sabato 12 gennaio 2013

Gli oblati benedettini

Monaci eremiti della Beata Vergine del Soccorso
di Minucciano (Lucca) assieme a un oblato della comunità
L’oblato benedettino secolare è il cristiano, uomo o donna, laico o chierico che, vivendo nel proprio ambiente familiare e sociale, riconosce e accoglie il dono di Dio e la sua chiamata a servirlo, secondo le potenzialità ed esigenze della consacrazione battesimale e del proprio stato; si offre a Dio con l’oblazione, ispirando il proprio cammino di fede ai valori della S. Regola e della Tradizione spirituale monastica” (Art. 2 dello Statuto degli oblati benedettini secolari italiani).
 
Origine
 
Oblatus, participio passato del verbo latino offerre, indica l’azione dell’essere offerto, e, nella Regola di San Benedetto, è descritta la procedura dell’oblazione dei figli da parte di nobili, che, avvolgendo la mano del fanciullo nella tovaglia dell’altare, lo donavano per sempre al Signore nel monastero a cui rivolgevano la petizione prescritta.
Testimonianze della prassi suddetta si rilevano già dal II° libro dei Dialoghi di S. Gregorio Magno, laddove sono citati casi di figli offerti da patrizi romani a Montecassino, per essere educati al servizio di Dio.
Sin da allora, molto prima che finisse il tempo di esercitare la patria potestà imponendo la scelta di vita ai propri figli, oblati furono anche adulti che offrivano se stessi ad un monastero. Alcuni prestavano la loro attività preferendo l’ambiente di lavoro monastico ad altri o desiderando sottrarsi alle angherie di potenti signori. Altri si affiliavano ad un monastero pro remedio animae assicurandosi la preghiera dei monaci per la conversione dei loro costumi e per la salvezza dell’anima e spesso chiedevano di essere sepolti nel cimitero monastico.
 
Esempi di oblazione
 
La storia registra, nel corso dei secoli, vari modi di legarsi spiritualmente ad una comunità monastica, vivendo all’interno delle mura del monastero e indossando uno speciale abito o frequentando il monastero per la preghiera o il lavoro. Alcune figure sono state assunte a modelli. Segnaliamo due donne: S. Francesca Romana (1384-1440), patrona degli oblati, ed Elena Lucrezia Cornaro Piscopia (1645-1684), la prima donna laureata nel mondo.
Francesca, oblata del monastero olivetano di S. Maria Nuova in Roma, ha dedicato tutta la vita alla pace della sua città e all’unità della Chiesa; si è interessata dei poveri , dei malati, dei morenti, della riconciliazione degli avversari. Sposa, madre, vedova, membro autorevole di comunità, fu sempre animata dalla preghiera e dall’esercizio dell’obbedienza.
Elena Lucrezia Cornaro Piscopia fu proclamata nel 1678 magistra et doctrix in filosofia. Formata sui classici, critica nei confronti dell’aristotelismo tradizionale e attenta all’esperienza naturale, concreta e decisa nelle sue scelte anche politiche, fu piissima oblata, impegnandosi nello studio e nell’esercizio della carità, nella preghiera semplice e nella partecipazione alla liturgia monastica, prima a S. Giorgio in Venezia, dove ratificò la sua oblazione, poi presso l’Abbazia di S. Giustina in Padova, dove è sepolta.
 
