni delle persone che impediscono un’astratta e opprimente determinazione che valga per tutti. Da qui allora la dote principale che deve avere colui il quale rappresenta Cristo nella comunità: la discrezione, che non è un equilibrio facile, una via di mezzo. Discrezione come attenzione alle situazioni delle persone, per cui indubbiamente il carattere disciplinare, l’ordine che deve essere un tratto caratteristico di una vita cenobitica, non è un ordine che non tenga conto della varietà delle persone che compongono il cenobio. Da qui allora l’importanza della discrezione, che si potrebbe anche definire nei termini della virtù cardinale della prudenza; una prudenza illuminata dal Vangelo, che abbia la finezza e la luce evangelica e il tono proprio della paternità dove si associa l’amore alla cura vigilante e forte, cosicché la disciplina non sia un congegno meccanico, ma la disciplina come una vita dove l’ordine esterno manifesta la convinzione e la partecipazione interiore. L’ordine monastico come segno e traguardo di maturità. La discrezione allora è in funzione della maturità.
Non tenere le persone schiave in quanto rette da norme esteriori che costringono, ma queste norme sono in funzione della crescita interiore e quindi di questo maturare della libertà e della identità.
Una Regula, la quale ha carattere pratico, cioè intende non contenere i dati che contrassegnano la vita cristiana, l’esperienza, lo sviluppo della vita cristiana, ma un insieme di norme che presuppongono la vita cristiana e cercano di dare l’indicazione perché questa vita cristiana, la quale trova i suoi fondamenti propri nelle sorgenti che caratterizzano la vita cristiana, sia vissuta in questa speciale che è quella del cenobio.
La vita monastica – credo lo si debba sottolineare in modo del tutto particolare – è una vita cristiana. Forse troppo facilmente diamo per scontato di essere cristiani, quasi a dire: è ovvio che i monaci siano dei cristiani, il compito del monastero è di dare qualcosa in più… No. Il compito del monastero non è di dare qualcosa in più dell’essere cristiano, ma il monastero aiuta a essere cristiani compiutamente secondo il carisma monastico, perché per tutti, monaci o laici, sacerdoti o religiosi, a importare è di essere cristiani, cioè di essere nella grazia dello Spirito santo, nella conformità a Gesù Cristo, nella sequela di lui, nella condivisione dei suoi misteri. Questo è l’essenziale per tutti e non va presupposto, nel senso che nel monastero è ovvio che si sia cristiani. Non è ovvio mai per nessuno, perché il monastero, vita cristiana nella forma laicale, nella forma sacerdotale, nella forma religiosa, veramente a essere fine allo stesso modo per tutti è di essere pienamente in Gesù Cristo. Questo è lo sforzo e l’impegno di ogni carisma, di tutte le vocazioni.
La Regula Benedicti è in funzione del Vangelo, un aiuto a vivere il Vangelo, è un aiuto per essere dei buoni cristiani. Ma noi non dobbiamo deprimere, abbassare il livello dell’essere cristiani, perché l’essere cristiani è tutto e non c’è qualche cosa di più dell’essere cristiani. Non è ovvio né facile per nessuno.
Perché ti fai monaco? Per essere un cristiano maturo. In quale forma? Nella forma della vita monastica.
Se facciamo attenzione, a ben vedere, non troviamo nella Regula Benedicti la teoria di una particolare spiritualità, nel senso che in questa Regola si rifletta la coscienza che il monaco ha una speciale spiritualità. C’è la coscienza che il monaco è un cristiano che nella fraternità del monastero cerca di vivere pienamente la vocazione evangelica. Per cui non so se sia giusto parlare di spiritualità benedettina. Se si parla di spiritualità benedettina io riterrei che non debba essere in quella forma che quel significato questo linguaggio è venuto ad assumere molto tardivamente.
La vita monastica come è contemplata nella Regula Benedicti è molto semplice, intesa all’essenziale, cioè portata a far emergere i dati primari dell’essere cristiano. Non trovo nella Regula Benedicti una preoccupazione relativa allo stato monastico come stato di perfezione rispetto ad altri stati di vita cristiana che non siano di perfezione. Non c’è la preoccupazione del confronto, nel senso di dire che chi entra in monastero si dispone dentro uno stile, una struttura di vita che è più perfetta rispetto a quella che non sia monastica, che sia in forma laicale. C’è invece l’impegno a realizzare pienamente nel cenobio, e secondo l’impronta, lo stile, l’esigenza cenobitica quel dato comune che è il dato della grazia di Cristo.
È segno di preoccupazione per l’essenziale. Quando dico che la vita monastica è la forma speciale di vivere gli elementi principali del Vangelo intendo precisamente affermare quanto essa sia semplice e non preoccupata di teorizzazioni. La perfezione cristiana certamente è l’impulso che anima la Regula Benedicti, ma non una perfezione rispetto ad altri meno perfetti. Perfezione nel senso che i principi evangelici devono essere accolti e portati a maturazione con animo pieno e generoso.
La discrezione come delimitazione di quell’agio spirituale per cui le persone in monastero maturano, nella libertà, nell’identità. Questa è la perfezione mirata nella Regula Benedicti: la formazione di persone, di discepoli del Signore che progrediscono, che corrono, che hanno il cuore aperto, dilatato, che non si immiseriscono nel compromesso. Questo senza drammaticità, senza strettezze, senza spirito e procedimento gretto.
I monaci sono visti così nella Regula Benedicti: sono dei cristiani che vivono della fede, quindi della Parola di Dio, e quindi vivono sotto l’urgenza della voce che risuona e che chiama impegnando.
[Trascrizione di una conferenza spirituale del prof. don Inos Biffi presso il Monastero San Benedetto di Bergamo / 1 - continua]