venerdì 29 luglio 2011

L'olio dei monaci

Il settore oleario dell’Artisanat Monastique de Provence – il marchio che raggruppa le varie attività professionali dell’abbazia Sainte-Madeleine di Le Barroux (produzione agricola di vigneti, olivi e lavanda; forno per la preparazione di pane e pasticceria; casa editrice Éditions Sainte-Madeleine) – si è sviluppato a partire dal 1998, in seguito al recupero di un antico mulino della Toscana a mola di granito, nonché attraverso la riconversione dei locali della falegnameria del monastero.
In un primo tempo i monaci si sono dedicati alla triturazione della raccolta di olive dell’abbazia, ma rapidamente si è reso necessario uno sviluppo dell’attività, per l’interesse crescente che la produzione d’olio extra vergine incontrava, in ragione dell’intimo legame fra il modello tradizionale – vita monastica rigorosa, mulino all’antica – e modernità (macchinari, sicurezza alimentare, analisi, tracciabilità, informatizzazione, ecc.). Il 6 novembre 2008 sono state quindi inaugurate le nuove sedi produttive, conservando le antiche mole di granito.
L’abbazia Sainte-Madeleine di Le Barroux è attualmente il solo monastero in Francia che possiede un mulino, nel quale i monaci realizzano essi stessi il proprio olio d’oliva, così prolungando un’antica tradizione olearia monastica.
Alla variegata linea di olio extra vergine del marchio L’Huile aux Moines, vincitrice ormai di diversi premi di qualità, si è inoltre aggiunta recentemente la produzione di tre linee di saponi artigianali all’olio d’oliva (all’argilla verde, al miele e alla lavanda).
Il tutto è ora presentato attraverso un apposito sito Internet, tramite il quale si troveranno molte ulteriori e dettagliate informazioni, e dal quale è tratto il breve video di presentazione che offriamo qui di seguito, realizzato da Ronan Lumbroso ed Eddy Vicken.

martedì 26 luglio 2011

Ordinazioni diaconali a Le Barroux

[Come abbiamo accennato nel precedente articolo, lo scorso 22 luglio 2011, presso l'abbazia benedettina Sainte-Madeleine di Le Barroux, S.E. mons. Marc Aillet, vescovo di Bayonne, Lescar e Oloron, ha conferito l'ordinazione diaconale a due monaci, nel corso della Messa pontificale nella solennità di santa Maddalena, patrona del monastero, alla presenza di S.E. mons. Paul-Marie Guillaume, vescovo emerito di Saint-Dié. Riportiamo di seguito alcune fotografie del rito, scattate da Olivier Figueras, e che sono state anticipate dal sito New Liturgical Movement]








lunedì 25 luglio 2011

La liturgia ferita

[Lo scorso 22 luglio 2011, presso l'abbazia benedettina Sainte-Madeleine di Le Barroux, S.E. mons. Marc Aillet, vescovo di Bayonne, Lescar e Oloron, ha conferito l'ordinazione diaconale a due monaci, nel corso della Messa pontificale nella solennità di santa Maddalena, patrona del monastero. Avendo partecipato alla bellissima liturgia, ne vogliamo ricordare la circostanza riproducendo di seguito una comunicazione di mons. Aillet al Convegno Teologico dell'11-12 marzo 2010, sul tema Fedeltà di Cristo, fedeltà del Sacerdote, svoltosi presso l'aula magna della Pontificia Università Lateranense]

