domenica 26 dicembre 2010

La più alta perfezione di vita

Sopra ogni altra cosa, voi dovete sforzarvi di tenere la vostra anima costantemente indirizzata alla contemplazione e il vostro spirito sempre diretto a Dio e alle cose di Dio. Altre pratiche possono fare una maggiore impressione esterna, quali le veglie, la mortificazione del corpo, il digiuno ed altri esercizi simili. Ma tutto ciò, per quanto necessario, deve essere considerato come una questione di importanza relativamente secondaria, e solo valido in quanto aiuta a purificare il cuore. La causa per cui così pochi sono coloro che raggiungono la perfezione sta nel fatto che si spendono tempo ed energie per cose che hanno un valore relativamente piccolo e si presta così poca attenzione alle cose che veramente contano. Così, se volete raggiungere il vostro scopo, entrate in voi stessi e ritiratevi da tutto il resto, per quanto vi è possibile. Tenete in tranquilla purezza gli occhi del vostro cuore, distogliendo i vostri pensieri dalle forme degli esseri inferiori; liberate le vostre volontà dalle cure della terra e restate uniti a Dio sovrano mediante un amore fervente... e così la vostra anima, protesa verso Dio con tutti i suoi poteri e le sue energie, diventerà una stessa cosa, un solo spirito con Lui; e questa, come noi sappiamo, è la più alta perfezione di vita.

[Anonimo cistercense del secolo XII, cit. in Le Directoire Spirituel des Cisterciens Reformés, Bricquebec 1910, p. 41]

mercoledì 22 dicembre 2010

Christe, Redemptor omnium - O Cristo, che tutto redimi


Tu lumen, tu splendor Patris,
tu spes perennis omnium,
intende quas fundunt preces
tui per orbem servuli.


Salutis auctor, recole
quod nostri quondam corporis,
ex illibata Virgine
nascendo, formam sumpseris.


Hic praesens testatur dies,
currens per anni circulum,
quod solus a sede Patris che,
mundi salus adveneris.


Hunc caelum, terra, hunc mare,
hunc omne quod in eis est,
auctorem adventus tui
laudat exsultans cantico.


Nos quoque, qui sancto tuo
redempti sumus sanguine,
ob diem natalis tui
hymnum novum concinimus.


Iesu, tibi sit gloria,
qui natus es de Virgine,
cum Patre et almo Spiritu,
in sempiterna saecula. Amen.


[O Cristo, che tutto redimi, Figlio Unigenito del Padre, dal Padre prima di tutte le cose, generato in maniera indicibile. / Tu luce, Tu splendore del Padre, Tu di tutti perenne speranza, porgi l’orecchio alle suppliche, che dalla terra elevano i tuoi servi. / Autore della salvezza, ricorda che un tempo, nascendo da purissima Vergine, assumesti un corpo simile al nostro. / Così il giorno presente ci attesta, nel suo annuale, ciclico ritorno, uscendo dal seno del Padre, venisti Tu solo a redimere il mondo. / Il cielo, la terra, il mare, e tutto ciò che in essi ha vita, celebrando il tuo giorno natale, esultano con inni di lode. / Noi pure, che siamo stati redenti, dal tuo preziosissimo Sangue, per il giorno del tuo natale, un canto nuovo intoniamo. / Sia gloria a te, Signore, nato dall’intatta Vergine, con il Padre e il Santo Spirito, nei secoli dei secoli. Amen.]

L’inno si apre con una solenne professione di fede: Cristo è invocato quale Redentore dell’universo e noi ci poniamo davanti a lui nella giusta relazione: siamo peccatori salvati che con gratitudine e stupore desiderano cantare il grande mistero del Natale e diffonderne la notizia fino agli estremi confini della terra. È chiaro il riferimento alla prima lettera di Giovanni:

«Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (poiché la vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta» (1 Gv 1,1-4).

Proseguendo, la prima strofa dell’inno offre una mirabile sintesi teologica dell’evento dell’Incarnazione, rimandando immediatamente al Prologo del Vangelo secondo Giovanni:

«In principio era il Verbo,
il Verbo era presso Dio
e il Verbo era Dio.
Egli era in principio presso Dio:
tutto è stato fatto per mezzo di lui,
e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste.
In lui era la vita
e la vita era la luce degli uomini»
(Gv 1,1-4).

L’amore del Padre – che è lo Spirito Santo – genera il Figlio. La nascita del Verbo nel seno del Padre è avvolta per noi nel silenzio, è ineffabile mistero, come ineffabile è la sua risurrezione. Di lui si dice che è unicus e solus: unico, senza paragoni. Perfezione d’amore che non chiude in sé, ma apre al dono. Noi scaturiamo dalla sovrabbondanza d’amore che lega il Padre e il Figlio nello Spirito. Per mezzo del Figlio, infatti, tutto è stato creato e tutto, dopo il peccato, viene ricreato. Colui che è unicus e solus, non considerando un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio (Fil 2,6), diventa primogenito tra molti fratelli, anzi, una cosa sola con loro, membra dello stesso corpo (Rm 8,29; Col 1,18).
La seconda strofa dell’inno, superando la distanza che separa il cielo e la terra, dà voce ai sentimenti che animano l’assemblea orante, e si rivolge a Gesù con accenti tenerissimi e traboccanti di ammirazione. Per ben tre volte in due soli versetti ritorna il «Tu», carico di affetto, sempre seguito da parole-chiave che descrivono l’ineguagliabile bellezza dell’Unico: luce, splendore, perenne speranza.
Da ogni parte della terra a lui salgono le preghiere degli uomini che umilmente si dichiarano – come Maria al momento dell’Annunciazione – suoi piccoli e poveri servi, vale a dire da lui dipendenti e a lui orientati. La maestà divina e la piccolezza umana si incontrano nella supplica, che è come un protendersi delle braccia dell’umanità verso il cielo, verso la sfera della trascendenza, verso Dio.
Nella terza strofa, come toccando le corde del cuore di questo Verbo che è lo splendore dell’eterno Padre, l’inno sprigiona una melodia delicatissima, dove compare finalmente anche il nome della Madre, Vergine purissima.
Memento, ricordati... Come sono belle le preghiere sia dell’Antico che del Nuovo Testamento che si rivolgono a Dio chiedendogli di ricordarsi di noi, di tenerci nel suo cuore! Nei pericoli o nell’angoscia, nel momento del dolore e dell’incertezza, l’uomo cerca rifugio nel cuore di Dio e, senza chiedere nulla di preciso, gli dice soltanto, come il buon ladrone a Gesù: «Ricordati di me!» (Lc 23,43).
Mentre nella seconda strofa si esaltava la sublime bellezza del Verbo eterno, ora l’orante invita Gesù a ricordarsi della sua propria piccolezza, di essere cioè stato uomo, di essersi fatto uno di noi, di essersi rivestito di carne mortale e di aver gioito e sofferto con noi.
Tu, l’Unigenito che eri nella maestosa gloria del Padre, nascendo da una Vergine hai assunto una forma umana, ti sei fatto debole. Perché?
Nella lettera agli Ebrei sono descritte proprio le conseguenze benefiche di questo inconcepibile abbassamento:

«Ed era ben giusto che colui, per il quale e del quale sono tutte le cose, volendo portare molti figli alla gloria, rendesse perfetto mediante la sofferenza il capo che li ha guidati alla salvezza. Infatti, colui che santifica e coloro che sono santificati provengono tutti da una stessa origine; per questo non si vergogna di chiamarli fratelli» (Eb 2,10-11).