L’oblato oggi
 
Dall’epoca di S. Benedetto sino ad oggi, la Regola benedettina è la guida dell’oblato, il punto di riferimento costante dal momento in cui egli si sente chiamato a vivere in modo consapevole e radicale l’inserimento nel corpo di Cristo, nel quale è innestato con il Battesimo, legandosi spiritualmente ad una comunità monastica benedettina.
Stabilendo un legame strettamente personale con il monastero, della cui famiglia si sente chiamato a far parte, l’oblato ascolta (prima parola della Regola di San Benedetto) e ob-audisce, piega l’orecchio del cuore e, lottando contro ogni inerzia dello spirito, si mette a camminare.
La sua vita si caratterizza per una costante ricerca della volontà di Dio e delle meraviglie che Dio opera in mezzo al suo popolo, da scoprire nelle infinite modalità in cui Egli si rivela, dal testo sacro: Parola di Dio di cui l’oblato si nutre nell’esercizio quotidiano della lectio divina, alla natura, agli eventi quotidiani, agli strumenti di lavoro, alle persone: monaci e oblati a lui donati come fratelli e sorelle. Si caratterizza nel vivere alla presenza di Dio offrendo a Lui, in comunione con il proprio monastero, una lode che è lode della Chiesa, rendimento di grazie al Padre in Cristo Gesù, opera concorde della mente e della voce (cfr. RB 19,7).
L’oblato vive del proprio lavoro (cfr. RB 48,8) ed è consapevole di rendere così un servizio agli uomini suoi fratelli, e di collaborare attivamente al completamento della divina creazione.
Il Concilio Vaticano II ha esortato i laici perché “imparino ad offrire se stessi, e di giorno in giorno, per la mediazione di Cristo, siano perfezionati nell’unità con Dio e tra di loro, di modo che Dio sia finalmente tutto in tutti” (SC 48). È questo un programma di vita per gli oblati, chiamati, come i monaci e con i monaci, all’unità (monos), alla semplificazione e unificazione di se stessi, nell’interminabile percorso della conoscenza di sé, alla continua riconciliazione con Dio e con i fratelli, a recuperare e custodire l’armonia del cosmo, ad operare la pace; il tutto perducatum Evangelii (RB prol., 21), sino a realizzare il “nulla anteporre all’amore di Cristo” (RB 4,21; cfr. RB 72,11), cioè l’affermazione di Paolo “non sono più io che vivo ma Cristo vive in me” (Gal 2,20).
Perciò lo Statuto già citato recita, all’art. 3: “L’oblato si impegna ad una forma di vita che sia progressiva conformazione a Cristo, unico scopo della sua oblazione e della spiritualità benedettina, che con la sua stessa vita cercherà di irradiare nel mondo, divenendo testimone della perenne vitalità della vita monastica nell’esperienza cristiana”.
Mentre cresce il legame di fraternità autentica tra gli oblati di un medesimo monastero , con la stima, il rispetto, la condivisione della Parola ascoltata e celebrata, la riflessione pregata, come si addice a persone riunite nel nome del Signore; le relazioni vicendevoli tra gruppi di oblati aiutano a vivere la dilatazione del cuore (cfr. RB prol., 49), e così l’accoglienza di nuovi membri, di nuove situazioni, di nuovi ospiti, per i quali si accoglie la perenne Novità della storia che è Cristo.
Profondamente convinti del valore del monachesimo, gli oblati sono impegnati a conservare e trasmettere il carisma benedettino, interpretandolo con fedeltà creativa, segnalando nuovi percorsi e assumendosene la piena responsabilità, perché le modalità diverse di attuazione del carisma, a seconda degli stati di vita, non lo sminuiscano, anzi possono spingerlo ad una maggiore fecondità e comunque si unificano profondamente nel mistero di comunione della Chiesa e si coordinano dinamicamente nell’unica missione, per l’universale vocazione alla santità e alla pienezza dell’amore.
 
L’atto dell’oblazione
 
L’oblazione è l’atto liturgico-spirituale riconosciuto dalla Chiesa (cfr. Statuti art. 3), risultato di un tirocinio formativo, che si prolunga per un periodo variabile, a giudizio dell’Abate e della comunità, con cui l’aspirante entra in rapporto. Si concretizza, sotto la guida dell’Abate o di un assistente da questi delegato, nel cammino personale di conversione proposto dalla RB, nella partecipazione alla preghiera e al lavoro monastico, in modi anche molto differenziati da un monastero ad un altro, nel dialogo, a volte in un arricchente confronto. Crescendo nella fede e con la pratica delle buone opere (cfr. RB prol., 21), gli oblati si impegnano a rendere visibile il Cristo Signore della storia.
La carità perfetta ha inizio – ci insegna il nostro S.P. Benedetto – dalla sopportazione vicendevole delle infermità fisiche e spirituali (cfr. RB 72,5). La discrezione, virtù benedettina, che raccoglie in sé buon senso ed equilibrio, umiltà e semplicità di cuore, sarà alla radice dell’evangelizzazione del nostro mondo. La nostalgia dell’unità, dell’armonia con sé stessi, con Dio, con i fratelli e con la natura, è nel profondo del cuore di ogni uomo e attende la forza che la tiri fuori e la conduca a pienezza.
 
