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Bernardo Luca Sanz (c. 1650-c. 1710), San Benedetto, olio su tela del 1700, presso il Monastero San Benedetto di Bergamo |
Il codice penitenziale della Regola di san Benedetto
Consentitemi di parlarvi del codice penitenziale
della Regola, che rappresenta una parte alquanto lunga e apparentemente
spaventosa dell’opera di san Benedetto. Ma il santo fondatore ci rassicura
immediatamente. Il codice penitenziale è al cuore di una visione più grande e
più luminosa. Il monastero è fondamentalmente una scuola al servizio del
Signore e una strada che segue un orientamento positivo. Nello spirito di san
Benedetto, Dio ha messo del bene in noi, ci invita a seguirlo nella gloria e ad
aprire i nostri occhi alla luce che divinizza. San Benedetto parla inoltre della
dolcezza della virtù e della carità che scaccia ogni timore. Infine, egli
conclude la sua Regola sul buon zelo e su un’umile constatazione: non tutto è
contenuto nei 73 capitoli della Regola. Egli lascia così dei grandi confini in
prospettiva.
Ma san Benedetto sa anche che il monaco è un
peccatore, che egli sia abate, priore, ufficiale, fratello anziano, adulto o
novizio. Se il peccato non è al centro della sua spiritualità, esso rimane
comunque là, assai presente. Ecco perché, come padre colmo di saggezza
realista, egli dedica una parte non trascurabile della sua Regola a un codice
penitenziale, che respira con i suoi due polmoni: la giustizia e la
misericordia.
La
giustizia
San Benedetto fonda anzitutto il suo codice
penitenziale sulla giustizia, in tre modi.
a) Un
contratto
Il monaco che fa la sua professione conosce la
Regola, riferimento oggettivo per tutti. Essa dev’essere letta spesso, per
escludere ogni pretesa d’ignoranza. La Regola non è un regolamento di caserma,
ma una regola di vita con un regolamento conosciuto e accettato. Si sa quel che
si può fare e ciò che non si deve fare. A Vicovaro, il monastero dove egli ha
esercitato il suo primo ministero d’abate, san Benedetto non permise più ciò
che era interdetto dalla Regola in vigore in quel luogo. Questo gli valse un
tentativo di assassinarlo da parte dei suoi monaci.
Il riferimento alla Regola si oppone alla decadenza
della comunità, come pure all’arbitrarietà e alle passioni dei superiori:
collera, gelosia e abuso o, in altro senso, accecamento, indolenza e affetto
particolare troppo indulgente. Si tratta di una medesima Regola e quindi della
stessa luce per tutti: perché la giustizia è fondamentalmente oggettiva.
Infine, compete all’autorità, e non a qualunque
fratello, il diritto e il dovere di correggere. Del resto, quelli che
correggono gli altri senza mandato, saranno essi stessi corretti, e così la
Regola vale per tutti.
b) Una
giusta proporzione
Non si tratta del precetto “occhio per occhio,
dente per dente” dell’antica legge – che d’altro canto frenava l’esagerazione
della vendetta –, ma della giusta proporzione fra la dose del rimedio da
applicare e l’ampiezza del male da sradicare.
I fatti pubblici dovranno essere riparati
pubblicamente. Dom Gérard ci disse un giorno in capitolo che la legge morale
era un po’ come una barriera. Rompendola, anche solo una volta, la comunità
poteva immaginare di non esistere più. È quindi necessario riparare
pubblicamente, rimettere in sesto questa barriera, per l’edificazione di tutti,
ma anche per una più grande onta del colpevole, al fine di guarirlo. In questo
modo il bene comune è rispettato.
Più la colpa è grave o più volte essa è ripetuta –
il fratello mostrando in ciò una mancanza di buona volontà –, maggiormente la
penitenza dovrà essere importante. Per esempio, i ritardi meritano la pena
leggera di rimanere all’ultimo posto in coro. Ma la disobbedienza scandalosa
merita fino all’esclusione. In sintesi, la pena sarà tanto più rigorosa quanto
più la colpa è grave.
Quanto più il fratello ha delle responsabilità,
maggiormente si deve applicare il codice penitenziale, perché la corruzione dei
migliori è sempre la peggiore. Occorre in effetti tenere conto del cattivo
esempio e le inevitabili prese di parte della comunità che possono conseguirne.
Due ragioni spiegano l’imposizione rapida della
pena: da una parte perché il vizio o la cattiva abitudine contratta non
ingrandiscano. D’altro canto, affinché il nesso fra la colpa e la sanzione sia
sensibile. Giacché non serve a nulla rimproverare a qualcuno una colpa commessa
da sei mesi!