Lui, l’Unigenito, diventa primogenito di una moltitudine di fratelli che acquista pagandoli con il prezzo del suo sangue, della sua passione e morte. Gesù viene nel mondo per rivelarci che abbiamo un Padre buono nei cieli, che non siamo creature destinate all’ira divina, ma figli chiamati alla gloria. A tale mèta si giunge unendoci al Cristo in modo da «all’impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo, e liberare così quelli che per timore della morte erano soggetti a schiavitù per tutta la vita» (Eb 2,14b-15). È la missione che il Padre ha affidato al suo Unigenito e che il Figlio a sua volta ha affidato alla Chiesa.
Ed eccoci al cuore dell’inno, al dies praesens, in cui si attualizza il mistero dell’Incarnazione del Verbo. Emerge subito l’assoluta novità della concezione cristiana del tempo: non un ciclico susseguirsi di eventi che perennemente ritornano identici a sé stessi, e neppure fuga di istanti che inesorabilmente vanno verso il nulla: per il cristiano l’anno è un sentiero che si percorre camminando sotto un cielo trapuntato di stelle, attraversando ora prati fioriti, ora terre riarse, andando sempre di novità in novità. I giorni che si susseguono sono unici e inconfondibili; ritornando nello scorrere degli anni, non si ripetono, ma portano una grazia nuova. Ogni giorno è atteso per sé stesso e ogni anno la celebrazione del Natale ci fa rivivere l’evento unico che fu la venuta di Cristo nella carne per la salvezza del mondo.
Egli era solo – solus – nel seno del Padre ed è disceso per essere salus, salvezza per tutti. Davanti a questo prodigio di carità, davanti a questo «eccesso» di amore compassionevole, da ogni parte dell’universo le creature coralmente elevano un inno di lode: esultano in cielo gli angeli e i santi e alla loro voce si unisce il canto degli uccelli; esulta sulla terra l’uomo che dà voce anche al «filo d’erba assetato», esulta il mare spazioso e vasto, dove guizzano senza numero pesci piccoli e grandi... (Sal 104).
L’intero universo è coinvolto nell’evento dell’Incarnazione perché il Verbo, entrando nel mondo, tutto santifica e trasfigura. Cristo è veramente cosmico. La Liturgia ci fa unire al canto degli angeli che nella Notte Santa annunziano ai pastori la nascita del Salvatore del mondo cantando: «Gloria in excelsis Deo, et in terra pax hominibus bonae voluntatis» (Lc 2,14). Questo Figlio del Padre, che diventa Figlio dell’uomo, congiunge Dio e l’umanità, è un ponte gettato dal cielo sulla terra, perché dalla terra l’umanità possa ascendere al cielo. Tutti lo riconoscono e lo adorano: dapprima i pastori, gli umili, i poveri, poi arrivano anche i sapienti che, prostrati davanti a quel Bambino, scorgono in lui il re della gloria, il Signore dell’universo.
In questa processione ci siamo pure noi. Che cosa ci caratterizza? La consapevolezza di essere l’oggetto più immediato dell’amore di Dio: siamo dei «salvati», redenti a prezzo del preziosissimo sangue di Cristo. La greppia già annunzia la croce. Rinati grazie al perdono ricevuto, intoniamo un canto nuovo, hymnum novum concimus: lo cantiamo insieme, perché la comunione è il principale contrassegno della vita nuova in Cristo.
Sintonizzati con tutte le creature, anzi prestando loro la voce, apprendiamo il canto dagli angeli e lo diffondiamo fino agli estremi confini della terra.
L’esplosione di giubilo nella notte di Natale esprime proprio la gratitudine, il rendimento di grazie per quella «volontà» amorevole di Dio che si china con compassione sull’umanità e su ogni piccola creatura bisognosa anch’essa di redenzione, perché il peccato dell’uomo ha trascinato con sé nella morte anche tutta la creazione, come spiega bene san Paolo nella lettera ai Romani: «essa infatti è stata sottomessa alla caducità – non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa – e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio» (Rm 8,20-21).
Quest’attesa ormai si è compiuta: le tenebre del peccato ora sono penetrate e dissolte dalla luce della vera vita. Accogliendola, diventiamo anche noi viventi per l’eternità, partecipi della gloria divina. Per sempre – in sempiterna saecula – intoniamo, dunque, un canto di lode, che si congiunge a quello degli angeli e dei santi; un canto che viene dal cielo e torna al cielo. Questo canto è Gesù stesso e noi siamo le note che egli assume ed armonizza per fare di esse un unico inno di lode al Padre della vita, inno dal tono solenne, ma non senza un accento accorato. È il nostro dolore, il nostro pentimento per aver fatto soffrire l’Amore. Tuttavia proprio nell’Amore il dolore si trasfigura in gioia indicibile che si gusta soltanto nella profondità del silenzio del cuore. Mistero che meno si intende e meno si capisce, più si adora: è l’omaggio della pura fede, che si fa preghiera:

O Cristo, splendore del Padre,
apparso uomo tra gli uomini,
l’ombra della nostra carne
che hai assunta nel grembo della Vergine
non ha nascosto la tua divina bellezza,
non ha velato la luce dei tuoi occhi.
Nel tuo corpo di Bimbo appena nato
è racchiusa la pienezza della Vita,
quella che avevi quale Unigenito del Padre
prima che cielo e terra, per mezzo tuo, fossero creati.
Tu, Unico nel seno dell’Altissimo,
sei divenuto Primogenito di molti fratelli.
Ricordati che povero sei nato in mezzo a poveri,
ricordati che una madre ti ha nutrito col suo latte
e che da umili pastori sei stato riscaldato
con la soffice lana degli agnelli.
Ricordati che sei venuto a mostrarci
Il volto dell’eterno Padre:
trasformaci nell’intimo a tua immagine,
inondaci con la pace del tuo Spirito,
e, insieme ad ogni creatura
rinnovata dal tuo Amore,
ti canteremo «Gloria» senza fine.
Amen.


[Anna Maria Cànopi O.S.B., I Canti dell’attesa e dell’incontro, commento agli inni di Avvento e Natale, Abbazia “Mater Ecclesiae”, Isola San Giulio - Orta (Novara) 2005]