All’origine del Movimento liturgico, vi era la volontà del Papa san Pio X, in particolare nel motu proprio Tra le sollecitudini (1903), di restaurare la liturgia e renderne maggiormente accessibili i tesori affinché ridiventasse la fonte di una vita autenticamente cristiana, proprio per rilevare la sfida di una crescente secolarizzazione e incoraggiare i fedeli a consacrare il mondo a Dio. Da qui, la definizione conciliare della liturgia come “culmine e fonte della vita e della missione della Chiesa”. Contro ogni aspettativa, come hanno spesso rilevato Papa Giovanni Paolo II e Papa Benedetto XVI, l’attuazione della Riforma liturgica, a volte, ha portato ad una sorta di desacralizzazione sistematica, mentre la liturgia si è lasciata progressivamente pervadere dalla cultura secolarizzata del mondo circostante perdendo così la sua natura e la sua identità: “Questo Mistero di Cristo la Chiesa annunzia e celebra nella sua Liturgia, affinché i fedeli ne vivano e ne rendano testimonianza nel mondo” (CCC n. 1068).
Senza negare i frutti autentici della riforma liturgica, si può dire tuttavia che la liturgia è stata ferita da ciò che Giovanni Paolo II ha definito “pratiche non accettabili” (Ecclesia de Eucharistia, n. 10) e Benedetto XVI ha denunciato come “deformazioni al limite del sopportabile” (Lettera ai vescovi in occasione della pubblicazione del motu proprio Summorum Pontificum). Così è stata ferita anche l’identità della Chiesa e del sacerdote.
Negli anni postconciliari si assisteva ad una sorta di opposizione dialettica fra i difensori del culto liturgico e i promotori dell’apertura al mondo. Siccome questi ultimi arrivavano a ridurre la vita cristiana al solo impegno sociale, in base a un’interpretazione secolare della fede, i primi, per reazione, si rifugiavano nella pura liturgia fino al “rubricismo”, col rischio di incoraggiare i fedeli a proteggersi eccessivamente dal mondo. Nell’esortazione apostolica Sacramentum Caritatis, Benedetto XVI pone fine a questa polemica e ricompone questa opposizione. L’azione liturgica deve riconciliare la fede e la vita. Proprio in quanto celebrazione del Mistero pasquale di Cristo, reso realmente presente in mezzo al suo popolo, la liturgia dà una forma eucaristica a tutta la vita cristiana per farne un “culto spirituale gradito a Dio”. Così, l’impegno del cristiano nel mondo e il mondo stesso, grazie alla liturgia, sono chiamati ad essere consacrati a Dio. L’impegno del cristiano nella missione della Chiesa e nella società trova, infatti, la sua sorgente e il suo impulso nella liturgia, fino ad essere attirato nel dinamismo dell’offerta d’amore di Cristo che vi è attualizzata.
Il primato che Benedetto XVI intende dare alla liturgia nella vita della Chiesa – “il culto liturgico è l’espressione più alta della vita sacerdotale ed episcopale”, ha detto ai vescovi di Francia riuniti a Lourdes il 14 settembre 2008 in assemblea plenaria straordinaria – vuole mettere di nuovo l’adorazione al centro della vita del sacerdote e dei fedeli. Invece e al posto del “cristianesimo secolare” che ha spesso accompagnato l’attuazione della riforma liturgica, Papa Benedetto XVI intende promuovere un “cristianesimo teologale”, il solo in grado di servire quella che ha definito la priorità che predomina in questa fase della storia, ossia “rendere Dio presente in questo mondo e aprire agli uomini l’accesso a Dio” (Lettera ai vescovi della Chiesa cattolica, 10 marzo 2009). Dove, infatti, meglio che nella liturgia, il sacerdote approfondisce la propria identità, così ben definita dall’autore della Lettera agli Ebrei: “Ogni sommo sacerdote, preso fra gli uomini, viene costituito per il bene degli uomini nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati” (Eb 5,1)?
L’apertura al mondo auspicata dal Concilio Vaticano II è stata spesso interpretata, negli anni postconciliari, come una sorta di “conversione alla secolarizzazione”: questo atteggiamento non mancava di generosità, ma portava a trascurare l’importanza della liturgia e a minimizzare la necessità di osservare i riti, ritenuti troppo lontani dalla vita del mondo che bisognava amare e con il quale bisognava essere pienamente solidali, fino a lasciarsi affascinare da esso. Ne è risultata una grave crisi di identità del sacerdote che non riusciva più a percepire l’importanza della salvezza delle anime e la necessità di annunciare al mondo la novità del Vangelo della Salvezza. La liturgia è, senza dubbio, il luogo privilegiato dell’approfondimento dell’identità del sacerdote, chiamato a “combattere la secolarizzazione”; poiché, come dice Gesù, nella sua preghiera sacerdotale: “Non chiedo che tu li tolga dal mondo, ma che li custodisca dal maligno. Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. Consacrali nella verità. La tua parola è verità” (Gv 17,15-17).
