lunedì 24 gennaio 2011

Una vita impregnata di Scrittura e di liturgia / ultima parte


La Vulgata diventava parte della mente del monaco al punto che egli giungeva a pensare in quel linguaggio, a vedere le cose alla luce di quei simboli e di quelle immagini; a poco a poco per lui tutto l’universo si permeava della poesia e del significato della Scrittura. E ciò era tanto più semplice e facile in quanto ogni cosa si concentrava su questo punto. Il monaco non aveva altri interessi. Ogni altra lettura verteva sulla Scrittura, perché i monaci leggevano soltanto quello che, più o meno, era un commento della Vulgata.
L’influenza di questo genere di vita interiore appare manifesta a chi legga una pagina di san Bernardo o di sant’Ailred. Bernardo, specialmente, è poeta al modo d’Isaia (per quanto la sua migliore poesia sia tutta prosa), perché il suo linguaggio ridonda dell’esuberanza vegetale del grande profeta dell’Incarnazione. Lo stile dell’abate di Clairvaux è così ricco, fresco, ingegnoso e immediato, che si vorrebbero vedere i suoi sermoni sul Cantico illustrati da Eric Gill.
Questa è l’atmosfera di tutta la spiritualità cistercense: ed è incomparabile.
I cistercensi trasfiguravano il Vecchio Testamento con la loro unica grande ossessione: l’amore di Cristo. In questo infatti consisteva il loro «metodo» per arrivare a Cristo e per mantenersi in contatto con Lui. Essi non facevano meditazioni sistematiche su Cristo, non possedevano storie psicologiche e scientifiche della vita di Cristo. Ma avevano l’abitudine di vedere Cristo in ogni pagina della Bibbia, sia nel Vecchio sia nel Nuovo Testamento. E portando impressa nella memoria la sostanza della Vulgata, essi andavano dovunque con una miniera inesauribile di materiale in cui la loro fede trovava Cristo sotto ogni simbolo, sotto ogni allegoria, sotto ogni immagine; tutto parlava loro dell’unione dell’anima contemplativa con il Verbo di Dio mediante puro amore. Ciò che più importava, la semplice fede e l’ardente desiderio dei monaci davano spesso il frutto da essi più cercato: il «tocco» ineffabile della sostanza divina che scendeva nel fondo del loro essere in un diretto contatto di mistico amore, che riempiva la loro stessa sostanza di saggezza e di pace.
La contemplazione infusa era il fine a cui tendeva tutto questo semplice e armonioso intreccio di liturgia e di preghiera, di lettura e di sacrificio, di povertà, di lavoro e di vita comunitaria. La preghiera mistica era l’espressione più piena della vita cistercense, il fine a cui tutti venivano incoraggiati ad aspirare, per quanto non tutti, e forse nemmeno la maggioranza, fossero in grado di raggiungerlo. Ma non importava se essi non gustavano in terra la perfezione di questa esperienza. L’importante era amare la volontà di Dio, vivere ed adempire la Sua volontà e contribuire nel modo migliore alla Sua gloria con una perfezione di obbedienza e di umiltà.
Ma il risultato ultimo di questa combinazione – un paio di centinaia di monaci e fratelli che vivevano questa esistenza in tutte le sue ramificazioni – fu che per alcune decine d’anni e in una ventina dei più pii cistercensi delle abbazie cistercensi la vita contemplativa venne vissuta, e vissuta in comunità, con una semplicità, una completezza e una perfezione sconosciute nel mondo dal tempo degli Apostoli.
Questa rimane ancora la funzione peculiare dei monaci bianchi della Chiesa: contemplare Dio in quella perfezione accessibile a uomini che vivono in comunità, contemplare Dio notte e giorno, estate e inverno, per tutto l’anno, non solo come individui in una comunità, ma precisamente come una comunità.
E questa è la vocazione cistercense.

[Dom M. Louis (Thomas) Merton O.C.S.O. (1915-1968), Le acque di Siloe, trad. it., Garzanti, Milano 2001, pp. 358-360]