lunedì 20 dicembre 2010

Meditazioni sull’Avvento - O Iesu vivens in Maria

Jean-Jacques Olier, fondatore del Seminario di Saint-Sulpice, è una delle figure più coinvolgenti della pleiade di scrittori spirituali e di santi che, più tardi, si convenne di chiamare la scuola francese di spiritualità.
Figlio di un ricco consigliere al parlamento, condusse inizialmente una vita dissipata, mista dei piaceri del mondo con onori per una carriera ecclesiastica agli albori.
All’età di 22 anni, ritornando dalla fiera di Saint-Germain in compagnia di alcuni giovani sacerdoti, una popolana di nome Marie Rousseau, commerciante in vino, li avvicinò sulla strada e disse loro: «Purtroppo, signori, mi fate pena! È da tempo che prego per la vostra conversione. Spero che un giorno Dio mi esaudirà». Le preghiere di questa semplice donna non furono inutili.
«Dio permise – scriverà Olier – che numerosi sacerdoti (noi eravamo cinque o sei, di cui io sono il peggiore) presi in considerazione nel mondo abbandonassero, in seguito, ogni cosa per seguire Gesù Cristo e fare professione dei suoi insegnamenti. Riguardo a me, riconosco che la mia prima conversione dipende da questa anima santa» (Mémoires autobiographiques, t. II, p. 306).
Intraprese da allora a convertirsi e si diede agli studi e agli esercizi dovuti al suo stato con uno zelo esemplare. Ma ciò che contribuì di più a farlo avanzare nella vita interiore, fu il ritiro che seguì nel 1636 in una casa in campagna, vicino a Parigi, sotto la direzione del Padre Charles de Condren, allora superiore generale dell’Oratorio. Durante questo ritiro ricevette una grande grazia che gli fece gustare la presenza dell’inabitazione di Gesù Cristo nell’anima, e Padre de Condren gli insegnò a ridurre tutta la pratica della vita spirituale all’unione interiore con Gesù Cristo. Poi gli lasciò una formula di preghiera le cui prime parole erano: «Vieni, Signore Gesù, e vivi nel tuo servo».
Commosso dall’ispirazione della grazia, Olier volle aggiungere a questa preghiera qualcosa che esprimesse la sua devozione per quello che chiamava l’«interiore di Maria». Lui stesso scrisse queste parole rivelatrici:
«Il cielo e la terra non hanno niente che avvicini a questa vita, a questa interiorità meravigliosa nella quale si trovano ogni adorazione, lode, amore della Chiesa, degli uomini e degli angeli» (La vie intérieure de la Très Sainte Vierge, cap. 23).
Olier modificò dunque la preghiera di Padre de Condren, e alla formula «Vieni, Signore Gesù, e vivi nel tuo servo», sostituì questa: «O Gesù, che vivi in Maria, vieni e vivi nei tuoi servi». Così nacque la famosa preghiera O Iesu vivens in Maria, in uso in tutti i seminari sulpiziani, che segnò così profondamente la pietà del clero francese.
Eccola esattamente come la scrisse:
O Jesu vivens in Maria, veni et vivet in famulis tuis, in spiritu sanctitatis tuae, in plenitudine virtutis tuae, in perfectione viarum tuarum, in veritate virtutum tuarum, in communione mysteriorum tuorum, dominare omni adversae potestati in Spiritu tuo ad gloriam Patris. Amen.
Eccone la traduzione:
O Gesù, che vivi in Maria, vieni e vivi nei tuoi servi, nello spirito della tua santità, nella pienezza della tua forza, nella perfezione delle tue vie, nella verità delle tue virtù, nella comunione dei tuoi misteri, esercita il tuo dominio su ogni potenza nemica nel tuo Spirito a gloria del Padre. Amen.
Fermiamoci sulle prime parole di questa preghiera: «O Gesù, che vivi in Maria». Il migliore commento è stato fatto da san Luigi Maria Grignion de Montfort nel suo Trattato della vera devozione alla Santa Vergine:
«Io dico con i santi: la divina Maria è il paradiso terrestre del nuovo Adamo, dove questi si è incarnato per opera dello Spirito Santo, per operarvi meraviglie inimmaginabili. È il grande e divino mondo di Dio, dove egli custodisce bellezze e tesori ineffabili; è la magnificenza dell’Altissimo, dove è nascosto come nel proprio seno il suo unico Figlio e, in lui, tutto ciò che egli ha di più grande e prezioso. Oh! quante cose grandi e nascoste ha compiuto il Dio potente in questa creatura meravigliosa; ella stessa si sente costretta a proclamarlo, nonostante la sua profonda umiltà: “Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente”. Il mondo non le conosce, poiché non ne è capace né degno».
Questa vita di Gesù in Maria, è anzitutto la presenza terrena e carnale dell’Incarnazione. Il Verbo di Dio, racchiuso nel seno verginale di sua madre, immerso nella notte di questo mondo nel corso di nove mesi di gestazione, acconsente a essere nutrito e rivestito di carne, aspettando umilmente il suo giorno come tutti i figli degli uomini. E la corte celeste guarda con spavento questo nuovo stato della trascendenza divina: Non horruisti virginis uterum! Quando durante l’ufficio notturno, i monaci e le monache pronunciano questo versetto del Te Deum, fanno un inchino profondo in segno di riverenza verso questo Dio «che non ha avuto orrore del seno di una vergine».
Questa presenza carnale di Gesù in Maria è un mistero di cui si dovrebbe parlare con estrema delicatezza. I Padri vi hanno visto la fase iniziale della Chiesa – mai sarebbe stata così santa – e l’annuncio di una nuova economia della salvezza: Dio, attraverso il suo Verbo, tocca la sua creatura e la penetra più profondamente che nello stato dell’innocenza.
Hanno paragonato il seno purissimo di Maria tanto a un palazzo, suggerendo così la dignità incomparabile di questo luogo esente da sozzure, tanto a una camera nuziale, indicando allora il mistero ineffabile nel quale il Verbo divino si degnò di alzare l’anima di Maria e attrarla a sé, donandole la sua luce con effusioni e dimostrazioni d’affetto delle quali non esiste analogia con nessun altro ordine di creature. Mistero profondo che eleva Maria all’ordine ipostatico, un ordine a parte che appartiene solo a lei e che la pone ai confini della vita trinitaria.
Ma questa presenza di Gesù in sua madre non lo allontana da noi. Diventando il cielo di Dio, Maria diventa nello stesso tempo il modello e l’archetipo dell’anima-cielo al quale ogni creatura deve conformarsi per vivere a sua volta il mistero dell’inabitazione divina: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Gv 14,23).
La preghiera di Padre de Condren, con il ritocco del suo discepolo, si rischiara di una luce nuova e acquista una pienezza cui dovrà ispirarsi la dottrina mariana dei secoli successivi.
O Jesu vivens in Maria! - «O Gesù, che vivi in Maria, vieni e vivi nei tuoi servi!».
Gli elementi che seguono la dolce invocazione c’istruiscono brevemente sui diversi modi della presenza divina e suggeriscono un’attitudine spirituale.
Nello spirito della tua santità.
Per prima cosa è richiesto con audacia al Sovrano Maestro che Egli si manifesti in uno spirito di santità, affinché l’attitudine fondamentale di tutta l’anima interiore sia adorazione.
Adorare è riconoscere l’infinita grandezza e santità di Dio.
La santità è l’attributo divino per eccellenza. Qualcosa di ordinato e gerarchico regola le antiche formule di preghiera.
La prima domanda del Pater reclama, anch’essa, che sia riconosciuto santo, cioè trascendente, adorabile, impronunciabile il mistero del Nome divino.
L’adorazione, la soglia della preghiera cristiana, allontana da noi un’antica tentazione religiosa: ridurre Dio, servirsi di Dio.
Trattare Dio come Dio è la prima condizione per trattare con Dio.
Non si può domandare a Dio che si manifesti altrimenti che nella verità della sua essenza.
Nella pienezza della tua forza.
La quinta antifona alle Lodi di Natale canta: «È nato un bambino. Lo si chiamerà Dio, forte». È descritta l’energia divina che emanava dal Verbo incarnato: «Una virtù usciva da Lui che guariva tutti». Una virtù, cioè una forza medicinale. In Maria, Gesù non aveva niente da guarire; Egli la sopraelevava solamente e rifiniva un universo di grazia di una bellezza già incomparabile. In noi purtroppo il Dio forte trova non pochi ostacoli. Vieni, Dio forte, sii più forte di me; fai che mi pieghi: flecte quod est rigidum (sequenza di Pentecoste). Forza la barriera delle mie volontà di ribellione: ad te nostras etiam rebelles compelle propitius voluntates (secreta della Messa della IV domenica dopo Pentecoste). Bisogna sottolineare che quando la liturgia canta l’anima di una Vergine, la descrive salda perché Dio si è stabilito al suo centro: Deus in medio ejus non commovebitur (versetto di Sesta, comune delle Vergini). Così sarà Gesù nell’anima di sua Madre e nella nostra, se solo lo vogliamo.
Nella perfezione delle sue vie.
Le vie di Dio sono i disegni della sua Provvidenza. Le vie della Sapienza sono immutabili, dice la Scrittura: «I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le mie vie non sono le vostre vie, dice il Signore». La sottomissione dolce, gioiosa, risoluta al governo di Dio, è la sapienza umana accordata alla Sapienza divina. O Gesù, maestro interiore, conducici sulla via stretta che porta alla vita.
Nella verità delle sue virtù.
Con il pericolo di cadere in errore di stoicismo, diciamo apertamente che non ci sono altre virtù se non quelle di Gesù Cristo riprodotte nelle nostre anime. Non domandiamo un qualsiasi vigore ma la virtù del Figlio. La sola vera. Vieni, Signore Gesù; imprimi in noi i tratti della tua somiglianza. Abbiamo sete di rivestire l’uomo nuovo e di presentare agli occhi del Padre il viso di suo Figlio prediletto.
Nella comunione dei suoi misteri.
Si starà attenti a imitare Gesù Cristo dal di fuori come si copia un modello esterno. L’imitazione di Gesù Cristo è la riproduzione della sua vita in noi attraverso la comunione, l’adesione, l’applicazione della nostra anima a quella che il cardinale de Bérulle chiamava i misteri della vita di Cristo o gli stati del Verbo Incarnato. Ecco quello che dice il cardinale de Bérulle sul permanere dei misteri: «Sono passati quanto all’esecuzione ma sono presenti quanto alla virtù… Lo Spirito di Dio attraverso il quale questo mistero è stato operato, lo stato interiore del mistero esteriore, l’efficacia e la virtù che rende questo mistero vivo e operante in noi… anche il gusto attuale, la disposizione viva con la quale Gesù ha operato questo mistero è sempre vivo, attuale e presente a Gesù… questo ci obbliga a trattare le cose e i misteri di Gesù non come cose passate ed estinte, ma come cose vive, presenti e anche eterne, di cui dobbiamo raccogliere anche un frutto presente ed eterno».
Esercita il tuo dominio.
Le ultime parole della preghiera di Olier hanno il vigore di un ordine militare, invitano al combattimento, alla pratica delle virtù, all’azione condotta contro tutte le potenze nemiche, nello Spirito, a gloria del Padre.
In che modo si riconoscono le grandi preghiere cattoliche? Rigore, concisione, equilibrio, ricchezza dottrinale, ne assicurano l’eccellenza. Ma l’apice è il sapore contemplativo dell’invocazione iniziale. Tutto dipende dalla qualità di questo primo tratto: O Jesu vivens in Maria! - «O Gesù, che vivi in Maria, vieni e vivi nei tuoi servi». Beata richiesta che si basa sulla contemplazione dell’anima di Maria inondata dalla presenza del Verbo: la vita di Gesù in sua Madre diviene non solo oggetto di una contemplazione ammirativa, ma una fonte luminosa alla quale l’anima cristiana regolerà i suoi moti interiori.
Più tardi, Bossuet con le sue Élévations sur les Mystères, alle quali darà una forma abbagliante, e soprattutto Padre de Montfort, saranno debitori a Olier, che seppe parlare dell’interiorità di Maria con accenti di una soavità senza precedenti.
«Non si può conoscere né l’estensione della preferenza di Gesù verso Maria, né la forza e la purezza dell’amore di Maria verso Gesù: è una prova di fede, e più è di fede, più è santa e divina, e dà più sapore all’interiorità dell’anima. O soggiorno adorabile, quello di Gesù in Maria! O segreto meritevole di silenzio! O mistero profondo degno di adorazione! O commercio incomprensibile! O società di Gesù e di Maria inaccessibile agli occhi di tutte le creature!» (La vie intérieure de la Très Sainte Vierge, cap. 23).
È un gran guadagno per l’anima frequentare tali autori. Il loro entusiasmo comunicativo, la loro pietà ammirativa ma discreta e il loro gusto interiore per le cose divine ne fanno dei degni rappresentanti di quel XVII secolo, classico anche per la spiritualità.

[Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), Méditations pour l’Avent, in Benedictus. Ecrits Spirituels. Tome I, Editions Sainte-Madeleine, Le Barroux 2009, pp. 42-50, trad. it. delle monache benedettine del Monastero San Benedetto di Bergamo]

venerdì 17 dicembre 2010

Chiesa celeste: la nostra vera patria

L’instabilità dell’uomo moderno deriva in gran parte dal fatto che ha perso il senso della vita comune; l’individuo destabilizzato, perché concentrato su sé stesso, ha bisogno, per restare davvero sé stesso, di appartenere a una comunità visibile, o invisibile. Non faremo un processo alla società civile, nella quale il collettivismo anticomunitario individualizza gli esseri abbandonandoli ai flutti incolori di una massa senza struttura; ma come non riconoscere, purtroppo, lo stesso fenomeno nell’ordine ecclesiale? Ora la Chiesa, Sposa e Corpo mistico di Cristo, è la società più diversificata, strutturata, gerarchizzata che esista: dal vertice fino alla base, tutto porta l’impronta di una gerarchia sacra che emana dal suo centro vivificante. Questa Chiesa celeste composta da angeli ed eletti, che i nostri pittori primitivi hanno rappresentato con occhi spalancati, mani giunte e disposti in ranghi attorno all’Agnello, dai più importanti Serafini fino alle anime del Purgatorio che salgono per prendere posto tra i numerosi cori, è la nostra vera patria ed è riconoscendola che ne avvertiamo l’eternità.
Quale manuale, quale spiegazione didattica ci aprirà la mente al Mysterium Ecclesiae? Nessuno, se non la parabola vivente della cerimonia liturgica che si svolge davanti ai nostri occhi.
All’epoca del pontificato di Pio XII, il Padre abate di Bec-Hellouin, in Normandia, riferiva che all’uscita di una Messa solenne alla quale assistevano alcuni pastori protestanti, uno di loro, emozionato, esclamò: «Ho visto la Chiesa!». La ragione misteriosa di questo grido estatico non dev'essere ricercata lontano dalla nostra celebrazione dell’Ufficio, fiume carico di religione e di luce, di canti, profumi, formule e riti solenni, che discende dall’altare attraverso l’ufficio del diacono, per coinvolgere la comunità dei fedeli che assistono nella navata, veri attori del dramma liturgico, dove il clamore si sposa al silenzio dell’anima.
Non è raro che il meraviglioso concatenarsi di salmi e profezie, che compone la preghiera pubblica, conduca un’anima in ricerca fino al santuario, dove questa voce melodiosa gli svela il mistero della Sposa. Padre Humbert Clérissac raccontava come un rabbino, nel secolo XII, si fosse convertito alla fede cattolica; l’uomo avendo osservato che il lirismo della sinagoga era passato nella liturgia della Chiesa, non ebbe difficoltà a identificare la fonte autentica della rivelazione. Dom Ildefons Herwegen, già abate di Maria Laach, ne ha esposto la ragione: «È nella liturgia, specialmente nel messale e nel breviario che la Scrittura acquisisce la pienezza della sua luce e della sua vera eloquenza; in effetti la liturgia è l’espressione sintetica e lirica delle due forme più soprannaturali: la sacra Scrittura e la santa Chiesa».
In Virgilio c’è un brano profetico che chiarisce le profondità della storia. Enea, visitato da una misteriosa consolatrice, non la riconosce se non al momento del suo partire, in maniera furtiva: «Et vera incessu patuit dea» («Vera dea s’aprì al portamento» [Eneide I,405]). Ciò che la Chiesa porta in sé di soprannaturale, non si coglie forse solo attraverso uno stile di preghiera misterioso, soave, celeste, aereo, attraverso il quale si manifesta proprio mentre si sottrae?

[Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), Le sens de l’Église, in Benedictus. Ecrits Spirituels. Tome I, Editions Sainte-Madeleine, Le Barroux 2009, pp. 244-246, trad. it. delle monache benedettine del Monastero San Benedetto di Bergamo]

martedì 14 dicembre 2010

La cultura è il focolare della Grazia

La vera cultura dello spirito consiste nell’anticipare attraverso ombre e penombre della vita il bagliore della luce. Guardate il mito della caverna: Platone immagina che gli uomini siano seduti, incatenati in una caverna, e che vedano sulla parete che si trova davanti a loro delle sagome che gesticolano. Se questi uomini si potessero girare, essi vedrebbero una fonte di luce viva che illumina un mondo reale, di cui le sagome che hanno davanti non sono che l’ombra proiettata. Ma ne avranno la forza? La maggior parte preferisce rimanere nell’illusione, senza darsi la pena di muoversi.
Questo apologo può illuminare il nostro proposito. L’uomo senza cultura assomiglia ai prigionieri incatenati nella caverna i quali non percepiscono che segni privi di profondità su una superficie piana, mentre la lettura degli autori permette d’immergersi nel loro pensiero e di nutrirsene.
Così, alla luce di questi grandi spiriti, si forma un patrimonio umano e spirituale in cui ciascuno è libero di attingere la ragione di vivere che gli permette di raggiungere gli altri. Era questa l’idea di Abel Bonnard [1883-1968]: «I rapporti di cultura – diceva in Ce Monde et moitessono la trama in cui s’inscrive l’amicizia dei popoli». […]
Ma, infine, chi ci dirà cos’è la cultura? Se interroghiamo il classico dizionario filosofico di André Lalande [1867-1863], esso ci risponde: «La cultura è il carattere di una persona istruita, che mediante questa istruzione ha sviluppato il proprio gusto, il suo senso critico e il suo giudizio». Édouard Herriot [1872-1957] – la frase è nota –, fumando la pipa diceva: «La cultura è ciò che resta quando si è dimenticato tutto». Se giriamo la formula, ne risulterà: «La cultura è quel che manca quando si è imparato tutto» (Gustave Thibon [1903-2001]). Certo, davanti al marasma di un’erudizione puramente libresca, il sapiente finisce per sapere tutto di niente e nulla di tutto, ciò che è il proprio dello «specialista». Osservate quell’uomo così caro, ha tutti i tasselli del puzzle in mano e non riesce a comporli assieme!
Occorre tornare all’idea dell’onestuomo, per il quale la cultura, humus dello spirito, appariva come «un pensiero ereditato nel quale si radica il pensiero a venire» (Lalanne-Berdouticq). Dice Abel Bonnard: «La cultura è istruzione diventata irriconoscibile perché è stata assimilata». Per sant’Agostino, è il fondo che risale in superficie. Da parte mia, amo molto quel che dice Alain Finkielkraut ne L’Ingratitude: «La cultura è l’arte di socializzare con i morti».
Leggere è sufficiente per assimilare un libro? No, senza dubbio. Perciò non si raccomanderà mai abbastanza il prendere appunti. Madame Swetchine [Sofia Petrovna Svetchina, 1782-1857] lo praticava in un modo assai semplice, imitabile da chiunque. Annotava su un foglietto le pagine la cui esattezza o la qualità d’espressione l’avevano colpita (tre parole per riassumere l’idea). Terminato il libro, verificava, con il passare del tempo, la giustezza della sua originale ammirazione e ricopiava la frase su un quaderno. Rileggeva regolarmente i suoi appunti: meno letture, ma assimilate meglio, le erano così profittevoli che la si reputava una delle donne più coltivate del suo secolo…
Come una fata madrina che rimane al fianco della culla dell’intelligenza quando tutti se ne sono andati, la cultura – lungi dal provocare una dispersione dello spirito – trasforma il sapere e le sue mille sfaccettature in principio d’armonia e di certezza. Simone Weil [1909-1943] proponeva questa regola formatrice: accogliere tutte le verità, comporle verticalmente e rimanere a livelli appropriati.
Quanto ad André Charlier [1895-1971], egli – con la sua abituale profondità – dava agli allievi che lo interrogavano questa bella definizione: «La cultura è il focolare della Grazia».

[Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), Introduction, in 50 livres. Les classiques de Dom Gérard pour une vraie culture de l’esprit, Editions Sainte-Madeleine, Le Barroux 2010, pp. 5-10 (qui pp. 5-8), trad. it. trad. it. di fr. Romualdo Obl.S.B.]

lunedì 13 dicembre 2010

La vita contemplativa alla scuola della liturgia

Come non parlare del bene che ci procura la grande, antica scuola della liturgia, non solo come disincanto dalle passioni, ma come soave attrattiva, gusto soprannaturale di Dio, sete di vita eterna per le cose più preziose al mondo. Giacché ci sono due modi per lottare contro il tumulto delle creature che si spartiscono il nostro cuore: lo sforzo umano che proviene da noi e la contemplazione soprannaturale che deriva da Dio. Questi due modi, entrambi buoni e necessari, si situano su piani ben distinti e colorano diversamente la vita spirituale. Il secondo metodo, che chiameremo anagogico o teologale, scaccia l’impurità con la forza dell’amore, grazie all’attrattiva della luce, per il gusto delle cose divine. Corrisponde alle prime età del cristianesimo, allo spirito della liturgia e dei Padri della Chiesa. Suppone l’ascesi, ma la supera.
Il primo, più attento ai meccanismi naturali di potenza dell’anima, corrisponde alle epoche segnate dall’Umanesimo e dal Rinascimento. Come sorprendersi che la vita spirituale sia debitrice delle tendenze e dello spirito di una cultura? A partire dal secolo XVI si fa strada un certo naturalismo, riconoscibile anche nei metodi d’orazione, nei quali dominano il gusto per la meditazione discorsiva, l’introspezione e il ricorso alla psicologia. Grandi santi e dottori s’impegneranno allora di evangelizzare, cercandovi la traccia di Dio, le regioni dell’anima dove si manifesta la vita psicologica. Questa non era la proposta dei nostri antichi Padri. Senza dubbio, la lotta contro l’amor proprio, l’ozio e la sensualità richiede un ampio spazio allo sforzo di liberare dai ceppi, al fine di togliere i rovi dal cammino. Ma cosa darà la spinta verso il fine e l’attrazione verso la luce, se non la luce stessa? Come lottare contro il peccato d’impurità, si domandano i moderni? I maestri di antica tradizione rispondono all’unanimità: guardare il cielo; perché solo la speranza del cielo dà il coraggio di lavorare per il cielo.
La Regola di san Benedetto, praticata sin dal secolo VI, ne offre un chiaro esempio. Riguardo al tema della castità, tutto è espresso in due brevi frasi, con un’estrema discrezione: IV,64 «castitatem amare» («amare la castità»); e LXXII,8 «caritatem fraternitatis caste impendant» («che i monaci manifestino castamente l’amore della carità fraterna»). Punto, è tutto. Invece, il santo legislatore tratta esaurientemente della ricerca di Dio, dell’imitazione di Cristo, della preghiera, del canto dei salmi, dell’«indicibile sovranità dell’amore» (Prologo 49) e della «carità, che quando è perfetta, scaccia il timore» (VII,67). L’esperienza monastica maturata in quattordici secoli porta a concludere che il miglior modo di evitare il peccato consiste almeno nel fare lo sforzo per distogliersene, per guardare in direzione di Dio con perseveranza. Disonoriamo la Luce divina e la sua potenza d’attrazione quando miriamo in basso nel corso del nostro combattimento per la santità.
Dom Romain Banquet, fondatore e primo abate di En Calcat, designava come punto più elevato della vita monastica, non le mortificazioni corporali — di cui non si privava —, ma «il servizio, la frequentazione e il godere di Dio attraverso l’antica preghiera della Chiesa». Uno dei suoi successori, dom Germain, dava questo consiglio ai suoi giovani monaci: «Nella tentazione bisogna soprattutto incantarsi e cullarsi con la Parola di Dio e il canto dei salmi, come si fa con un bambino al quale non si concede ciò che domanda».
Gli occhi sono i crocevia dell’inferno, si è detto. Ma non sono allo stesso modo dei crocevia del Paradiso? Non si può lottare contro la visione ipnotica della carne se non con il fascino di una visione più potente e meglio in sintonia con la nostra anima profonda. «O moralista — scrive Claudel ne L’oiseau noir dans le soleil levanta cosa servono tante spiegazioni, teorie e minacce, se sappiamo che l’immondizia in noi è inconciliabile con lo zaffiro?». Queste apostrofi dei moderni raggiungono il pensiero degli antichi. I primi monaci che hanno cristianizzato l’Europa, all’inizio dell’era cristiana, conoscevano il peso della carne e la necessità del combattimento spirituale. Le loro mortificazioni divenute leggendarie s’identificano, per chi ha uno sguardo superficiale, con la vocazione monastica, ma ciò è un errore di prospettiva; non che questi lottatori infaticabili abbiano disdegnato l’ascesi, ma essi vivevano sin dall’inizio e prima di tutto per il cielo. La prospettiva che li assorbiva del tutto, non era il loro combattimento contro sé stessi, ma la contemplazione di Dio, contemplazione sociale, liturgica, dove il corpo aveva un posto, ed esercitava una funzione. Non contemplavano il peccato per meglio combatterlo, giacché il peccato non può essere oggetto di contemplazione, ma lo combattevano per contemplare meglio, e la loro contemplazione rendeva più felice questa parte dell’educazione severa che ogni ascesi comporta.
La vita contemplativa, alla scuola della liturgia, realizza ciò che il pensiero riflessivo non ha mai saputo fare: utilizzare l’universo secondo un’accurata scelta, dove partecipano il pane e il vino, l’acqua e l’olio, l’incenso e la cera, il canto sacro umile e sontuoso la cui impareggiabile bellezza lascia il posto ai diritti del silenzio; formule antiche, cesellate con un’arte eccelsa che ci rapisce, come con leggeri colpi d’ala, per l’amore delle cose invisibili. Attraverso un’attrazione casta, la luce scuote in noi solo ciò che merita di entrare nelle regioni celesti, che una grande anima intuitiva (anche se non ha superato la soglia) presentava come sublimi: «Tutti coloro che credono — scrive Simone Weil nelle sue Réflexions sans ordre sur l’amour de Dieuche ci sia adesso o in futuro, un giorno, del cibo prodotto quaggiù, mentono. Il pane del cielo non fa solo crescere in noi il bene, ma distrugge il male; cosa che i nostri propri sforzi non potranno mai fare. La quantità di male che è in noi non può essere diminuita se non dallo sguardo posto su una cosa perfettamente pura».
Senza che se ne accorgano, qualcosa senza prezzo mancherà sempre alle anime prive di questa luce. Era il parere di dom Paul Delatte, nella sua biografia Dom Guéranger: «La Chiesa ha ricevuto dal suo Sposo, di cui trasmette la vita e il prolungamento della missione, il modo sacro di pregare, il segreto di fatiche soprannaturali che uniscono le anime a Dio. Se il cristiano si spoglia di questa corrente vivificante, la fede perde subito qualcosa del suo vigore e della sua semplicità, la carità si affievolisce, la devozione diventa personale, ristretta, meschina, tutta confinata nel sentimento d’ordine fittizio e privato, in pratiche senza portata, in piccoli libri senza autorevolezza».
Se ci venisse domandato quale sia il carattere più sconvolgente, fra tutti quelli che uno spirito filiale e attento può scoprire nella preghiera della Chiesa, non esiteremmo a indicare il gusto poetico dei suoi canti, la forza e l’esattezza dell’influenza dei suoi sacramenti, la ricchezza dei suoi sacramentali, il contenuto sovranamente efficace dei suoi misteri, che imprimono nelle nostre anime la similitudine del Figlio. Sicuramente il carattere di santità riconoscibile nel minore dei riti, nella formula anche la più breve, esprime più di ogni altra l’origine divina di questa istituzione che chiamiamo santa liturgia. Grazie alla sua misteriosa intimità con i cori della Patria celeste ai quali la Chiesa ci fa accedere sotto il velo della fede, possiamo unire le nostre voci a quelle dei nostri fratelli invisibili, e fare umilmente, sotto il loro sguardo, nella sofferenza e nella gioia, conoscenza dell’eternità.

[Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), L’attirance du ciel, in Benedictus. Ecrits Spirituels. Tome I, Editions Sainte-Madeleine, Le Barroux 2009, pp. 252-257, trad. it. delle monache benedettine del Monastero San Benedetto di Bergamo]

mercoledì 8 dicembre 2010

«E siete felici?» - «Troppo!»

Roma è una città che ignora tutto di se stessa. Immemorialmente indifferente, radicato in quartieri, insulare, il romano rifiuta di conoscere il nome della strada accanto alla propria. Se non la scorgesse di lontano, ignorerebbe che la sua città possiede una piramide. Vivrà e morrà senza aver avuto notizia di una Porta Magica, di un museo delle Anime Purganti, di una Trappa. Dei «Padri Trappisti delle Tre Fontane» egli apprezza da generazioni un serico cioccolato, un miele fragrante, un elisir di eucalipto eccellente per il mal di petto. Per i meno totalmente puri di conoscenze, il Trappista è figurato dal bianco cappuccio conico, abbastanza cinematografico, quindi moderatamente noto, che segna le copertine dei libri di Thomas Merton. Ma a pochissimi accadrà di associare quel cappuccio con l’alto bosco di eucalipti, palpitante di tortore e di pavoncelle, a forse cinque chilometri dal centro della città: dove uomini sigillati in un perpetuo silenzio distillano l’elisir salutifero su un terreno gremito di presenze arcane e inzuppato dal sangue prezioso dei martiri. Là fu troncato il capo dell’apostolo Paolo, e dai tre punti dov’esso rimbalzò rotolando zampillarono appunto le Tre Fontane. Là si lasciò trucidare la «Massa candida»: i diecimila legionari cristiani di san Zenone. Là, sopra quei santi ossami, nel minuscolo ipogeo dedicato un tempo alla dea Dia, san Bernardo da Chiaravalle celebrò messe miracolose. Là apparve, in anni recenti, la Vergine Maria, alla quale i Trappisti dedicano da sempre un culto particolare.
Com’è noto (secondo usa dire delle cose generalmente ignote), la Trappa, ossia l’ordine cistercense della Stretta Osservanza, è un pollone tardivo dell’ordine di san Benedetto riformato agli inizi del [secondo] millennio da san Roberto e poi da san Bernardo. Molto più tardi l’abate di Rancé, fondatore dell’obbedienza cistercense-trappista, lo ridusse qual è attualmente, l’ordine più rigoroso ad eccezione forse del certosino. Chateaubriand, autore di una Vie de Rancé, trascrisse nel Génie du Christianisme il breve, fulgido epistolario di un giovane ufficiale francese scampato alla Rivoluzione che, dopo lunghi vagabondaggi, trovò in una Trappa di Spagna la sua domus aeternitatis: dove al canto dell’uffizio divino, diurno e notturno, si alternava il lavoro dei campi; dove ci si cibava di vegetali, si dormiva e moriva sulla paglia e la cenere, si taceva dal giorno della presa d’abito a quello della sepoltura. Una normale Trappa, infine, dov’era necessario tra l’altro moderare le austerità individuali perché i cenobiti non se ne inebriassero oltre misura. «Bisogna esserne testimoni per farsi una idea della contentezza, della giubilazione di tutti: nulla prova la felicità di questa vita meglio di ciò che hanno fatto i Trappisti per riunirsi di nuovo dopo la loro espulsione dalla Francia e la quantità di monasteri che si sono formati, fino nel Canadà». Huysmans coglie le stesse esclamazioni sulle labbra, per un momento dissigillate, del mirabile abate trappista nel suo romanzo En route (che la BUR ha tradotto col titolo Per strada). Visitata l’abbazia, considerate le leggi di quella piccola Sparta cristiana, Huysmans chiede con un fremito: «E siete felici?». «Troppo!» mormora sorridendo l’abate. E prosegue con le stesse parole che il grande poeta catalano Verdaguer chiuse in versi perfetti: «Signore, m’hai ingannato! / Mi promettevi catene / e mi davi la libertà; / parlavi solo di pene / e mi donavi le strenne / della tua felicità. / Signore, mi hai ingannato!».
Cosa non troppo incredibile, in un mondo assai peggio ridotto della Francia del ’93, le cose stanno circa allo stesso modo nel sussurrante bosco di eucalipti all’orlo di Roma. Se si penetri verso il crepuscolo, all’ora della grande Salve Regina cistercense, nella possente, nuda chiesa romanica, si penserà di assistere a una cerimonia di anime già liberate dal corpo. Alte ombre ammantate di bianco fluiscono dentro a qualche istante l’una dall’altra, riveriscono more benedictino l’altar maggiore, scompaiono dentro stalli di legno celati alla vista. Solo l’attimo dell’inchino è percepibile al di là della fitta griglia di ferro, che non si apre che la domenica, per brevi istanti, alla Comunione dei fedeli.
Vi sono momenti, quello della meditazione per esempio, al termine di un uffizio, nei quali è impossibile dire se i monaci siano ancora presenti nei loro stalli o già dileguati nei penetrali della clausura. Il silenzio è tale che si odono ardere i ceri dinanzi al solo altare minore. (Esso è dedicato ad un Sacro Cuore che altrove sarebbe un povero Sacro Cuore, ma alla Trappa, nella terribile potenza e nudità del luogo, figura un eccesso di dovizia, l’umiltà negligente del signore che non cura di buttar sulla spalla una giubba di fustagno). Una fibbia di antifonario che scatta, un sandalo che si approssima, la gran chiave che gira nella griglia sepolcrale, una figura ammantata che ne scivola fuori e lentamente, con un’altissima e sottilissima canna, posa un fiore di fuoco sotto ciascuna delle dodici croci alle pareti della chiesa: tutto alla Trappa fa trasalire, tutto è presagito, «atteso con misterioso timore». E là dentro, finalmente, nessuno trema più di compiere i gesti che il suo corpo ha fame di compiere. Un giovane sacerdote secolare, prostrato sulla pietra, incrocia le braccia sul petto. Una monaca le distende innanzi alla grata e resta così per ore, estatica, crocifissa, senza che alcuno la noti.
Vi è una tipologia degli ordini religiosi: bruno slanciato esangue il gesuita, vasto ed elastico il domenicano, sottile il benedettino dal chiaro sguardo intellettuale. Il Trappista, dal capo raso, non di rado barbuto, appare un uomo tagliato con l’ascia, arcaico. Ciò non significa che non sia aitante e spesso di gran razza come il decano spagnolo dal volto lunare e perfetto, al quale la morte non potrà nulla aggiungere, che nei giorni tiepidi sosta nel portico della chiesa a ricevere sulle mani un raggio di sole e il bacio reverente di povere donne e bambini. O l’ostiario francese con gli stivali sotto la tonaca e una barba cristiana intorno ai fini lineamenti del principe Myškin. O il converso camuso, in mantello bruno, che un caravaggesco avrebbe innalzato sulla croce del Buon Ladrone.
Non sappiamo se costoro dormano ancora su paglia e cenere, se sia ancora vietato loro di appoggiare la schiena al muro per riposarsi. Il resto della regola appare immutato. Tra le cocolle bianche non corre sillaba. Riverenze, pochi cenni di muti. Solo al superiore, previa licenza, si può rivolgere la parola, e dopo Compieta, all’ora del gran silenzio, neppure a lui. Nelle cronache della Trappa, tra i confratelli proposti per la beatificazione, vi sono i trenta martiri spagnoli gettati in mare vivi presso Santander, durante la guerra civile, le labbra cucite da fil di ferro. Terrificante sigillo di un voto. Ma quel filo di ferro il Trappista se lo cuce da solo alle labbra, giorno per giorno, al termine di ogni uffizio. Domine, labia mea aperies, egli può ben intonare all’apertura del Mattutino, segnandosi piamente la bocca: solo per lo spazio della lode – la divina lode gregoriana – gli è concessa di usare la sua voce. Curiose voci dei Trappisti, spesso fioche per lungo silenzio: penitenziale mischianza di nasalità ieratica e cavernosa decrepitudine con il fiore della vergine giovinezza. (Per i devoti di statistiche, i Trappisti sono giovani per lo più, e sempre più numerosi e affollati sorgono dappertutto i loro monasteri, così maschili come femminili; ve n’è uno a Vitorchiano che conta novanta religiose, quasi tutte assai giovani e di eccellente educazione).
Tutto ciò apparirà privo di senso a chi non abbia meditato, o respinga senza esame, la maestosa vita della contemplazione. Vi è, ad esempio, un articolo del Credo che i cattolici, pur costretti a recitarlo ogni domenica nella più triste delle traduzioni, sembrano avere dimenticato: «Credo nella Comunione dei Santi». Pare che ai più la confessione di questo dogma suggerisca figurazioni vaghe di serafici cori. Laddove essa riguarda precisamente chi la pronunzia e chi gli sta accanto: come due vasi comunicanti, Dio mediatore, in grazia di una energia spirituale pressoché senza limiti: la preghiera. «La nostra libertà» scrisse Bloy durante una visita alla Grande Certosa «è solidale con l’equilibrio del mondo, ed è questo che bisogna comprendere se non si vuole stupirsi del profondo mistero della Reversibilità, che è il nome filosofico del gran dogma della Comunione dei Santi. Ogni uomo che produce un atto libero proietta la sua personalità nell’infinito. S’egli dà a malincuore un soldo a un povero, quel soldo trapassa la mano del povero, cade, fora la terra, buca i soli, traversa i firmamenti e compromette l’universo… Un moto di vera pietà canta per lui le lodi divine… guarisce gli infermi, consola i disperati, placa le tempeste, riscatta i cattivi, converte gli infedeli e protegge il genere umano».
Donde l’antichissima dottrina cristiana della sostituzione delle pene e delle colpe, così come delle grazie; la moltitudine di santi, canonizzati o no, che si offersero e si offrono in un immenso Suscipe, quali «ostie pure, ostie sante, ostie immacolate» in luogo di vivi e di morti: assumendosi infermità, tentazioni, orrori d’ogni genere in luogo d’altri e più deboli, dilapidando favori celesti, energie sovrumane a beneficio d’altri e più poveri. Questo «admirabile commercium» che fece dire a Huysmans: «Senza la sua cintura di conventi immersi nel silenzio e nell’incessante orazione, Parigi sarebbe già perita in un bagno di sangue» (e gli rispose l’abate: «Se la cintura fosse stata più salda, Parigi non avrebbe corso il rischio di perire»), questo scambio di moneta invisibile tra gli spiriti dei viventi, e tra quelli dei viventi e quelli dei morti, è la ricchezza vertiginosa che Dio ha concesso all’uomo su questa terra. Ed è la sola che dipenda da lui accogliere o rifiutare. Da san Bernardo da Chiaravalle, da papa Eugenio III, abate delle Tre Fontane, attraverso i pontificati di otto secoli fino a san Pio X, le strane creature che credono al potere sulla terra dell’uomo perduto nel cielo, hanno imposto le loro paradossali persuasioni fino a un Giovanni XXIII.
Disse quel pontefice ai Trappisti delle Tre Fontane che non riteneva di poter dare inizio alla gran battaglia di un Concilio Ecumenico senza averne affidato le sorti alla preghiera delle mute, inesorabili guarnigioni che, lasciando operare Marta, s’erano appropriate da sempre, con Maria, l’«unum necessarium», e sole ormai potevano dispensarlo.
Usciranno indenni i solitari di san Bernardo dalla febbre umanistica e umanitaria che sconvolge gli spiriti, come un tempo la malaria sconvolgeva la valle degli eucalipti? Lo si dovrebbe presumere ricordando le vicende dei monaci di Chateubriand. Passerà il prete in maglione e fuoriserie, patito di psicanalisi e televisione, il frate che suona la chitarra e «comprende tutto», come passarono l’abatino voltairiano e il cardinale dodicenne del Rinascimento. Resterà il Trappista: terribilmente moderno attraverso i secoli, come ciò che è unicamente radicato nel cielo. Il Trappista che non comprende quel che non è da comprendere, che può vivere con pari indifferenza e misericordia ai bordi di un villaggio indio o di una metropoli. Il Trappista da cui vanno a confessarsi, a quanto si dice, i Principi della Chiesa, nelle ore di tenebra e contraddizione. «Dio» disse l’abate Rancé «non ha comandato a tutti gli uomini di abbandonare il mondo; ma non c’è uomo al quale abbia proibito di amare il mondo».

