giovedì 28 luglio 2016

Rivolgiamoci verso il Signore!

Dopo averci offerto un’edizione francese di Die Reform der Römischen Liturgie, i monaci del Barroux pubblicano ora una seconda opera del grande liturgista tedesco Klaus Gamber, Zum Herrn hin!, sull’orientamento della chiesa e dell’altare. Le argomentazioni storiche proposte dall’autore sono fondate su uno studio approfondito delle fonti, svolto da egli stesso; c’è concordanza con i risultati di grandi eruditi come F.-J. Dölger, J. Braun, J.-A. Jungmann, Érik Peterson, Cyrille Vogel, il R.P. Bouyer, per non citare che alcuni personaggi eminenti.
Ma ciò che costituisce l’importanza di questo libro, è soprattutto il substrato teologico, aggiornato da queste ricerche erudite. L’orientamento della preghiera comune ai sacerdoti e ai fedeli – la cui forma simbolica era generalmente in direzione dell’est, cioè del sole nascente – era concepito come uno sguardo rivolto verso il Signore, verso l’autentico sole. Nella liturgia c’è un’anticipazione del suo ritorno; sacerdote e fedeli gli vanno incontro. Quest’orientamento della preghiera esprime il carattere teocentrico della liturgia; essa obbedisce al monito: Rivolgiamoci verso il Signore!
Tale auspicio è rivolto a tutti noi e mostra, anche al di là del suo aspetto liturgico, come sia necessario che tutta la Chiesa viva e agisca per corrispondere alla missione del Signore.

Roma, 18 novembre 1992

[Card. Joseph Ratzinger, Préface pour l'édition française, in Klaus Gamber (1919-1989), Tournés vers le Seigneur!, Éditions Sainte-Madeleine, Le Barroux 1993, trad. it. di fr. Romualdo Obl.S.B.]

