È che
si gela qui dentro, mormorava Durtal; che il
mio uomo abbia dimenticato l’appuntamento? Un
trascinare di scarpe in corridoio lo rassicurò.
«Sono
in ritardo», disse il religioso, «ma abbiamo appena finito di buttar giù in
refettorio, secondo la tradizione, una tazza di vin brulé per scaldare il
sangue, perché staremo in piedi a cantare fino all’aurora. È pronto?».
«Sì,
padre», rispose Durtal che si mise sull’inginocchiatoio e si confessò. Dopo
avergli domandato l’assoluzione, con pacatezza, con calma, parlando come a una
conferenza ai suoi novizi, dom Felletin trattò di quell’Avvento che era morto e
di questa festa di Natale che stava per nascere.
Durtal
si era seduto e lo ascoltava.
«Sono
terminate queste quattro settimane», diceva, «che rappresentano i quattromila
anni che sono trascorsi prima della venuta di Cristo. Il primo giorno dell’anno
civile, il primo gennaio del calendario gregoriano, è per il mondo un motivo di
allegria; per noi, il giorno dell’anno liturgico, che è la prima domenica
d’Avvento, è stato un argomento penoso. L’Avvento, simbolo d’Israele che
invocava la venuta del Messia macerandosi e digiunando sotto la cenere, è, in effetti,
un tempo di penitenza e di lutto. Non si canta il Gloria,
non si suona l’organo nei giorni feriali, non si dice Ita missa est, non si canta il Te Deum nell’Ufficio notturno; abbiamo adottato come segno di
tristezza il violetto e, come segno ancor più energico d’inquietudine e di
ansia in certe diocesi, come in quella di Beauvais, inalberavano ornamenti
color cenere; anche in altre, quelle di Le Mans, di Tours, le chiese del Delfinato,
rincaravano ancora sul senso dei colori smorti, vestendosi con la tinta del
trapasso, di nero.
La
liturgia di quest’epoca è splendida. Allo sconforto delle anime che piangono i
loro peccati, si mescolano i clamori eccitati e gli urrà dei Profeti che annunciano
che il perdono è vicino; le Messe delle Quattro Tempora, le grandi “antifone
O”, l’inno dei Vespri, il Rorate coeli della
Salvezza, il responsorio del Mattutino della prima domenica, possono essere
considerati tra i più preziosi gioielli del Tesoro dell’Ufficio; solo gli scrigni
della Quaresima e della Passione contengono dell’oreficeria così perfetta;
eccoli ora riposti nei loro cassetti, per un anno. La gioia degli auguri
esauditi succede alle ansie delle scadenze; e tuttavia non tutto è finito,
perché l’Avvento si riferisce non solo alla Natività di Cristo, ma anche al suo
ultimo Avvento, cioè a questa fine del mondo quando verrà, come si professa nel
Credo, a giudicare i vivi e i morti. È necessario perciò non dimenticare questo
punto di vista e innestare sulla gioia rassicurante del Nuovo Nato, il salutare
timore del Giudice.
L’Avvento
è, dunque, sia il Passato che il Futuro; ed è anche, in un certo modo, il
Presente; perché questa stagione liturgica è la sola che debba sussistere
immutabile in noi; le altre scompaiono con il succedersi del tempo. Lo stesso
anno termina, ma senza che l’universo scompaia in un definitivo cataclisma; e
di generazione in generazione, ci trasmettiamo l’angoscia; dobbiamo sempre
vivere in un eterno Avvento perché, aspettando la suprema fine del mondo, avrà
il suo compimento in ciascuno di noi con la morte.
La
stessa natura ha il compito di simbolizzare la cura di questa stagione che
abbiamo vissuto; il decrescere dei giorni era come l’emblema delle nostre
impazienze e dei nostri rimpianti; ma i giorni si allungano dal momento che il
Signore nasce; il Sole di Giustizia dissipa le tenebre; è il solstizio
d’inverno e sembra che la terra, liberata da persistenti tenebre, gioisca.
Dobbiamo
dunque, come lei, dimenticare per qualche ora l’opprimente pensiero dei
castighi, pensare solo a quest’avvenimento inesprimibile di un Dio divenuto
bambino per riscattarci...
Mio
caro amico, ha preparato bene il suo Ufficio, vero? Ha già letto le stupende
antifone del Mattutino; mi intratteneva poco fa su queste, durante la
confessione, sulle sue ansie e le sue distrazioni durante il canto della
salmodia; si lamenta del dolore che prova nel vedersi così tanto impregnato di
atmosfera mondana; si domanda se la routine non annichilisca l’efficacia delle
sue preghiere? Lei cerca allora sempre il pelo nell’uovo con sé stesso! Ma,
vediamo, la conosco abbastanza bene per sapere che questa notte lei trasalirà
di piacere, solo ascoltando lo stupendo Invitatorio dell’Ufficio. Ha dunque
bisogno di insistere su ogni parola, di soppesare qualsiasi risposta? Non sente
la presenza di Dio, in questo entusiasmo che non ha niente da spartire con la
discussione e l’analisi? Ah! Non è semplice con Lui! Lei ama più di chiunque
altro la prosa ispirata delle Ore e vuole convincersi di non amarli abbastanza.
È folle! Finirà, con così tanti dubbi, per compromettere ogni slancio; e stia
attento perché la malattia dello scrupolo, di cui ha tanto sofferto alla
Trappa, ritorna!