[Vittoria Guerrini (1923-1977), La Trappa, originariamente comparso con lo pseudonimo Bernardo Trevisano, in Il Giornale d’Italia, 6 settembre 1967, p. 3, ripubblicato in Cristina Campo [pseudonimo di Vittoria Guerrini], Sotto falso nome, Adelphi, Milano 1998, pp. 141-147]

venerdì 3 dicembre 2010

Martirologio cistercense - Crisostomo Chang e i suoi 32 compagni

[Del tutto recentemente abbiamo presentato e commentato il film Uomini di Dio di Xavier Beauvois («Non temo la morte, sono un uomo libero»), dedicato al martirio di sette monaci cistercensi della stretta osservanza (trappisti) del priorato algerino Notre-Dame de l’Atlas di Thiberine, nel 1996.
Successivamente, la nostra attenzione è stata attirata su un altro caso – fra altri, ma assai meno noto, e se possibile più crudele – di persecuzione e martirio, cristianamente accolto, di monaci trappisti, sempre nel corso del secolo XX. Ci riferiamo ai trentatré martiri della trappa di Yang-Kia-Ping, Nostra Signora della Consolazione, in Cina, la cui passione fu vissuta negli anni 1947-1948.
Nel Martirologio Cistercense – di cui qui in chiusura riportiamo la relativa pagina, così com’è presentata sul sito Internet della Santa Sede – essi sono ricordati come: Crisostomo Chang e i suoi 32 compagni.
Con la speranza che anch’essi possano intercedere per noi, ora che contemplano il volto di Dio, precediamo la notizia del martirologio dal brano d’esordio dell’opera di James T. Myers, Nemici senza fucile. La Chiesa cattolica nella Repubblica Popolare Cinese, trad. it., Jaca Book, Milano 1994, p. 31]

«L’inizio della fine era scattato già una settimana prima con l’arresto di padre Crisostomo e di padre Serafino, ed il loro successivo processo davanti ad un tribunale popolare. Sette giorni dopo, il 9 luglio 1947, diciotto preti e monaci conversi dell’abbazia trappista di nostra Signora della consolazione si riunirono alle quattro del mattino per celebrare la santa messa. Loro non potevano certo saperlo, ma quella sarebbe stata l’ultima volta che i monaci celebravano insieme la messa nel loro monastero. Iniziava per loro una dura prova che portò a conseguenze disastrose: il magnifico monastero fu ridotto in macerie e trentatré monaci divennero martiri della fede».