lunedì 25 luglio 2016

Rivolti al Signore

Per coloro che abitualmente frequentano la chiesa, i due effetti più evidenti della riforma liturgica del Concilio Vaticano Secondo sembrano essere la scomparsa del latino e l’altare orientato verso il popolo. Chi ha letto i testi al riguardo si renderà conto con stupore che, in realtà, i decreti del Concilio non prevedono nulla di tutto questo. Certo, l’uso della lingua corrente è consentito, soprattutto per la Liturgia della Parola, ma la precedente regola generale del Concilio afferma: “L’uso della lingua latina, salvo diritti particolari, sia conservato nei riti latini” (Sacrosanctum Concilium 36.1). Non vi è nulla nel testo conciliare sull’orientamento dell’altare verso il popolo; quel punto è stato sollevato solo nelle istruzioni postconciliari. La direttiva più importante si ritrova al paragrafo 262 della Institutio Generalis Missalis Romani, l’Introduzione Generale al nuovo Messale Romano pubblicata nel 1969, e afferma: “L’altare maggiore sia costruito staccato dalla parete, per potervi facilmente girare intorno e celebrare rivolti verso il popolo (versus populum)”. Le Istruzioni Generali per il Messale, pubblicate nel 2002, mantenevano senza modifiche questa formulazione, tranne per l’aggiunta della clausola subordinata “la qual cosa è desiderabile ovunque sia possibile”. In molti ambienti questo venne interpretato come un irrigidimento del testo del 1969, a indicare come fosse un obbligo generale erigere altari di fronte al popolo “ovunque sia possibile”. Tale interpretazione venne tuttavia respinta il 25 settembre 2000 dalla Congregazione per il Culto Divino, che dichiarò come la parola “expedit” (“è desiderabile”) non comportasse un obbligo, ma fosse un semplice suggerimento. La Congregazione afferma che si deve distinguere l’orientamento fisico dall’orientamento spirituale. Anche se un sacerdote celebra versus popolum, deve sempre essere orientato versus Deum per Iesum Christum (verso Dio attraverso Gesù Cristo). Riti, segni, simboli e parole non possono mai esaurire l’intima realtà del mistero della salvezza, ed è per questo motivo che la Congregazione ammonisce contro le posizioni unilaterali e rigide in questo dibattito. Si tratta di un chiarimento importante. Mette in luce quanto vi è di relativo nelle forme simboliche esterne della liturgia, e resiste al fanatismo che, purtroppo, non è stato estraneo alle controversie degli ultimi quarant’anni. Sottolinea nel contempo la direzione intima dell’azione liturgica, che non è mai possibile esprimere nella sua totalità per mezzo di forme esteriori. Tale direzione intima è comune al sacerdote e ai fedeli: verso il Padre attraverso Cristo nello Spirito Santo. La risposta della Congregazione dovrebbe ora agevolare un nuovo dibattito più disteso, nel corso del quale sia possibile cercare il modo migliore per mettere in pratica il mistero della salvezza. Tale ricerca va compiuta non condannandosi reciprocamente, ma ascoltando attentamente gli uni gli altri e, fattore ancor più importante, ascoltando la guida intima della liturgia stessa. Non si giunge ad alcun risultato etichettando le posizioni come “preconciliari”, “reazionarie”, “conservatrici” oppure come “progressiste” ed “estranee alla fede”; serve una nuova apertura reciproca alla ricerca del migliore compimento del memoriale di Cristo.
Questo piccolo libro di Uwe Michael Lang, membro della Congregazione dell’Oratorio di S. Filippo Neri a Londra, studia l’orientamento della preghiera liturgica dal punto di vista storico, teologico e pastorale. Mi sembra che questo libro riprenda, al momento propizio, un dibattito che, malgrado le apparenze contrarie, non si è mai spento, neppure dopo il Concilio Vaticano Secondo. Il liturgista di Innsbruck Josef Andreas Jungmann, uno degli artefici della Costituzione del Concilio sulla Sacra Liturgia, si oppose risolutamente fin dal principio al polemico luogo comune in base al quale il sacerdote, in precedenza, celebrava “volgendo le spalle al popolo”; sottolineò infatti come il punto in discussione non fosse il sacerdote con le spalle ai fedeli, ma al contrario il fatto che si voltasse nella stessa direzione dei fedeli. La Liturgia della Parola ha il carattere di proclamazione e di dialogo, al quale possono correttamente appartenere il discorso e la risposta. Nella Liturgia eucaristica, tuttavia, il sacerdote guida il popolo nella preghiera ed è rivolto, insieme ai fedeli, verso il Signore. Per questo motivo, sosteneva Jungmann, la direzione comune della preghiera del sacerdote e del popolo è intrinsecamente confacente e appropriata all’azione liturgica. Louis Bouyer, uno dei massimi liturgisti del Concilio insieme a Jungmann, e Klaus Gamber, ciascuno a suo modo, si sono posti la stessa domanda. Malgrado la loro grande reputazione, in principio non riuscirono a far sentire la loro voce: era troppo forte la tendenza a sottolineare il fattore comunitario della celebrazione liturgica, quindi a considerare assolutamente necessario il fatto che sacerdote e fedeli fossero rivolti l’uno verso gli altri.
In tempi più recenti l’atmosfera si è rilassata ed è stato possibile riprendere le domande che si erano posti Jungmann, Bouyer e Gamber senza essere immediatamente tacciati di sentimenti anticonciliari. La ricerca storica ha reso la controversia meno faziosa, e fra i fedeli cresce sempre più la sensazione dei problemi che riguardano una disposizione che difficilmente mostra come la liturgia sia aperta a ciò che sta sopra di noi e al mondo che verrà. In questa situazione il libro di Lang, piacevolmente oggettivo e assolutamente privo di polemica, è una guida preziosa. Senza avere la pretesa di offrire nuovi e grandiosi spunti, presenta con cura i risultati delle recenti ricerche e offre il materiale necessario a sviluppare un giudizio informato. Il libro è particolarmente prezioso perché mostra il contributo dato al problema della Chiesa d’Inghilterra e tiene nella debita considerazione l’Oxford Movement del XIX secolo, il movimento nel quale maturò la conversione di John Henry Newman. Da queste testimonianze storiche l’autore ricava le risposte teologiche che propone, e spero che il libro, opera di un giovane studioso, possa essere di aiuto nella lotta, necessaria in ogni generazione, per la corretta interpretazione e la degna celebrazione della sacra liturgia. Mi auguro che il libro trovi un vasto pubblico di lettori attenti.

Roma, domenica laetare 2003

[Joseph Ratzinger, Prefazione, in Uwe Michael Lang, Rivolti al Signore. L’orientamento nella preghiera liturgica, trad. it., II edizione rivista e corretta, Cantagalli, Siena 2008, pp. 7-10]