[Nota pubblicata sulla pagina facebook Eremo di Minucciano il 29 giugno 2011]

venerdì 11 gennaio 2013

Missa Romana

[L'11 gennaio 1977, trentasei anni fa, moriva a Roma la poetessa, scrittrice e traduttrice Cristina Campo, pseudonimo di Vittoria Guerrini (1923-1977), di cui abbiamo pubblicato alcuni testi su Romualdica (cfr. qui, qui e qui). La ricordiamo, oltre che nella preghiera, riproducendo una sua poesia, Missa Romana.]


I
 
Più inerme del giglio
nel luminoso
sudario
sale il Calvario
teologale
penetra nel roveto
crepitante dei millenni
si occulta
nell’odorosa nube della lingua.
 
Curvato da terribili
venti
bacia sacre piaghe in silenzio
eleva e mostra
pure palme trapassate
mendica pace
tra pollice e indice tende
un filo sull’abisso del Verbo.
 
Dagli ossami dei martiri
tritume di gaudio
cresce
la radice di Jesse
sboccia nel calice rovente
e nella bianca luna
crociata di sangue e
stendardo
che sorgendo gli fiacca
i ginocchi.
 
Sulla pietra angolare
ci spezza la morte
la eleva all’orizzonte delle lacrime
la posa
con materno terrore
su stimmate di labbra
a medicare
la vita.
 
Intorno al pasto
mortale
tra i lembi del Dio
sibilano serpenti addentano il corporale
ai quattro angoli del conopeo
si arrotolano i fogli
dei cieli
crepe saettano nei pilastri.
 
Ossessi
alla porta
nel profumo di peste
mimano e vendono con lazzi
agli infermi e deformi
della probatica
vasca
la sua soave maschera di suppliziato.
 
II
 
Falconiere del Cielo
sulla cui mano alzata
piomba l’eterno Predatore
avido di prigione...
 
III
 
Dove va
questo Agnello
che ai vergini è dato
seguire ovunque vada dove va
questo Agnello
stante diritto e ucciso
sul libro dei segnati
ab origine
mundi?
 
Non si può nascere ma
si può restare
innocenti.
 
Dove va
questo Agnello
che a noi gli ucciditori non è dato
seguire coi segnati
né fuggire
ma singhiozzando soavemente concepire
nel buio grembo della mente
usque ad consummationem
mundi?
 
Non si può nascere ma
si può morire
innocenti.

mercoledì 9 gennaio 2013

Ritorno al rito tradizionale all'Abbazia cistercense di Vyšší Brod

Tramite il sito Rorate Caeli apprendiamo che l'Abbazia cistercense di Vyšší Brod, nella Repubblica Ceca, la cui fondazione risale al 1259, è recentemente tornata all'uso liturgico tradizionale dell'Ordo Cisterciensis (O.Cist.). Non è il primo caso di ritorno all'Usus Antiquior in ambiente monastico cistercense: si ricorderà il caso dell’Abbazia di Mariawald, in Germania (diocesi di Aachen), che in virtù del privilegio concesso dal Santo Padre tramite la Pontificia Commissione Ecclesia Dei, nel 2008 ha intrapreso un completo ritorno alla liturgia e all’osservanza in uso nell’Ordine Cistercense della Stretta Osservanza (Trappisti) fino al 1963-1964, secondo l’Usus di Monte Cistello (Roma 1964). Lo stesso Padre Abate dell’Abbazia di Mariawald, Dom Josef Vollberg O.C.S.O., si è recato il 15 dicembre 2012 presso l'Abbazia di Vyšší Brod, dove ha celebrato una Messa pontificale (estratto video della celebrazione al link di Rorate Caeli sopra riportato).







 

