domenica 10 gennaio 2010

Il segreto dei monaci / seconda parte


Così confessiamo di assumere assai moderatamente la parte che ci compete, secondo il punto di vista dell'uomo, nell'avvenimento di un mondo civilizzato. I monaci hanno fatto l'Europa, ma non l'hanno fatta deliberatamente. La loro avventura è anzitutto, e direi quasi esclusivamente, un'avventura interiore, il cui unico motivo era la sete. La sete d'assoluto. La sete di un altro mondo, che il potere educatore della liturgia accendeva al punto di orientare lo sguardo verso gli invisibilia, al punto di fare del monaco un uomo teso con tutto il suo essere verso la realtà che non passa. Prima di essere delle accademie di scienza e dei crocevia della civilizzazione, i monasteri sono stati delle dita silenzione puntate verso il cielo, il richiamo ostinato, non negoziabile, che esiste un altro mondo di verità e di bellezza, di cui l'attuale non è che un'assai caotica e goffa preparazione.
Il monaco, per il tipo di vita insolita che lo mette a parte degli altri uomini, diventa quindi, nel mezzo di un mondo che diventa via via più veloce, il testimone immobile di un mondo a venire. Silenzioso, ma non totalmente, perché canta. Il canto occupa uno spazio straordinario nella vita monastica. Noi siamo i figli di quei Padri del deserto che intrecciavano cesti cantando i salmi; e quanto compivano spontaneamente, il nostro patriarca san Benedetto l'ha saggiamente stabilito mediante l'assistenza al coro sette volte al giorno e una volta la notte, ciò che è immagine dell'eternità. Dunque, mi direte, i monaci sono dei cantori? E quelli che cantano male? La questione per noi non ha senso. L'ufficio divino non ha in sé un valore propriamente musicale; esso significa che il monaco appartiene a un universo di gioia e di bellezza che prefigura il Regno, in cui la lode diventa la più pura espressione dell'amore, dove la carità fraterna diventa comunione, dove la liturgia e il silenzio congiunti fanno di tutta l'esistenza del monaco un'anticipazione della vita eterna. Il giorno in cui l'aspirante alla vita monastica scopre che la sua vita non trae il suo valore da una qualsiasi utilità per il mondo, che non s'incasella in alcuna classificazione sociale, non si giustifica per alcun servizio reso, quel giorno egli comincia a diventare monaco, e la sua reputazione di sapiente e civilizzatore, lungi dal piacergli, lo fa fuggire una seconda volta. Questa è la ragione della sua attrazione congenita per il deserto. Il deserto è la sua patria, il suo ambito vitale. Il più grande pericolo che possa minacciarlo risiede meno nell'incomprensione che raccoglie attorno a sé, piuttosto che nelle opere che gli fanno rifuggire la sua solitudine. Quando la schiera silenziosa dei cenobiti si lascia guidare dal tumulto del mondo, fosse pure quello dell'apostolato, il monaco è in pericolo di perdere la sua anima. Allora, da questa schiera toccata dallo spirito del mondo si stacca un piccolo gruppo che, senza rumore, ritorna al deserto. Tale è la storia di tutti i ricominciamenti monastici. E questa fuga è una sete. Un brano di san Paolo svela meglio di ogni altra spiegazione il segreto dei monaci:
"Ma queste cose, che per me erano guadagni, io le ho considerate una perdita a motivo di Cristo. Anzi, ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore. Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura, per guadagnare Cristo" (Fil 3, 7-8).

[Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), Le secret des moines, postfazione a Marc Dem, Dom Gérard et l'aventure monastique, Plon, Parigi 1988, pp. 193-198, ripreso in La vocation monastique, Editions Sainte-Madeleine, Le Barroux 1990, pp. 39-47, e infine in Les amis du monastère, n. 126, giugno 2008, pp. 5-7 (qui pp. 5-6), trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B. - 2 / segue]