Allora
faccia il bravo con sé stesso e sia meno pignolo con Dio! Non esige che lei
smonti, come gli ingranaggi di un orologio, gli argomenti delle sue preghiere e
ne sminuzzi la comprensione quando comincia a formularle. Le domanda solo di
recitarle. Ecco un esempio: scegliamo una santa della quale non potrà discutere
l’autorità, santa Teresa; non conosceva il latino e non si augurava che le sue figlie
lo imparassero; e tuttavia le carmelitane sanno salmodiare l’Ufficio in questa
lingua. Secondo la minuzia delle sue congetture, pregherebbero male, allora! La
verità è che sanno che, facendo così, cantano le lodi al Signore e lo implorano
per quelli che non lo adorano affatto e questo è sufficiente; riempiono di
questi pensieri queste parole di cui esse non conoscono in modo preciso il
senso e che tuttavia rendono i loro desideri in maniera assoluta; ricordano a
Gesù le sue promesse e i suoi rimproveri. Le loro preghiere Gli presentano, se
posso dire, un trattato che segnò con il suo sangue e che non può lasciar
inesaudito; forse non siamo infatti creditori di certe promesse dei suoi
Vangeli?».
«Solo...
solo...» continuò il monaco, dopo un silenzio, come parlando a sé stesso, «queste
promesse dovute all’immensità del suo amore esigono, perché si realizzino, che
ritorniamo a Lui una giusta misura – tuttavia calcolata col nostro metro –
giacché, che misera ripercussione dell’infinito ci portiamo in noi stessi!
Questo povero amore, non si ottiene che attraverso la sofferenza. Bisogna soffrire
per amare e soffrire ancora quando si ama!
Ma
dimentichiamo tutto questo: non veliamo la gioia di queste poche ore:
ritorniamo a noi, pensiamo subito a questa incomparabile veglia, a questo Natale
che ha fatto piangere di tenerezza in tutte le epoche. I Vangeli sono brevi; ci
relazionano gli avvenimenti senza riflettere sui dettagli; non c’è posto
all’ostello e questo è tutto. Ma che meravigliosa forma di liturgia si è creata
attorno a questo nodo che sembrava così arido! L’Antico Testamento è venuto a
completare il Nuovo; è il contrario di ciò che succede di solito;
contrariamente a tutti i precedenti sono i testi anteriori che completano
quelli che seguono; il bue, l’asino, non è a san Luca, ma a Isaia che li
dobbiamo; sono da sempre acquisiti nell’O gran mistero,
uno dei più bei responsori del secondo notturno di questa notte.
Ah!
La radiosa bellezza della teofania! Quando Gesù è appena nato e non può ancora
parlare, simbolizza in modo immediato, con un’azione materiale, gli
insegnamenti che proclamerà così chiaramente più tardi. La sua prima cura è di
mettere in pratica e di confermare con un esempio il canto che glorifica sua
Madre, l’exaltavit humiles del Magnificat!
La
sua prima riflessione è un pensiero di deferenza verso di Lei. Vuol giustificare
davanti a tutti il grido di vittoria della Vergine e in effetti attesta nello
stesso tempo che i piccoli sono i suoi preferiti e che devono stare davanti a
Lui prima dei potenti. Certifica che i ricchi avranno più difficoltà dei poveri
a essere ammessi alla sua presenza e lo fa capire imponendo un lungo viaggio a
questi sovrani e a questi sapienti, i Magi, dispensando da queste fatiche e
pericoli i pastori che invita per i primi ad adorarlo e rialza la gerarchia
degli umili, delegando per condurli davanti a Lui, non più la luce silenziosa
di una stella, ma una truppa estasiata di angeli!
E
la Chiesa si conforma ai disegni del Figlio. In questa notte di Natale, i Magi
si manifestano solo tra le quinte e non se ne parlerà neppure, invero avranno
un Ufficio esclusivamente loro solo per la festa dell’Epifania. Oggi, tutto è
per i pastori.
Aggiungiamo
inoltre che Maria ha sempre confermato questa intenzione perché nelle sue più
note apparizioni, Lei si è sempre indirizzata a dei guardiani di greggi, non a
dei sapienti, a dei monarchi o a delle donne ricche».
«Senza
dubbio, padre», disse Durtal, «tuttavia mi permetta un’osservazione. La lezione
d’umiltà che mi ha ricordato appena adesso è stata un po’ persa. Il Medioevo
che ha inventato tante leggende sui re Magi, non ne ha mai immaginata una sola
per i poveri pastori; le reliquie dei magi, promossi al rango di santi, sono
ancora venerate a Colonia e nessuno si è mai occupato di sapere ciò che era stato
dei resti modesti dei pastori, né si è domandato se fossero, anche loro, dei
santi!».
«È
vero», disse sorridendo il monaco. «Cosa vuole, l’umanità ama alla follia il
mistero; i Magi erano così enigmatici, così strani che tutto il Medioevo ha
sognato di questi potenti che rappresentavano, per esso, il culmine della
ricchezza e l’apogeo della potenza; e ha dimenticato i buoni che vedeva tutti i
giorni. È il vecchio adagio, i primi davanti a Dio sono gli ultimi davanti agli
uomini.
Vada
in pace, faccia la comunione, mio caro, e preghi per me».
[Joris-Karl
Huysmans (1848-1907), L’oblato, trad. it., D’Ettoris Editori, Crotone
2016, pp. 180-184]