martedì 1 gennaio 2013

Il mistero del Natale continua

Siete così presenti a quel che costituisce la sostanza della nostra vita che non esito a rendervi partecipi della felicità di avere celebrato il Natale nel seno della nostra famiglia monastica. Vorremmo farvene condividere il sapore. Come esprimersi? Vi è la Notte, Nox sancta, il 25 dicembre; c’è il nostro presepe (come a casa vostra), lo scampanio annunciante i solenni mattutini meticolosamente preparati; vi sono la Messa di mezzanotte, la Messa dell’aurora e quella del giorno. Così accade in tutte le abbazie sorelle in cui monaci e monache ascoltano le letture e rispondono riempiendo la notte con i loro canti. Al primo notturno le letture del mattutino sono quelle dell’Antico Testamento che predicono l’avvento di un salvatore, e al secondo notturno ascoltiamo Papa san Leone Magno, del secolo V, dirci attraverso la voce del lettore queste parole ancora fresche: «Il nostro Salvatore, carissimi, oggi è nato: rallegriamoci! […] Riconosci, cristiano, la tua dignità […], reso partecipe della natura divina». Che audacia in queste parole che ci raggiungono in questa notte sin nel più profondo dell’anima!
Tuttavia, credete forse cari amici che una volta spenti i ceri e deposti gli ornamenti, si arrestino i fasti delle nostre grandi solennità? Senza dubbio, nel suo dispiegamento esteriore, la liturgia deve segnare una pausa; ciò nonostante la grazia soprannaturale infusa mediante gli splendori del rito perdura nelle anime. Essa è un dono più ineffabile e più prezioso di tutte le manifestazioni della cultura religiosa. Questa grazia è invisibile agli sguardi degli uomini. È una specie di miracolo interiore. È di essa che vi vorrei dire qualche parola.
Natale non appartiene al passato: bisogna viverlo per tutta la vita. È il mistero della generosità divina che celebra la generazione eterna del Figlio nel seno del Padre e l’uscita al di fuori del Figlio che diventa simile a ciascuno di noi: Dio discende presso di noi affinché noi saliamo presso di lui, o piuttosto, come dicono i Padri della Chiesa, Dio si è fatto uomo affinché l’uomo si faccia Dio. Questo Figlio amatissimo rivive in noi, mediante la comunicazione della sua grazia e della vita intima che custodisce il suo Cuore di Uomo-Dio. Ecco perché vi è una gioia misteriosa del Natale che non passa mai. La nascita in noi del Figlio di Dio deve metterci in uno stato di rinascita continua e di fioritura interiore, un risveglio, un dispiegamento progressivo – che sia questa lo spirito infantile? –, per fare di noi, lungo tutta la vita, dei figli che crescono sotto lo sguardo del loro Padre.
Occorre quindi fare attenzione a non rinchiudere ermeticamente la pietà filiale di Gesù negli anni trascorsi a Nazareth. Si noti che è durante la sua Passione che lo slancio d’amore del Figlio verso il Padre assume tutta la sua ampiezza: «Bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre […]. Alzatevi, andiamo via di qui. […] Padre, è venuta l'ora: glorifica il Figlio tuo […]. Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Gv 14,31 - 17,1; Lc 23,46). Ugualmente, se Resurrezione e Ascensione segnano il ritorno del Figlio nella gloria del Padre, vi è che questa risalita verso il Padre esprime la relazione essenziale che dà tutto il suo significato alla vita del Redentore.
Gesù è così essenzialmente e perfettamente Figlio in ogni istante della sua vita, che nascita, ritrovamento nel Tempio, morte e risurrezione, non fanno che svelare un aspetto di questo mistero unico: vi è continuamente perfetta e splendida unità fra il Generato eterno, il Bambino di Betlemme, la vittima sulla Croce e il Figlio risuscitato dai morti.
Ecco perché, cari oblati, v’invito a prolungare in tutta la vostra vita la grazia del Natale, considerando questo mistero non come un avvenimento transitorio, ma come una costante che imprime a tutta la vostra esistenza il suo significato e la sua unità profonda. Nessun pensiero, nessuna azione non può che passare da un asse attorno al quale l’essere si organizza e rimane diritto. Tale asse è la Lettera agli Ebrei, che interpretando il Salmo 39 come il pensiero segreto del Bambino che sta per nascere, ce ne fornisce la chiave in una visione meravigliosamente immobile e stabile che durerà tutta la vita: «Entrando nel mondo, Cristo dice:Ecco, io vengo […] per fare, o Dio, la tua volontà» (Eb 10, 5-7). A dodici anni, egli risponde a sua madre che lo cerca da tre giorni: «Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio (Lc 2,49). Che bella unità potremmo dare alla nostra esistenza, semplificandola e accordandola a questa grande linea retta e pura che collega la pietà del Figlio a Colui da cui procede ogni bontà!
 
[Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), Le mystère de Noël continue, 6 gennaio 1997, in Benedictus. Tome III. Lettres aux oblats, Éditions Sainte-Madeleine, Le Barroux 2011, pp. 154-156, trad. it. di fr. Romualdo Obl.S.B.]