sabato 23 luglio 2016

Conversi ad Dominum

Nella Chiesa primitiva e durante il Medioevo, fu norma rivolgersi a oriente durante la preghiera. Dice sant’Agostino: “Quando ci alziamo in piedi per la preghiera, ci volgiamo a oriente, da dove s’innalza il cielo, non come se ivi soltanto fosse Dio, e avesse abbandonato le altre parti del mondo (...), ma perché lo spirito si innalzi a una natura superiore, ossia a Dio”.
Queste parole del Padre africano mostrano che i cristiani, dopo l’omelia, si alzavano per la preghiera successiva e si volgevano a oriente. A quest’atto allude sempre Agostino concludendo le sue omelie con la formula fissa conversi ad Dominum (“rivolti al Signore”).
Il Dölger, nel suo fondamentale Sol salutis, ritiene che anche la risposta del popolo Habemus ad Dominum, all’invito del celebrante Sursum corda, implichi l’essere rivolti a oriente, tanto più che alcune liturgie orientali esigono che ciò effettivamente sia, dopo l’invito del diacono.
Ciò vale per la Liturgia copta di Basilio, dove all’inizio dell’anafora si dice: “Venite, uomini, state in adorazione e guardate a oriente”, e per la Liturgia egiziana di Marco, dove un analogo invito – “Guardate a oriente” – viene dato nel corso della Preghiera eucaristica, ossia prima del Sanctus.
Nella breve esposizione del rituale liturgico contenuta nel libro II delle Costituzioni apostoliche (fine del secolo IV), è prescritto di alzarsi in piedi per la preghiera e di volgersi a oriente. Nel libro VIII viene riportato un equivalente invito del diacono: “State in piedi rivolti al Signore”. Nella Chiesa primitiva, pertanto, volgersi al Signore e guardare a oriente erano la stessa cosa.
L’usanza di pregare rivolti al punto in cui sorge il sole è antichissima, come il Dölger ha dimostrato, e comune a ebrei e gentili. I cristiani l’adottarono ben presto. Già nel 197, la preghiera verso oriente è per Tertulliano una cosa normale. Nel suo Apologeticum (cap. XVI), egli riferisce che i cristiani “pregano nella direzione in cui sorge il sole”.
Allora nelle case si indicava la direzione della preghiera a mezzo di una croce incisa nel muro. Una croce del genere è stata ritrovata a Ercolano in una camera al primo piano di una casa sepolta dall’eruzione del Vesuvio nell’anno 79.
Ora esaminiamo l’orientamento del celebrante e dei fedeli durante la messa. In fondo si tratta del problema se è mai esistita, agli albori del cristianesimo, una celebrazione versus populum (verso il popolo) come oggi si pretende di sostenere.
O. Nußbaum, dopo un lungo esame dedicato alla questione in Il posto del liturgo all’altare cristiano (1965) espone così il problema: “Coll’erezione di edifici specialmente riservati al culto, non si è adottata alcuna regola severa per stabilire da quale parte dell’altare doveva trovarsi il posto del liturgo. Succedeva che l’occupava spesso davanti all’altare e anche spesso dietro” (p. 408). Nußbaum nutre tuttavia la convinzione che si preferiva la celebrazione verso il popolo fino al VI secolo. Ma questa sua opinione è talmente errata che non è possibile sostenerla né accettarla.
Egli infatti non distingue la differenza che esiste fra le chiese dall’abside verso l’est e altre che hanno l’abside diretta verso ponente e, quindi, l’ingresso dalla parte orientale. Quest’ultimo orientamento si trova per di più soltanto in basiliche del IV secolo e anche qui in primo luogo in quelle edificate da Costantino o da sua madre Elena.
Già all’inizio del V secolo san Paolino da Nola chiama usuale (usitatior) le abside dalla parte orientale (ep. 32,15).
Troviamo basiliche con ingresso verso oriente soprattutto a Roma (il Laterano e S. Pietro) e nell’Africa del nord, mentre esse scarseggiano in Oriente. Trattandosi di edifici con la porta di ingresso rivolta verso oriente, si può dire che essi seguivano l’esempio del Tempio di Gerusalemme e dei maggiori templi antichi.
Nelle basiliche dall’ingresso verso oriente il celebrante era costretto a tenersi regolarmente dalla parte di dietro dell’altare per garantire l’orientamento verso est durante l’offerta del santo sacrificio; al contrario nelle chiese dall’abside verso l’est, il sacerdote doveva necessariamente tenersi davanti l’altare (ante altare) volgendo le spalle ai fedeli. Ora la nostra domanda deve porsi così: dov’era il posto dei fedeli nelle basiliche (costantiniane) con l’abside rivolto verso ponente?
Durante il Canone della messa, non solo il sacerdote ma anche i fedeli stavano rivolti verso oriente. Vale a dire che i fedeli stavano anch’essi rivolti verso oriente, guardando in direzione delle porte della chiesa, tenute aperte, attraverso le quali filtrava la luce del sole simbolo di Cristo risorto.
Durante la celebrazione della eucaristia, nemmeno nelle basiliche menzionate il popolo e il sacerdote non stavano mai di faccia. I fedeli – separati gli uomini dalle donne – prendevano posto nelle navate laterali. Le grandi basiliche ne possedevano fino a sei (il Laterano e S. Pietro ne hanno quattro). Questa disposizione corrisponde ai posti a sedere che si trovano nelle piccole chiese paleocristiane, un uso che continua a esistere ancora nelle chiese dell’Oriente. Anche qui la navata centrale rimane libera, i fedeli anziani siedono sui sedili lungo le pareti laterali e nelle navate mentre la maggior parte dei fedeli rimane in piedi.