Martirologio Cistercense - Crisostomo Chang e i suoi 32 compagni

Una delle più belle pagine del martirologio cistercense fu scritta dai monaci di Nostra Signora della Consolazione, in Cina, la cui passione fu vissuta negli anni 1947-1948.
La trappa di Yang-Kia-Ping, fondazione di Tamié nel vicariato apostolico di Pechino, fu la prima comunità trappista in estremo Oriente, fiorente di vocazioni e di attività. Nel 1945 si trovò al centro della guerra civile iniziata dopo il conflitto cino-giapponese, a causa del quale aveva già molto sofferto negli anni precedenti. Il villaggio prossimo al monastero venne infatti a trovarsi sulla linea di demarcazione tra l’armata rossa di Mao-Tze-Tung e l’esercito nazionalista di Chiang-Kai-Chech.
Nell’estate 1947 il monastero fu preso di mira dai comunisti con false accuse: dimentichi dei grandi benefici che per sessantaquattro anni i trappisti avevano assicurato ai poveri e al popolo, sottoposero i monaci a tumultuosi processi popolari e ad interrogatori su questioni riguardanti lo stato e sui segreti del culto, con pubbliche bastonature e disumane torture fisiche e morali per far loro abbandonare la religione, considerata dai comunisti una superstizione ormai da cancellare.
I diciotto monaci sacerdoti, che avevano rinnovato per l’ultima volta al monastero il sacrificio di Cristo, compresero che le loro vite si sarebbero trasformate ben presto in una autentica Messa.
Il 30 agosto 1947 iniziò il martirio: distrutto con un incendio quanto restava del monastero, i comunisti in fuga deportarono in massa tutti i monaci, circa settantacinque, senza riguardo né all’età, né all’infermità, lungo itinerari impervi delle montagne del Nord tra le gole selvagge della Ta-Long-Men (la porta del gran dragone), in quella che fu chiamata la “marcia della morte”.
Le mani legate con catene o fil di ferro che metteva a nudo le ossa, sotto piogge torrenziali, gli anziani e gli infermi portati a spalla dai fratelli già carichi di pesanti fardelli, costretti a prendere cibo come gli animali, impediti di comunicare tra loro a segni come erano soliti e frustati perché sorpresi nel dormiveglia a muovere le labbra in preghiera, ne morirono fino a tre al giorno lungo il percorso, per lo sfinimento e la miseria. Molti sacerdoti morirono di morte improvvisa, forse avvelenati: i cadaveri dei monaci erano abbandonati sul terreno pressoché insepolti.
Nel gennaio 1948, dopo un ultimo giudizio popolare a Panpou, furono fucilati P. Crisostomo Chang e altri cinque religiosi. Il giovane sottopriore, scelto come capofila del gruppo dei martiri, che già dall’inizio della persecuzione aveva subito con coraggio battiture e vessazioni, esortò i suoi compagni dicendo: “Noi moriamo per la causa di Dio. Innalziamo per l’ultima volta il nostro cuore verso di lui in un’offerta totale del nostro essere”.
Poiché la sentenza di morte pronunziata dai comunisti non era mai stata confermata, i superstiti furono via via liberati, ma altri tra loro morirono poco dopo per le conseguenze della prigionia.
Di questi fratelli che sopportarono tribolazioni così grandi, perseverando generosamente fino alla morte nella confessione della loro fede, è possibile affermare ciò che disse di uno di loro la giovane guardia rossa incaricata di annunziarne la morte ai fratelli: “Questo è morto molto pacificamente ed è molto simile all’Uomo in croce che ho visto nel vostro monastero”.
Alludeva al Crocifisso della chiesa di Yang-Kia-Ping.
Diamo l’elenco dei trentatré martiri: erano tutti di nazionalità cinese, tranne tre monaci sacerdoti francesi, uno olandese e un altro canadese.

1 - Crisostomo Chang (1920-1948), sottopriore
2 - Michele Hsü (1901-1947), superiore
3 - Antonio Fan (1885-1947), priore
4 - Elredo Drost (1912-1947), sacerdote, francese
5 - Alfonso L’Heureux (1894-1947), sacerdote, canadese
6 - Agostino Faure (1873-1947), sacerdote, francese
7 - Bonaventura Chao (1902-1948), sacerdote
8 - Emilio Ying (1886-1947), sacerdote
9 - Stefano Maury (1886-1947), sacerdote, francese
10 - Guglielmo Cambourien (1878-1947), sacerdote, francese
11 - Odilone Chang (1897-1947), sacerdote
12 - Simone Haü (1897-1947), sacerdote
13 - Serafino Che (1909-1948), sacerdote
14 - Teodoro Yuen (1915-1948), sacerdote
15 - Basilio Keng (1915-1948), suddiacono
16 - Ugo Fan (1881-1947), accolito
17 - Alessio Liu (1897-1948), converso
18 - Amedeo Liu (1899-1947), converso
19 - Bartolomeo Ch’in (1893-1947), converso
20 - Bruno Fu (1868-1947), converso
21 - Clemente Kao (1899-1947), converso
22 - Corrado Ma (1872-1947), converso
23 - Damiano Hwang (1893-1948), converso
24 - Eligio Hsü (1918-1948), converso
25 - Ireneo Wang (1884-1947), converso
26 - Giovanni Gabriele Tien (1861-1947), converso
27 - Gerolamo Ly (1873-1947), converso
28 - Luigi Gonzaga Jen (1872-1947), converso
29 - Malachia Ch’ao (1872-1947), converso
30 - Marco Litchang (1885-1947), converso
31 - Giovanni Maria Miao (1919-1948), converso
32 - Martino Haü (1899-1947), converso
33 - Filippo Wang Liu (1877-1947), converso

giovedì 2 dicembre 2010

Benedictus - Scritti spirituali, vol. II

Nel corso del 2009 abbiamo presentato la pubblicazione del primo volume degli scritti spirituali di dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), fondatore e primo abate del monastero Sainte-Madeleine di Le Barroux: Benedictus. Écrits Spirituels. Tome I.
Ora le Éditions Sainte-Madeleine, la casa editrice dell'abbazia provenzale - particolarmente cara ai fedeli legati alla forma straordinaria del Rito romano, e che costituisce un centro spirituale particolarmente significativo per lo sforzo di fedeltà alla Regola di san Benedetto e l’irradiamento della liturgia gregoriana, così perpetuando la grande tradizione del monachesimo occidentale in pieno secolo XXI - hanno pubblicato il secondo volume degli scritti spirituali di dom Gérard: Benedictus. Écrits Spirituels. Tome II (592 pp., euro 25). Riproduciamo di seguito la presentazione del libro offerta nella quarta di copertina:
«A un visitatore che gli chiedeva cosa fosse la vocazione monastica, un Padre Abate rispose: “Il monaco è un bambino che canta e gioca”. Dom Gérard amava questo pensiero. E desiderava che i suoi monaci raggiungessero quel Dio pieno d'inventiva e di gioia che ha fatto l'aurora e il sole...
Ed è per invitarci a questa festa, nella continuità degli scritti del primo volume, che egli dispiega nuovamente davanti ai nostri occhi come un luminoso affresco dell'armonia cattolica del vero, del bello e del buono.
Lasciamoci trasportare dalla freschezza poetica e spirituale di queste pagine. Leggiamole e facciamole scoprire a quanti, senza averne necessariamente coscienza, hanno sete di Dio...»
.
Il volume è acquistabile online, nella sezione “boutique en ligne”, tramite il sito Internet dell’abbazia.

mercoledì 1 dicembre 2010

Dibattito sul Concilio Ecumenico Vaticano II

Un’occasione per precisare nuovamente alcuni punti del dibattito tra la Fraternità Sacerdotale San Pio X e la Santa Sede ci è fornita dal libro di mons. Brunero Gherardini sul Concilio Ecumenico Vaticano II [1]. Insistendo a ragione sulla necessità che la Chiesa insegni il dato rivelato, immutabile, la novità non potendosi trovare che nella modalità, il volume supplica il Santo Padre di pronunciarsi solennemente sugli insegnamenti del Concilio Ecumenico Vaticano II. Tuttavia esso compie un zig-zag fra due tesi difficilmente conciliabili.
1. Ecco anzitutto la tesi condivisibile: «Il cavallo di Troia non fu propriamente il complesso dei documenti conciliari, ma le idee che alcuni gruppi di pressione riusciron a far filtrare nell’aula conciliare, determinando il progressivo maturare della linea che sfociò poi nella cultura postconciliare» (p. 19). In quest’ottica (accettabile), siamo grati all’autore in primo luogo di riconoscere la legittimità del Concilio Ecumenico Vaticano II e la sua dottrina, la quale «dovrà sempre esser religiosamente accolta come insegnamento conciliare» (p. 52), e (teoricamente) di riferire le sue critiche piuttosto sulla formulazione del Concilio Ecumenico Vaticano II. Conseguentemente, l’autore dichiara l’insieme delle pubblicazioni anti-conciliari delle edizioni Courrier de Rome viziate dallo «spirito polemico che le ispira e che, proprio per questo, almeno in parte le squalifica» (p. 26), e considera un «puro delirio» (p. 33) il rifiuto di obbedire ai Papi posteriori a Pio XII.
L’autore ha inoltre ragione di lamentare un’eccessiva «grandiosa ininterrotta celebrazione» (p. 13) del Concilio Ecumenico Vaticano II, considerato troppo spesso come un terminus a quo assoluto, occultando i documenti anteriori. Egli fissa correttamente una lunga lista di errori veicolati dopo il 1965. Ugualmente, in materia liturgica, le riforme post-conciliari sono andate al di là degli orientamenti di Sacrosanctum concilium (SC), quando non contro di essi, e la normatività di SC era un po’ sfuocata, da cui alcune interpretazioni abusive.
2. La tesi non condivisibile è che, poiché il Concilio Ecumenico Vaticano II (è vero) non ha insegnato in maniera definitiva e quindi infallibilmente dei nuovi punti, non si sarebbe tenuti (di diritto) ad accettare gli aspetti nuovi delle sue dottrine, le quali sarebbero (di fatto) incompatibili con la Tradizione, quindi sprovviste dell’assistenza dello Spirito Santo. Questa tesi costituisce la filigrana di tutto il libro, malgrado l’«ombrello» della succitata tesi condivisibile.
Anzitutto rispondiamovi. Di diritto, anche il Magistero non definitivo (detto anche «autentico») esige che vi aderiamo, e peraltro non solo esteriormente, ma anche per un consenso interno della nostra intelligenza e della nostra volontà. Quindi, per esempio, quando Pio XII, nella sua allocuzione del 29 settembre 1949, condanna la fecondazione umana artificiale, bisogna aderirvi. Parimenti quando il Concilio Ecumenico Vaticano II condanna la violazione del diritto alla libertà religiosa.
Di fatto, l’autore non dimostra la presenza effettiva di errori nel Magistero contemporaneo. Esaminiamo anzitutto le sue accuse contro i principali documenti conciliari.
Dunque, la Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium (LG) sarebbe responsabile di gran parte «dell’attuale confusione esegetico-teologica» (p. 219). Tuttavia, anche mons. Lefebvre aveva dichiarato che LG non poneva alcun problema [2]. D’altro canto, come può l’autore non comprendere che il Papa unito a tutti i vescovi (e non soltanto il Papa da solo) dispone di una «suprema e piena potestà su tutta la Chiesa» (LG 22)?
Per venire a Nostra aetate (sulle religioni), mons. Gherardini rifiuta che il Dio dei cristiani sia la medesima realtà del Dio degli ebrei o dei musulmani, ciò che invero è un dato tradizionale (da san Giustino ai nostri giorni, passando per Suarez…), anche se, del tutto evidentemente, ciò che si dice (per non dire del culto) di questa realtà che è il Dio creatore è assai diverso, su punti d’importanza capitale, come la Trinità, l’amore di Dio e verso Dio, ecc. L’autore ritiene che Dignitatis humanae (DH) consideri «la compresenza del vero e del falso […] un bene da tutelare» (p. 184). Ciò lo induce a opporre due Magisteri (anteriore e posteriore al Vaticano II). Ordunque, il bene che DH vuole proteggere è la capacità di aderire liberamente alla verità secondo la propria coscienza. Se taluni ne approfittano per aderire al falso o per non seguire la propria coscienza, costoro abusano del loro diritto alla libertà religiosa. Tuttavia, l’abuso non toglie l’uso, e quindi anch’essi sono protetti dal diritto, indirettamente ed entro i giusti limiti, esattamente come colui che omette la carità non facendo l’elemosina abusa del suo diritto di proprietà, ma non perde il suo diritto, fino a quando non va contro la giustizia.
Secondo mons. Gherardini, Gaudium et Spes contraddirebbe san Tommaso affermando che l’uomo «in terra è la sola creatura che Iddio abbia voluto per se stesso» (n. 24). Tuttavia, seguendo il Dottore Angelico: «Nell’universo solo la natura intellettuale è voluta per se stessa, mentre tutte le altre creature sono volute per lei» [3]. L’autore omette la dottrina (insegnata dal Sant’Uffizio nel 1949) del battesimo di desiderio per coloro i quali, senza colpa, ignorano la vera religione.
Egli pretende erroneamente che secondo Unitatis redintegratio (UR) la Chiesa avrebbe perso la sua unità. Tuttavia UR 4 dichiara: «Quella unità […] crediamo sussistere, senza possibilità di essere perduta, nella Chiesa cattolica»; brano omesso da mons. Gherardini, come gli altri in cui UR e il Magistero successivo affermano la tesi per cui solo la Chiesa cattolica di Cristo possiede la pienezza dei mezzi di salvezza, e che è in lei che devono essere pienamente incorporati tutti i fratelli separati (UR 3, § 5). L’autore rimprovera a controsenso alle Risposte a quesiti riguardanti alcuni aspetti circa la dottrina sulla Chiesa della Congregazione per la Dottrina della Fede del 10 luglio 2007, di avere confermato «l’impressione che la Chiesa cattolica e la Chiesa di Cristo non siano un’unica ed identica realtà» (p. 21). Vi è che tale documento mirava, al contrario, a riaffermare «la piena identità della Chiesa di Cristo con la Chiesa cattolica» (terza Risposta), poiché «il Concilio ha voluto esprimere l’identità della Chiesa di Cristo con la Chiesa Cattolica» (nota 4).

