martedì 22 marzo 2011

Una regola di vita interiore / prima parte

«Non credete ai distruttori delle regole
che parlano in nome dell’amore.
Là dove la regola è frantumata, l’amore abortisce»
.
(Gustave Thibon)


Introduzione


Due parole riassumono magnificamente la spiritualità monastica del XII secolo: Magnitudo, grandezza dell’uomo immagine di Dio, e rectitudo, lo sforzo necessario di rettitudine dopo la caduta nel peccato originale. La parola regola, che ha la stessa radice di rectitudo, non ha una buona fama, salvo tra i monaci benedettini che vedono nella Regola del loro patriarca un monumento di saggezza e l’espressione santissima della volontà di Dio.
Vittime da due secoli di una falsa filosofia, abbiamo finito per vedere nella regola un intralcio alla libertà, quando invece ne è la condizione stessa. Quarant’anni fa Gustave Thibon aveva lanciato questo terribile avvertimento: «Disprezzi le regole, le tradizioni e i dogmi. Non vuoi imporre nessun inquadramento dottrinale al tuo bambino, al tuo discepolo; benissimo. Gli dai da bere un vino prezioso, dimentichi solo di dargli una coppa; cos’è il vino senza coppa? Un ruscello che cade a terra, ed eccolo versato, produce il peggior fango».
La tradizione militare e l’esperienza del comando testimoniano in favore dell’obbedienza alla regola. Ecco le parole di un ufficiale (capitano André Bridoux, Souvenirs du temps des morts):
«Più la regola è severa, più c’è libertà. Questo si capisce. Un capo sicuro dei suoi subordinati può essere generoso nel concedere favori.
«Si può soffrire qualche volta di essere comandati troppo o male; si soffre ancora di più di non esserlo affatto, perché il disordine si produce subito e la più grande disgrazia pesa allora sui piccoli.
«Questo rispetto della regola stretta porta lontano, e in particolare a una grande severità nei giudizi perché, secondo questo principio, il cavaliere d’Assas non ha fatto che il suo dovere; è meglio appoggiarsi alla perfezione della regola che sull’imperfezione della natura.
«Gli uomini saranno sempre obbligati ad assicurarsi contro sé stessi. La buona volontà non è sufficiente, perché presto si piegherebbe di fronte alla prova ripetuta del pericolo della morte, prima ancora davanti al ripetersi di lavori semplici ma noiosi che riempiono la vita del soldato e che sono tuttavia indispensabili»
.
Quante anime rimpiangono tardi di non avere saputo serrare la propria vita in un corsetto di ferro di una regola morale esigente! Il suo impiego ragionevole avrebbe loro risparmiato lo spettacolo desolante di un’esistenza senza regole, fatta di mollezza e di pigrizia. «Ah! Se si potesse rifare…», si dicono con un tono toccante. Ma la parola inesorabile del poeta cade come una spada: Never more!
Senza una disciplina personale, non c’è artista, non c’è scrittore, non c’è ingegnere; talento personale e santità sono votate allo scacco. Senza regola, non c’è capolavoro, non c’è vita contemplativa, non c’è elevazione mistica. È arrivato il momento di sbarazzarsi degli slogan faciloni che ricoprono il suolo putrescente di questo tempo, e di ritrovare il segreto degli antichi per diventare, non degli imbroglioni disonesti, ma dei saggi artigiani delle nostre vite. Non ricordo quale scrittore diceva: «Il genio consiste nel sedersi all’ora prefissata al proprio tavolo di lavoro».
Comunque bisogna ricordare – soprattutto per quanto riguarda l’ordine spirituale – il paragone stabilito da Charles Péguy tra le regole dure e le regole morbide, queste essendo più esigenti di quelle, perché impegnano l’uomo in una zona di profondo legame. È solo in questo senso, e non senza qualche apprensione, che proponiamo una regola di vita dell’anima.

[Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), Une règle de vie intérieure, originariamente in Itinéraires, n. V (seconda serie), marzo 1991; poi, in versione aumentata, come pubblicazione a sé stante dal titolo Une règle de vie, Editions Sainte-Madeleine, Le Barroux 1994; da quest’ultima ripresa in Benedictus. Écrits Spirituels. Tome II, Editions Sainte-Madeleine, Le Barroux 2010, pp. 376-402 (da cui la presente traduzione; qui pp. 376-378), trad. it. delle monache del Monastero San Benedetto di Bergamo / 1 - continua]