Nelle basiliche costantiniane, e qualche volta anche nelle chiese africane, tutta quanta la navata centrale serviva allo svolgimento delle funzioni ed era a disposizione del sacerdote e della schola cantorum, come dimostrano gli scavi e anche un mosaico a Thabarca (Africa del nord), che data al IV secolo. L’altare ornato di un baldacchino, si erigeva all’incirca al centro della chiesa ed era circondato da balaustre. Lo stesso ordine viene ritrovato nell’Italia settentrionale nelle basiliche più antiche ad esempio ad Aquileia e Ravenna, sebbene l’abside si trovi in direzione dell’oriente.
Nella basilica costantiniana di S. Pietro l’altare non era collocato sopra la tomba dell’Apostolo ma bensì nel centro della navata. Nella nuova attuale basilica, l’altare papale si trova invece sulla tomba dell’Apostolo, ma, come nell’antichità, è ancora circondato da un’isola che gli conserva l’ubicazione centrale di una volta.
I fedeli, perciò, nelle basiliche in cui l’ingresso e non l’abside era situato a oriente, se non guardavano l’altare nemmeno voltano a esso le spalle: cosa inammissibile, data la santità dell’altare stesso. Poiché erano nelle navate laterali, avevano l’altare rispettivamente alla loro destra o alla loro sinistra, e formavano un semicerchio aperto a oriente col celebrante e gli assistenti all’incrocio del transetto con l’asse longitudinale della chiesa.
Nelle chiese con l’abside a oriente, tutto dipendeva da come si disponevano i fedeli. Se formavano un ampio semicerchio davanti all’altare situato nella parte absidale della chiesa o presbiterio, anche in questo caso il semicerchio era aperto a oriente; il celebrante non era più all’incrocio dei bracci, bensì nel punto focale, più lontano dai fedeli.
Nel Medioevo, invece, quasi ovunque i fedeli prendono posto nella navata centrale, mentre le navate laterali servono per la processione d’ingresso. In tal modo, dietro al celebrante si snoda il viaggio del popolo di Dio verso la Terra promessa. Meta del viaggio è l’oriente: là è il paradiso, perduto, a cui l’uomo agogna di tornare (cfr. Gen 2,8). Testa di questa teoria sono il celebrante e i suoi assistenti.
In contrasto con la dinamica del viaggio, il semicerchio aperto attua un principio statico durante la preghiera: l’attesa del Signore che, asceso in cielo a oriente (cfr. Ps 67,34), da oriente ritornerà (cfr. At 1,11). Qui, la disposizione a semicerchio aperto è dunque, per così dire, naturale. Quando si aspetta un’alta personalità, si apre un varco e si forma un semicerchio per ricevere nel mezzo la persona attesa.
Analogo pensiero esprime san Giovanni Damasceno (De fide orthod. IV 2): “Nella sua ascensione al cielo, Egli si levò verso oriente. Così Lo adorano gli Apostoli, e ritornerà come essi Lo videro andare verso il cielo. Dice infatti il Signore: Come il lampo parte da oriente e illumina fino a occidente, tale sarà anche la venuta del Figlio dell’uomo. Poiché l’aspettiamo, adoriamo rivolti a oriente. Degli Apostoli, questa è una tradizione non scritta”.
Partendo da questa veduta, a cominciare pressappoco dal VI secolo, si cominciò a rappresentare l’ascesa del Signore sullo sfondo dell’abside ricordando in tal modo anche la sua gloria nel cielo e la sua seconda parusia (At 1,11). Più tardi il Cristo in trono nella mandorla venne staccato da quella composizione per divenire quale maiestas Domini, circondato dai quattro animali, il quadro absidiale romanico.
Erano presenti nella prima composizione anche gli Apostoli e nel loro mezzo Maria che alzava le mani al cielo in posizione orante. Ancora più tardi si dipingeva sotto la cupola principale il Pantocrator, oppure l’ascesa del Signore, sopra l’altare, senza però unirvi la Madre di Dio che continuava a ornare l’abside.
Può darsi che un passo dell’Apocalisse ne abbia dato l’ispirazione, là dove si legge: “E si aprì il tempio di Dio nel cielo e apparve l’arca del testamento nel tempio (come sappiamo l’arca sta sull’altare nelle chiese d’oriente) ... e un segno grande apparve nel cielo: una donna vestita di sole con la luna ai piedi e sul capo dodici stelle” (Ap 11,19-12,1). È degno di nota il fatto dell’avvicinamento nell’Apocalisse di Maria-Ecclesia con l’arca del testamento, ma colpisce anche che la tenda del tempio, che copre il luogo più sacro, non si apre che in determinate occasioni. Il mistero, il tremendum esige che lo si nasconda, solo in tal modo si risveglia la nostalgia di poterlo contemplare.
“Adesso vediamo come in uno specchio, nell’enigma, ma poi faccia a faccia” (1Cor 13,12).
Lo sguardo levato verso l’oriente non cerca soltanto la gloria di Cristo in cielo e il suo ritorno, ma esprime anche il desiderio della visione che si svelerà alla fine dei giorni, nella gloria avvenire. È quello il significato della prece che si innalza nella Didaché (X 6) Maranatha! che ripete il Veni, Domine Iesu! dell’Apocalisse.
In questo breve studio si è soltanto tenuto conto di alcuni punti importanti che riguardano l’orientamento verso l’est durante la preghiera e il posto del celebrante nella Chiesa dei primi secoli.
Altri dati importanti archeologici sono esposti nel mio libro Liturgie und Kirchenbau (“Liturgia e architettura religiosa”) che fornisce anche le prove necessarie.
È vero che l’uomo moderno non sa più capire bene il significato dell’orientamento della preghiera verso l’est. Per lui il sole che sorge non ha più la forza simbolica che aveva per l’uomo antico. Però, al di sopra dei tempi storici, sta l’importanza della preghiera ad Dominum, verso il Signore da parte del celebrante e dei fedeli, che esprime l’orientamento verso la croce dell’altare e verso l’immagine di Cristo nell’abside, da parte di tutti i presenti, sacerdote e fedeli.