Questo certamente sarà possibile attraverso una più rigorosa osservazione delle prescrizioni liturgiche che preservano il sacerdote dalla pretesa, pur inconsapevole, di attirare l’attenzione dei fedeli sulla sua persona: il rituale liturgico che il celebrante è chiamato a ricevere filialmente dalla Chiesa permette, infatti, ai fedeli di giungere più facilmente alla presenza di Cristo Signore del quale la celebrazione liturgica deve essere il segno eloquente e che deve avere sempre il primo posto. La liturgia è ferita quando i fedeli sono lasciati all’arbitrio del celebrante, alle sue manie, alle sue idee o opinioni personali, alle sue stesse ferite. Ne consegue anche l’importanza di non banalizzare dei riti che, strappandoci al mondo profano e dunque alla tentazione dell’immanentismo, hanno il dono di immergerci di colpo nel Mistero e di aprirci alla Trascendenza. In questo senso, non si sottolineerà mai abbastanza l’importanza del silenzio che precede la celebrazione liturgica, nartece interiore dove ci si libera delle preoccupazioni, pur legittime, del mondo profano, per entrare nel tempo e nello spazio sacri, dove Dio rivelerà il suo Mistero; del silenzio nella liturgia per aprirsi più sicuramente all’azione di Dio; e la pertinenza di un tempo di azione di grazia, integrato o non nella celebrazione, per prendere la misura interiore della missione che ci attende, una volta ritornati nel mondo. L’obbedienza del sacerdote alle rubriche è anch’essa segno silenzioso ed eloquente del suo amore per la Chiesa di cui non è che il ministro, cioè il servitore.
Ne deriva l’importanza anche della formazione dei futuri sacerdoti alla liturgia e specialmente alla partecipazione interiore, senza la quale la partecipazione esteriore preconizzata dalla riforma sarebbe senz’anima e favorirebbe una concezione parziale della liturgia che si esprimerebbe in termini di teatralizzazione eccessiva dei ruoli, cerebralizzazione riduttiva dei riti e autocelebrazione abusiva dell’assemblea. Se la partecipazione attiva, che è il principio operativo della riforma liturgica, non è l’esercizio del “senso soprannaturale della fede”, la liturgia non è più opera di Cristo, ma degli uomini. Insistendo sull’importanza della formazione liturgica dei sacerdoti, il Concilio Vaticano II fa della liturgia una delle discipline principali degli studi ecclesiastici, evitando di ridurla ad una formazione puramente intellettuale: infatti, prima di essere un oggetto di studio, la liturgia è una vita, o meglio, è “passare la propria vita a passare nella vita di Cristo”. È l’immergersi per eccellenza di ogni vita cristiana: immersione nel senso della fede e nel senso della Chiesa, nella lode e nell’adorazione, come nella missione.
Siamo dunque chiamati ad un autentico “sursum corda”. La frase del prefazio “in alto i nostri cuori” introduce i fedeli al cuore del cuore della liturgia: la Pasqua di Cristo, cioè il suo passaggio da questo mondo al Padre. L’incontro di Gesù Risorto con Maria Maddalena, la mattina della Risurrezione, è in questo senso molto significativo: con il suo “noli me tangere” Gesù invita Maria Maddalena a “guardare alle realtà dell’alto”, facendole notare di non essere ancora salito al Padre nel suo cuore e invitandola appunto ad andare a dire ai discepoli che egli deve salire al suo Dio e nostro Dio, a suo Padre e nostro Padre. La liturgia è esattamente il luogo di questa elevazione, di questa tensione verso Dio che dà alla vita un nuovo orizzonte e, con questo, il suo orientamento decisivo. A patto di non considerarla come materiale disponibile alle nostre manipolazioni troppo umane, ma di osservare, con un’obbedienza filiale, le prescrizioni della Santa Chiesa.
Come affermava Papa Benedetto XVI nella conclusione della sua omelia nella solennità dei Santi Pietro e Paolo del 2008: “Quando il mondo nel suo insieme sarà diventato liturgia di Dio, quando nella sua realtà sarà diventato adorazione, allora avrà raggiunto la sua meta, allora sarà sano e salvo”.