Concretamente, devo precisare che le colpe
menzionate da san Benedetto sono: il mormorare, disobbedire, la mancanza di
puntualità, le colpe di canto al coro, o di cura per i più piccoli, i malati o
gli anziani, l’infedeltà nella lettura, le mancanze nel silenzio e nella
clausura, e infine la negligenza per le cose materiali, che devono essere
trattati come i vasi sacri.
c) Fino in
fondo
La pena dovrà seguire una progressione conforme al
giudizio dell’abate: egli comincerà con un primo avvertimento, poi un secondo e
infine – se necessario – un terzo. In seguito egli passerà alla correzione
regolare, a una punizione da compiere, come una visita al santissimo sacramento
o la recita del Salmo 22. Se, Dio non
voglia, è necessario andare oltre, l’abate può deporre il monaco dalla sua
carica. E se tutto questo risulta inefficace, l’abate dovrà spingersi fino
all’espulsione del monaco dal monastero; misura estrema la cui procedura
canonica assicura la difesa dell’accusato.
La giustizia dev’essere compiuta fino in fondo e
non deve semplicemente coprire la colpa con un velo. San Benedetto chiede che
il fratello riconosca la propria colpa e faccia penitenza fino a che il Padre
Abate avrà giudicato sufficiente la soddisfazione. La giustizia di Dio è una
giustificazione; essa rende giusto, trasforma il cuore in profondità, in vista
di condurre una nuova vita, sotto la guida del Vangelo e al seguito di Cristo.
La
misericordia
La misericordia è ben presente nella Regola e
nell’applicazione della giustizia. Essa la precede, l’accompagna e la sorpassa.
Si potrebbe dire che essa la compie.
a) La misericordia precede la giustizia, nel senso
che la giustizia è una lotta preservante la carità, la virtù e il bene di
ciascun fratello. La Regola chiede al superiore di fare un esame di coscienza
prima di agire. Per esempio, nel capitolo sul priore, gli chiede di determinare
se è la gelosia, la collera o il bene a ispirarlo. Il potere di rendere
giustizia esige d’agire in coscienza e necessita una certa attitudine a entrare
in sé stesso, al fine di fare prevalere la luce della ragione e della vera
carità.
b) Essa l’accompagna, nel senso che la giustizia
dev’essere applicata in maniera misericordiosa. Anzitutto, in maniera
progressiva, come prima si è detto. Si previene una volta, due volte, se
necessario tre volte, e se questo non basta la disciplina regolare ne consegue.
Procedendo in tal modo, la giustizia piena di misericordia si richiama alla
ragione e non alla brutalità.
La misericordia presta attenzione a non raschiare
la ruggine, a non spegnere il lucignolo fumigante. Il Padre Abate deve
ricordarsi che è egli stesso oggetto della misericordia di Dio, e che deve
togliere la trave dal proprio occhio prima di togliere la pagliuzza dall’occhio
dei fratelli. Qualora si giungesse al parossismo, Dio non voglia, e i legami si
rompono, il Padre Abate invierà una “senpecta” – un amico fidato – che
consolerà il monaco affinché non sia sommerso da eccessiva tristezza. E se
tutto questo non sarà sufficiente, rimane infine la misericordia della
preghiera, supplicando lo Spirito santo di riscaldare i cuori.
c) Infine, la misericordia sorpassa la giustizia.
San Benedetto chiede che il Padre Abate cerchi di essere più amato che temuto.
Egli deve sempre fare trionfare la misericordia sulla giustizia. Non fare
scomparire la giustizia, ma credere che per convertire i cuori, la misericordia
è più efficace della stretta giustizia, affinché i monaci non antepongano
assolutamente nulla a Cristo, che ci conduca tutti insieme alla vita eterna.
Voi mi direte: ah!, ciò che chiede san Benedetto è
impossibile: andare fino in fondo con la giustizia e fare sempre prevalere la
misericordia. Non è impossibile, è il modo di agire della Provvidenza, che
guida sempre fortiter e suaviter – con forza e dolcezza –,
secondo lo stesso Spirito santo, e che san Gregorio Magno chiama “l’arte delle
arti”.
[Dom Louis-Marie Geyer d'Orth O.S.B., abate del monastero
Sainte-Madeleine di Le Barroux, Lettre aux oblats, n. 91, 5 ottobre 2015,
pp. 1-2, trad. it. di fr. Romualdo Ob.S.B.]