[Klaus Gamber (1919-1989), “Verso il Signore”, trad. it. in Notizie. Periodico dell’associazione italiana Una Voce per la salvaguardia della liturgia latino-gregoriana, edito dalla Sezione di Torino, n. 116, gennaio 1987, pp. 1-4]

venerdì 22 luglio 2016

Grazie a Dio per l'Abbazia Sainte-Madeleine di Le Barroux


Gaudeámus omnes in Dómino, diem festum celebrántes sub honóre Maríæ Magdalénæ : de cuius sollemnitáte gaudent Angeli, et colláudant Fílium Dei. V. Ps. 44,2 Eructávit cor meum verbum bonum : dico ego ópera mea regi. Glória...


giovedì 21 luglio 2016

Oggi ci vorrebbe un nuovo movimento liturgico

Recentemente un giovane sacerdote mi ha detto: “Oggi ci vorrebbe un nuovo movimento liturgico”. Si tratta dell’espressione di una preoccupazione, che in questi tempi solo degli spiriti volontariamente superficiali potrebbero scartare. Ciò che importava a questo sacerdote, non era di conquistare nuove e audaci libertà: quali libertà non ci siamo già arrogati? Egli sentiva che abbiamo bisogno di un nuovo inizio, che sgorghi dall’intimo della liturgia, come l’aveva voluto il movimento liturgico quando si trovava all’apice della sua autentica natura, quando non si trattava di fabbricare testi, d’inventare azioni e forme, ma di riscoprire il centro vivente, di penetrare nel tessuto propriamente detto della liturgia, affinché l’adempimento di questa fuoriesca dalla sua stessa sostanza. La riforma liturgica, nella sua concreta realizzazione, si è allontanata sempre più da questa origine. Il risultato non è stata una rianimazione, ma una devastazione. Da una parte, si ha una liturgia degenerata in “show”, nella quale si cerca di rendere la religione interessante mediante sciocchezze alla moda e massime morali seducenti, con dei successi momentanei nel gruppo dei fabbricanti di liturgia, e un’attitudine all’arretramento tanto più pronunciata presso coloro che cercano nella liturgia non lo “showmaster” spirituale, ma l’incontro con il Dio vivente davanti al quale ogni “fare” diventa insignificante, essendo solo questo incontro capace di farci accedere alle autentiche ricchezze dell’essere. D’altro canto, c’è la conservazione di forme rituali la cui grandezza emoziona sempre, ma che, spinte all’estremo, manifestano un isolamento ostinato e alla fine non lasciano altro che tristezza. Certo, tra i due rimangono tutti i sacerdoti e i loro parrocchiani che celebrano la nuova liturgia con rispetto e solennità; ma costoro vengono messi in discussione dalla contraddizione tra i due estremi, e la mancanza di unità interna nella Chiesa alla fine fa apparire la loro fedeltà, a torto per molti di loro, come una semplice variante personale di neo-conservatorismo. Poiché le cose stanno così, è necessario un nuovo impulso spirituale affinché la liturgia sia di nuovo per noi un’attività comunitaria della Chiesa, e che sia strappata all’arbitrio dei curati e delle loro équipe liturgiche.
Non si può “fabbricare” un movimento liturgico di questo genere – non più di quanto si possa “fabbricare” qualcosa di vivente –, ma si può contribuire al suo sviluppo sforzandosi di assimilare nuovamente lo spirito della liturgia e difendendo pubblicamente ciò che si è ricevuto. Questo nuovo inizio ha bisogno di “padri” che siano dei modelli e che non si accontentino d’indicare la strada da seguire. Chi cerca oggi tali “padri” incontrerà immancabilmente la persona di mons. Klaus Gamber [1919-1989], che ci è stato purtroppo portato via troppo presto, ma che forse, precisamente nell’abbandonarci, ci è divenuto autenticamente presente in tutta la forza delle prospettive che ci ha dischiuso. Proprio perché lasciandoci sfugge alla diatriba delle parti, egli potrebbe in questo momento di sconforto, diventare il “padre” di un nuovo inizio. Gamber ha portato con tutto il suo cuore la speranza dell’antico movimento liturgico. Senza dubbio, venendo da una scuola straniera, è rimasto un “outsider” sulla scena tedesca, dove non lo si voleva veramente accogliere; ancora di recente una tesi ha incontrato difficoltà importanti perché la giovane ricercatrice aveva osato citare Gamber troppo estesamente e con troppa benevolenza. Ma forse questo essere messo da parte è stato provvidenziale, perché ha costretto Gamber a seguire la propria strada e gli ha evitato il peso del conformismo.
È difficile esprimere in poche parole ciò che, nella disputa tra i liturgisti, è veramente essenziale e ciò che non lo è. Forse la seguente indicazione potrà risultare utile. Josef Andreas Jungmann S.J [1889-1975], uno dei veri grandi liturgisti del secolo XX, aveva definito a suo tempo la liturgia, tale quale la s’intendeva in Occidente rappresentandola soprattutto attraverso la ricerca storica, come una “liturgia frutto di uno sviluppo”; probabilmente anche per contrasto con la nozione orientale, che non vede nella liturgia il divenire e la crescita storici, ma solo il riflesso della liturgia eterna, la cui luce, attraverso lo svolgimento sacro, illumina il nostro tempo mutevole con la propria bellezza e la sua grandezza immutabili. Le due impostazioni sono legittime e, in definitiva, non sono inconciliabili. Ciò che è avvenuto dopo il Concilio significa tutt’altro: al posto della liturgia frutto di uno sviluppo continuo, è stata messa una liturgia fabbricata. Si è usciti dal processo vivente di crescita e di sviluppo per entrare nella fabbricazione. Non si è più voluto proseguire il divenire e la maturazione organici del vivente attraverso i secoli, e li si è rimpiazzati – come se si trattasse di una produzione tecnica – con una fabbricazione, prodotto banale del momento. Gamber, con la vigilanza di un autentico veggente e con il coraggio di un autentico testimone, si è opposto a questa falsificazione e ci ha insegnato instancabilmente la viva pienezza di un’autentica liturgia, grazie alla sua conoscenza incredibilmente ricca delle fonti. Uomo che conosceva e amava la storia, egli ci ha mostrato le molteplici forme del divenire e del percorso della liturgia; uomo che vedeva la storia dall’interno, egli ha visto in questo sviluppo e nei frutti di esso il riflesso intangibile della liturgia eterna, che non è oggetto del nostro fare, ma che può continuare meravigliosamente a maturare e fiorire, se ci uniamo intimamente al suo mistero. La morte di quest’uomo e sacerdote eminente dovrebbe stimolarci; la sua opera potrebbe aiutarci a prendere un nuovo slancio.