venerdì 8 luglio 2011

Le Barroux, infine !

[Grazie alla bontà del Signore, fra qualche ora l'oblato, con la moglie oblata e i cinque figli al seguito, si recheranno per un periodo di riposo e ricentramento della loro vita interiore, presso i "loro" santi monaci dell'abbazia che li ha accolti mediante l'oblatura nella famiglia spirituale del monastero provenzale Sainte-Madeleine di Le Barroux, di cui ci siamo occupati in varie occasioni su Romualdica, e in maniera particolare qui e qui. L'oblato, l'oblata e i figli al seguito avranno così modo, fra l'altro, di pregustare un po' di Cielo partecipando in abbazia alle solennità del Nostro Santo Padre Benedetto – l'11 luglio – e di santa Maddalena, patrona del monastero (e della regione), il 22 luglio. Romualdica s'interrompe quindi per qualche settimana, ma saluta i propri amici e lettori con la promessa di una preghiera intensa per loro, e offre di seguito qualche fotografia del luogo, quale pegno d'amicizia e invito caloroso a recarsi in questo cuore di vita spirituale e liturgica: "Venite e vedrete" (Gv 1,39)]

Veduta generale dell'abbazia Sainte-Madeleine; sullo sfondo, le "dentelles de Montmirail"

Veduta aerea del complesso abbaziale

Veduta generale degli edifici monastici

La chiesa abbaziale alla luce dell'aurora

L'ingresso degli officianti alla Messa comunitaria

Veduta d'insieme di una funzione liturgica nella chiesa abbaziale

La comunità monastica attorno alla tomba del fondatore e primo abate, Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008),
in occasione della Messa Pro 3° anniversario obitus, il 28 febbraio 2011


mercoledì 6 luglio 2011

Carmen in Laudem S. Benedicti

[Avvicinandosi la solennità di san Benedetto, che l’11 luglio viene festeggiato quale Patrono d’Europa, riproduciamo una lunga poesia – 33 distici – dedicata al patriarca del monachesimo occidentale da un poeta di nome Marco, del quale si conosce pochissimo. La datazione è incerta, ma pare comunque da porsi tra il VI e l’VIII secolo.
Al di là della datazione più o meno vicina alla morte del santo – tradizionalmente datata il 21 marzo 547 –, si tratta comunque dell’unico testo che si proponga come testimonianza della vita di san Benedetto, al di fuori del secondo libro dei Dialoghi di san Gregorio Magno (ca. 540-604).
Ne proponiamo la versione italiana del latinista Marco Galdi (1880-1936), così come utilizzata dall’abate Dom Placido Lugano O.S.B. Oliv. (1876-1947) nella sua Antologia Benedettina (Istituto Padano di Arti Grafiche, Rovigo 1948, pp. 174-178), precedendola dall’introduzione al testo dello stesso monaco olivetano (ibid., pp. 171-172).
Un particolare ringraziamento per l’aiuto a Cristiano Andreatta.]

Il carme di Marco poeta

Il carme di Marco in onore del S. Patriarca, rinvenuto nel cenobio benedettino di Mantova e pubblicato per la prima volta nel 1590 nel vol. III dei Carmina vetera del bresciano Prospero Martinengo, fu accolto da Angelo della Noce in calce al Cronicon di Leone Ostiense, dal Muratori (RR. II. SS., IV, 605-6), dal Migne (P. L., LXXX, 184), dal Mabillon (Acta SS. O.S.B., I, 28-9) e dal Tosti (Della Vita di S. Benedetto, 1892, p. 343-5).
In questi ultimi anni è stato oggetto di studio. Già il Tosti, nell’utilizzare la sostanza, dichiarò questi pochi distici, «scritti con tanta intenzione di affetto, che ogni sillaba getta uno sprazzo di luce sui fatti del suo maestro» (p. 168). D. Giuseppe De Luca, che ne ha dato un’ottima versione italiana, li dice «pieni di commozione vera e rallegrati qua e là da una luce autentica di poesia» (S. Benedetto, Vita e Regola in antichi volgarizzamenti, Firenze, 1923, p. 169). Marco Galdi gli ha dedicato un succoso studio (Il Carme di Marco poeta e l’apoteosi di san Benedetto, Napoli, Luigi Loffredo editore, 1929, pp. 44), in cui sottopone i trentatrè distici ad un diligente esame storico e filologico, ritenendo questo carme per il «più antico documento sulla vita e sull’attività prodigiosa del Santo di Norcia», e giudicando che questi versi «sono un efficace e animato commento di alcuni fatti che più colpirono l’immaginazione del poeta, e più ne commossero il cuore; un abbozzo poetico, schizzato con agile mano e con pennellate sicure e potenti» (p. 10). Egli riconosce che il poeta ha un gusto e una sensibilità indiscutibilmente superiori alla sua età e che principali suoi modelli sono Virgilio e Ovidio.
Il card. I. Schuster ha dedicato a questo carme il cap. LVIII della sua Storia di san Benedetto e dei suoi tempi (Milano, Vita e Pensiero, 1943, pp. 377-386), mettendo in rilievo che il carme deve essere stato scritto dopo la morte del Santo e che esso rappresenta una tradizione parallela, ma indipendente da quella gregoriana. Vi si descrive il soggiorno di San Benedetto a Subiaco e a Montecassino; l’opera sua missionaria a Cassino e i lavori intrapresi per la costruzione del monastero. Secondo l’affermazione del carme, a Cassino si rendeva culto anche a Giove, ma i vecchi templi cadevano in rovina e non vi accedeva oramai che la stola plebe rusticana; nel viaggio a Cassino, il Santo fu accompagnato da tre corvi, suoi vecchi amici e commensali; lo stesso Cristo gli fu guida e due giovani angeli ad ogni bivio gli mostravan la via; le popolazioni sublacensi rimpiangono la partenza del Patriarca; lo seguono e ritornan desolate. Ma il Santo nella nuova sede è intento a lavori per mutare il luogo dissacrato in una rocca di vita eterna, a provvedere di acqua la sommità delle montagne, a rovesciare gli idoli, a consacrare al Dio vivo e vero i templi antichi, a spianare la vetta, ridurla a coltivazione e munirla di strade. Cassino è tramutato in fiorito giardino, coltivato dai monaci, che in coro cantano le divine lodi mentre il Maestro sta assorto in colloquio con Dio.
Questo il fondo del carme. Il poeta si rivela nel nome: Marco. Visse sotto la disciplina di san Benedetto, venuto a lui, oppresso da colpe, ma colla speranza di godere della vita superna in virtù della preghiera del Santo, al quale chiede il miracolo di una rigenerazione spirituale, mutandogli in frutto le spine maligne che ne squarciavano il torpido cuore.
Paolo diacono, nell’Historia Longobardorum, ha tenuto conto del carme di Marco.