[Card. Joseph Ratzinger, in Klaus Gamber, La réforme liturgique en question, trad. fr., Éditions Sainte-Madeleine, Le Barroux 1992, pp. 6-8]

sabato 16 luglio 2016

Verso un’autentica messa in opera di Sacrosanctum Concilium

[…] Alla luce degli auspici fondamentali dei Padri del Concilio [Vaticano II] e delle varie situazioni che abbiamo visto affiorare dopo il Concilio, vorrei presentare alcune considerazioni pratiche quanto al modo di mettere in opera più fedelmente Sacrosanctum Concilium nel contesto attuale. Sebbene io mi trovi alla guida della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, lo faccio in tutta umiltà, come sacerdote e come vescovo, nella speranza che esse susciteranno studi e riflessioni mature, come pure buone pratiche liturgiche, ovunque nella Chiesa.
Non vi sorprenderete se raccomando che possiamo anzitutto esaminare la qualità e la profondità della nostra formazione liturgica, la maniera con cui abbiamo aiutato il clero, i religiosi e i laici a impregnarsi dello spirito e della forza della liturgia. […] La formazione liturgica è anzitutto ed essenzialmente un’immersione nella liturgia, nel mistero profondo di Dio, nostro Padre beneamato. Si tratta di vivere la liturgia in tutta la sua ricchezza, d’inebriarsene bevendo a una fonte che non estingue mai la nostra sete per le sue delizie, le sue leggi e la sua bellezza, il suo silenzio contemplativo, la sua esultazione e adorazione, il suo potere di legarci intimamente a Colui che è all’opera nei e per i sacri riti della Chiesa.
Ecco perché coloro che sono in “formazione” per il ministero pastorale dovrebbero vivere la liturgia quanto più pienamente possibile nei seminari e nelle case di formazione. I candidati al diaconato permanente dovrebbero essere immersi in un’intensa vita di preghiera liturgica per un tempo prolungato. Aggiungo che la celebrazione piena e ricca della forma antica del rito romano, l’usus antiquior, dovrebbe costituire una parte importante della formazione liturgica del clero. Senza di ciò, come iniziare a comprendere e a celebrare i riti riformati nell’ermeneutica della continuità, se non si è mai fatta l’esperienza della bellezza della tradizione liturgica che conobbero gli stessi Padri del Concilio e che ha forgiato così tanti santi durante i secoli? Una saggia apertura al mistero della Chiesa e alla sua ricca tradizione plurisecolare, e un’umile docilità a ciò che lo Spirito Santo dice oggi alle Chiese, sono un vero segno che noi apparteniamo a Gesù Cristo: “Ed egli disse loro: ‘Per questo ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche’” (Mt 13,52). […]
Secondariamente, ritengo si debba essere chiari a proposito della partecipazione alla liturgia, la participatio actuosa come l’ha chiamata il Concilio. Ciò ha generato molta confusione nel corso degli ultimi decenni. L’articolo 48 della costituzione sulla sacra liturgia dice che “la Chiesa si preoccupa […] che i fedeli non assistano come estranei o muti spettatori a questo mistero di fede, ma che, comprendendolo bene nei suoi riti e nelle sue preghiere, partecipino all’azione sacra consapevolmente, piamente e attivamente”. Per il Concilio, la partecipazione è anzitutto interiore, ottenuta “comprendendolo bene [il mistero dell’Eucaristia] nei suoi riti e nelle sue preghiere”. La vita interiore, la vita sprofondata in Dio e intimamente abitata da Dio, è la condizione indispensabile a una partecipazione fruttuosa e feconda ai santi misteri, che celebriamo nella liturgia. La celebrazione eucaristica dev’essere essenzialmente vissuta dall’interno. È all’interno di noi che Dio desidera incontrarci. […]
Se comprendiamo la priorità d’interiorizzare la nostra partecipazione liturgica, eviteremo il rumoroso e pericoloso attivismo liturgico che s’incontra troppo spesso negli ultimi decenni. Non andiamo alla Messa per dare spettacolo, ma per unirci all’azione di Cristo attraverso un’interiorizzazione dei riti, preghiere, segni e simboli che fanno parte dei riti esteriori. Noi sacerdoti, potremmo ricordarcene più spesso degli altri, visto che la nostra vocazione è il servizio liturgico! Noi dobbiamo altresì formare gli altri, in particolare i bambini e i giovani, all’autentico significato della partecipazione, al modo di pregare la liturgia. […]
In terzo luogo […], io non ritengo che si possa squalificare la possibilità o l’opportunità di una riforma ufficiale della riforma liturgica. I suoi promotori avanzano delle considerazioni giudiziose nel loro tentativo di essere fedeli all’auspicio del Concilio espresso nell’articolo 23 della costituzione, in cui si propone di “conservare la sana tradizione e aprire nondimeno la via ad un legittimo progresso”. Occorrerà sempre iniziare con un accurato studio teologico, storico, pastorale, affinché “non si introducano innovazioni se non quando lo richieda una vera e accertata utilità della Chiesa, e con l’avvertenza che le nuove forme scaturiscano organicamente, in qualche maniera, da quelle già esistenti”.
Onde supportare quanto detto, desidero aggiungere che quando sono stato ricevuto in udienza dal Santo Padre lo scorso aprile, Papa Francesco mi ha chiesto di studiare la questione di una riforma della riforma e il modo in cui le due forme del rito romano si possono arricchire reciprocamente. Sarà un lavoro lungo e delicato e vi chiedo la pazienza e l’assistenza delle vostre preghiere. Se vogliamo mettere in opera più fedelmente Sacrosanctum Concilium, se vogliamo realizzare ciò che il Concilio auspicava, è una questione che dev’essere studiata con attenzione ed esaminata con la chiarezza e la prudenza richieste, nella preghiera e nella sottomissione a Dio. […]
Voglio lanciare un appello a tutti i sacerdoti. Forse avete letto il mio articolo su L’Osservatore Romano di un anno fa (12 giugno 2015) o la mia intervista al giornale Famille Chrétienne nel mese di maggio di quest’anno. In ogni occasione, ho detto che è di primaria importanza ritornare il più presto possibile a un orientamento comune dei sacerdoti e dei fedeli, rivolti insieme nella medesima direzione – verso Est, o perlomeno verso l’abside –, verso il Signore che viene, in tutte le parti del rito in cui ci si rivolge al Signore. Questa pratica è permessa dalle regole liturgiche attuali. Ciò è perfettamente legittimo nel nuovo rito. In effetti, penso che una tappa cruciale è di fare in modo che il Signore sia al centro delle celebrazioni.
Pertanto, cari fratelli nel sacerdozio, vi chiedo umilmente e fraternamente di mettere in opera questa pratica ovunque sia possibile, con la prudenza e la pedagogia necessarie, ma anche con la certezza, in quanto preti, che è una buona cosa per la Chiesa e per i fedeli. La vostra valutazione pastorale determinerà come e quando ciò sarà possibile, ma perché eventualmente non cominciare la prima domenica di Avvento di quest’anno, quando noi attendiamo il “Signore [che] viene senza tardare” (cfr. l’introito del mercoledì della prima settimana di Avvento)? Cari fratelli nel sacerdozio, prestiamo orecchio alle lamentazioni di Dio proclamate dal profeta Geremia: “A me rivolgono le spalle, non la faccia” (Ger 2,27). Rivolgiamoci di nuovo verso il Signore! Dal giorno del suo battesimo, il cristiano non conosce che una direzione: l’Oriente. Ci ricorda sant’Ambrogio: “Tu sei dunque entrato per guardare il tuo avversario, al quale hai deciso di rinunciare faccia a faccia, e ora ti volgi verso l’Oriente (ad Orientem); poiché colui che rinuncia al diavolo si volge verso il Cristo, lo guarda dritto negli occhi” (Sant’Ambrogio, De Mysteriis). […]

[Estratto della conferenza di S.Em. il card. Robert Sarah, Prefetto della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, “Towards an Authentic Implementation of Sacrosanctum Concilium” (versione ufficiale in lingua francese della conferenza qui), svolta il 5 luglio 2016 nel corso del Convegno Sacra Liturgia 2016 (Londra, UK, 5-8 luglio 2016), trad. it. di fr. Romualdo Obl.S.B.]