Carme in lode di S. Benedetto

Allor che il cieco vulgo forme profane adorava
e i propri manufatti credeva fosser numi;
un giorno avea qui eretto sacrari su diruti altari,
ove cruente vittime caddero all’empio Giove.
Ma qui giunse ispirato dal cielo e all’invito del colle
san Benedetto e il suolo purificò dai riti.
E i marmi sculti infranse, rovesciò le statue e volle
che in questo luogo un tempio sorgesse al vero Dio.
Qui venga chi gli spazi del ciel contemplare desia
né del sentier l’asprezza mai gli distolga il voto.
Costantemente il grande con aspro lavoro si acquista,
stretta una strada adduce alla vita beata.
Qui non appena io venni sotto il grave peso di colpe,
libero mi sentii del pesante fardello.
E credo anch’io felice di godere un giorno cielo,
se pel tuo Marco preghi, san Benedetto mio.
Un dì la stola plebe avea questo luogo nomato
la «rocca», dedicandola a deità di marmo.
Pur se qualcun si fosse del verace nome servito,
ben lo avrebbe appellato un infernale caos.
Al quale d’ogni parte correvano in frotte gli stolti
a sciorre turpi voti pel mortifero Giove.
Ma penso che a quest’inclita sede ben fu apposto quel nome
chiamando «rocca» il tempio che qui adesso si ammira
Dove la porta è chiusa ormai dell’eterna geena,
e rocca è della vita l’arce che fu di morte.
Arce da cui si tocca la porta del cielo stellato,
mentre felice il popolo intona canti angelici.
Di qui tu al vero Dio parli, o Benedetto, del monte
abitatore e duce solitario del coro.
E d’altro colle venendovi per ispirazione divina,
nell’ermo ti guidava Cristo che è duce e via.
Infatti ad ogni bivio mandava due angeli innanzi,
perché ti assicurassero il cammin da seguire.
Ed al sol uomo giusto che qui si trovava Egli disse:
lasciamo questo colle, un altro amico arriva.
Or che ascendesti al cielo, s’avviluppa in tenebre il monte
e livido s’è fatto come le nebbie sue.
Versando abbondantissime lacrime ora gemono gli antri
e le caverne struggonsi di pianto ne’ lor seni.
Commossi di dolore ti piangono i limpidi laghi
e la selva le chiome lacere sparge al vento.
Si penserà ch’io inventi; ma perché sol non partisse,
tre corvi meritarono d’accompagnarti al cielo.
Qui ti cercano i popoli, qui dentro rinchiuso, e lo attesti
quando aspetti le veglie pie della notte sacra.
Come orfani non cessano di piangere con rauche loquele,
perché furono orbati della presenza tua.
Ma innanzi al tuo passaggio cedetter le rupi e i pruni
e zampillò dell’arida terra mirabil’acqua.
Certo il monte di Cristo, che su tutti gli altri sovrasta,
Ecco che a’ piedi tuoi il suo vertice umilia.
E perché sulla vetta il tuo culto prosperi e cresca,
esso abbassa la cima ed appiana il terreno.
E ad evitar fatica per chi, Benedetto, a te viene,
piega in dolce declivio ovunque i fianchi obliqui.
Giusto onore ti rende questo monte al quale recasti
tanto ben divenendo il suo maggior decoro.
Tu qui l’aride zolle trasformi in ameni giardini,
Le nude rocce copri di pampini fecondi.
Si ammiran sulle rupi le biade ed insoliti frutti,
e verdeggia la selva di fruttifere chiome.
Così gli sterili atti degli uomini in frutti converti,
di salutari linfe rigando gli arsi cuori.
Così, ti prego, in messi trasforma le spine moleste,
che lacerano il cuore del tuo inerte Marco.