venerdì 8 luglio 2016

Detestare i vizi

San Benedetto chiede al Padre Abate che “detesti i vizi” (RB LXIV, 11) e di lottare nei tempi opportuni e non opportuni contro il peccato. Come comprendere questo insegnamento alla luce della misericordia, che pure san Benedetto esige dall’abate sia fatta trionfare?
Per iniziare, occorre ammettere che i padri del deserto, e san Benedetto – loro fedele successore –, hanno fatto di questa lotta continua un elemento essenziale del loro percorso di conversione. La pazienza di Dio è presentata come un invito divino a convertirsi, e quindi a lottare contro le proprie colpe. Il codice penitenziale della Regola è molto stretto: ogni mormorazione, ritardo, negligenza, stonatura, dev’essere combattuta, corretta e riparata da una degna soddisfazione. Il modello del monaco è l’eremita, colui che è capace, con l’aiuto di Dio, di affrontare con sicurezza la lotta contro i vizi della carne e dello spirito. Nel quarto capitolo della Regola, intitolato “Gli strumenti delle buone opere”, su 72 comandi, 50 sono negativi – “non dare sfogo all’ira” (RB IV, 22), “non giurare per evitare spergiuri” (RB IV, 27), ecc. –, come se la lotta contro i vizi sia più importante dei precetti positivi.
Ma come fare per detestare i vizi cristianamente, senza cadere punto nell’odio?
È chiaro che per san Benedetto l’anima di ogni conversione è la luce divina: “aprendo gli occhi a quella luce divina” (RB Prologo, 9). Nella nostra personale conversione, se è cosa buona avere paura dell’inferno, è più essenziale desiderare la vita eterna con tutto l’ardore della propria anima. Se è cosa buona vivere sotto lo sguardo di Dio al quale nulla, alcuna azione, nessun pensiero, nessun desiderio sfugge, è più fondamentale essere ben persuasi che prima che noi lo invochiamo, il Signore dice: “Io sono là”. Sì, è là per guidarci, illuminarci, aiutarci. Se è cosa buona piangere i propri peccati e confessarli a un anziano, ciò è alla condizione di non disperare mai della misericordia di Dio.
E ai superiori in cura d’anime – i vescovi, i preti, gli abati, i padri e le madri di famiglia – san Benedetto dà certamente la missione di lottare contro i vizi, le colpe dei temperamenti e le mancanze.
È una missione sacra per la quale il superiore dovrà rendere conto nel giorno del Giudizio. Egli subirà un esame non soltanto a riguardo dello stato della sua anima, ma anche delle anime a lui affidate dal Signore. Che egli corregga pensando sempre alla parabola della pagliuzza e della trave. Che la preoccupazione degli affari altrui lo renda più attento ai propri. Che egli si adatti a tutti i temperamenti. Che egli pensi a correggere progressivamente. Prima di reprimere, che non dimentichi d’istruire. La scelta di un superiore dovrà sempre farsi sull’esame della sua dottrina e del merito della sua vita. Quanti poveri fedeli sono nell’ignoranza a causa dell’assenza d’insegnamento, o peggio ancora, del peccato d’eresia da parte del clero! È un grave peso, un vero lavoro, quello di trovare le giuste parole. Parafrasando l’espressione di san Paolo, è un “partorire di nuovo” (cfr. Gal 4, 19).
Infine, se è cosa buona che il superiore cerchi di farsi temere, egli deve prima di tutto cercare di farsi amare, in ragione del nome stesso che egli porta: “Padre”. Lo avete sicuramente compreso, se è cosa buona detestare i vizi, ciò è unicamente per il fine superiore di amare i propri fratelli.

[Dom Louis-Marie Geyer d’Orth O.S.B., abate del monastero Sainte-Madeleine di Le Barroux, editoriale di Les amis du monastère, n. 158, 21 giugno 2016, pp. 1-2, trad. it. di fr. Romualdo Obl.S.B.]

sabato 2 luglio 2016

Un dono nell’attesa della solennità di san Benedetto: l’Officium Parvum S. Benedicti

Come i nostri lettori più attenti ormai sanno,  a partire dal Natale 2014 - con il prezioso aiuto di valenti amici cui rinnoviamo tutta la nostra gratitudine - abbiamo messo progressivamente a disposizione dei lettori di Romualdica i testi del Breviarium monasticum del 1963 (secondo il codice delle rubriche del 1960), in latino con traduzione italiana a fronte. A tutt’oggi sono disponibili i seguenti uffici monastici: la Compieta; i Vespri domenicali; l’Ora Terza settimanale; l’Ora Sesta settimanale; l’Ora Nona settimanale.
Avvicinandosi ora la solennità di san Benedetto dell11 luglio, in vista della quale inizia oggi la novena, abbiamo ritenuto di mettere a disposizione degli amici di Romualdica - in prima edizione italiana, nella presente versione - il Piccolo Ufficio di san Benedetto (Officium Parvum S. Benedictiex Clm 4927 fol. 187r), in latino con traduzione italiana a fronte, il cui originale in lingua latina è reperibile in appendice allopera di Dom Bruno Albers O.S.B. (ed.), Consuetudines Monasticae, vol. II, Consuetudines Cluniacenses Antiquiores necnon Consuetudines Sublacenses et Sacri Specus, Montecassino 1905, pp. 227-228. Il fascicolo è disponibile in formato pdf al seguente link, oppure tramite la finestra qui in basso.