Rivalutare il Concilio?

Più generalmente, questo teologo sollecita «un’opera di revisione e di rivalutazione [del Concilio] […] da un bel manipolo di specialisti» (p. 24). Tuttavia molti specialisti e il Magistero post-conciliare [4] vi si sono già applicati, praticando una solida ermeneutica della continuità!
Mons. Gherardini dà l’impressione di recepire tale Magistero in maniera selettiva. Così, passa sotto silenzio gli interventi di Paolo VI e Giovanni Paolo II che richiamano l’autorità del Concilio Ecumenico Vaticano II [5]. Egli attacca la Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione, un accordo su alcuni punti specifici firmato il 31 ottobre 1999 dalla Santa Sede e dalla Federazione Luterana Mondiale, e classificato dall’autore fra i «consensi dissennati» (p. 93), quando lo stesso Benedetto XVI ha invitato (con successo) anche i metodisti ad aderirvi.
Un’altra contestazione piuttosto temeraria di un fatto dogmatico: l’autore (come già nel numero di ottobre 2004 della sua rivista Divinitas) si oppone alla validità dell’anafora (preghiera eucaristica) assira di Addai e Mari, riconosciuta tuttavia da Giovanni Paolo II (2001), decisione lodata da Benedetto XVI (2007).
Infine, secondo l’autore il Concilio Ecumenico Vaticano II avrebbe offerto ai fautori di un’ermeneutica della rottura (chiamati in maniera ambigua «il post-concilio») una sorta di punto d’appoggio, e sarebbe materialmente – o indirettamente – e non formalmente e direttamente responsabile della crisi post-conciliare. In tesi non è escluso, se ci si riferisce all’imperfezione delle formulazioni (da provare). Ma questo libro va ben oltre. Se chiama in causa giustamente i neo-modernisti, mette a disagio e rischia di minare senza fondamento la fiducia dei fedeli nel Magistero.
Riguardo alla prefazione di mons. Ranjith, essa propone, al seguito del Papa (22 dicembre 2005), un’ermeneutica della riforma nella continuità, che paradossalmente mons. Gherardini dubita sia possibile, salvo a intenderla come l’eliminazione dal Magistero attuale di ciò che a lui non sembra in continuità con la Tradizione, posizione rifiutata da Giovanni Paolo II, il 2 luglio 1988, nel motu proprio Ecclesia Dei.

[1] Cfr. Brunero Gherardini, Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare, Casa Mariana Editrice, Frigento (Avellino) 2009, 264 pp.
[2] Cfr. Fideliter, n. 57, p. 4.
[3] Contra gentes, III, 112.
[4] Cfr. Mysterium Ecclesiae, Redemptoris missio, Catechismo della Chiesa Cattolica, Ut unum sint, Dominus Iesus, ecc.
[5] Cfr. 7-12-1965; 12-1-1966; 21-9-1966; 24-5-1976; 11-10-1976; 23-12-1982; 20-7-1983; 2-7-1988; ecc.


[Dom Basile Valuet O.S.B., dottore in Teologia, Débat autour du Concile Vatican II, in La Nef, n. 220, novembre 2010, pp. 16-17, trad. it. di fr. Romualdo Obl.S.B. Una versione più lunga, più argomentata e più «scientifica» del presente articolo (con tutti i riferimenti) è consultabile sul sito Internet de La Nef].

mercoledì 24 novembre 2010

«Non temo la morte, sono un uomo libero»

[Riportando il blog Romualdica le note di un oblato benedettino, costui ha sin qui preferito, e preferirebbe, avere poco da dire di personale; di tanto in tanto, un'eccezione. Ci è capitato recentemente di vedere la proiezione del film Uomini di Dio di Xavier Beauvois, attualmente nelle sale cinematografiche italiane. Finché vi rimane, e comunque per chi avrebbe modo di vederlo, una calda raccomandazione a non perdere l'occasione, che accompagnamo qui di seguito con la recensione di Alessandra De Luca, comparsa sul quotidiano Avvenire il 20 ottobre 2010, e ancora di seguito riproducendo il trailer. Avendo su questo o quel punto sensibilità diverse, non abbiamo potuto, tuttavia, far altro che rimanerne affascinati, pietrificati ed edificati. Una storia vera, semplice, umile, coraggiosa. Cristiana. Un film doloroso, e doveroso. Possano i sette monaci cistercensi della stretta osservanza (trappisti) del priorato algerino Notre-Dame de l'Atlas di Thiberine (Christian de Chergé, Luc Dochier, Christophe Lebreton, Michel Fleury, Bruno Lemarchand, Célestin Ringeard, Paul Favre-Miville) intercedere per noi, ora che contemplano il volto di Dio.]

All’ultimo Festival di Cannes ha profondamente commosso il pubblico internazionale raccontando la vita quotidiana di un gruppo di monaci trappisti nell’Algeria degli anni Novanta. E non ha lasciato indifferente neppure la giuria presieduta da Tim Burton, che gli ha assegnato il prestigioso Grand Prix. Perché Uomini di Dio di Xavier Beauvois, fortemente voluto dal produttore cattolico Etienne Comar, nelle nostre sale dal 22 ottobre, è un perfetto esempio di come si possa fare grande cinema affidandosi, proprio come facevano Robert Bresson e Carl Dreyer, ai silenzi, agli sguardi, alla spiritualità e a temi che affrontano le grandi domande dell’uomo drammaticamente calato nell’arena della storia.
Il film, opera profondamente religiosa, rievoca infatti la drammatica vicenda dei religiosi rapiti e assassinati a Tibhirine, sulle montagne dell’Atlante, nel marzo del 1996, ancora oggi al centro di una complessa indagine giudiziaria riaperta dopo il reportage del giornalista americano John Kiser. Se infatti la strage era stata inizialmente attribuita al Gia (Gruppo Islamico Armato), in una fase processuale successiva si è invece parlato di un «errore dell’esercito algerino». La verità è ancora da stabilire, ma il regista non si addentra nella controversia, evitando di fare del film un thriller politico su un intrigo internazionale; non mostra le teste ritrovate senza i corpi (anche per rispetto alle famiglie delle vittime l’atrocità della loro morte resta fuori campo e la storia si conclude con una scena ricca di emozione) e non fa dei protagonisti dei martiri da strumentalizzare.
Non estraneo alle riflessioni sulla vita e la morte (N’oublie pas que tu vas mourir), Beauvois – che si è confrontato con religiosi e teologi trascorrendo un periodo nel convento cistercense di Notre-Dame de Tamié – si concentra piuttosto (come il bel documentario Il grande silenzio di Philip Gröning) sulla quotidiana vita monastica dei protagonisti, corpi immersi nella natura tra lavoro, preghiere, canti, pasti e impegno per il prossimo, secondo una ritualità capace di unire il cielo e la terra. Perfettamente integrati in terra musulmana, i monaci guidati dal priore Christian de Chergé sono «fratelli» degli islamici di cui si prendono cura e con i quali recitano anche passi del Corano («Amen» è sempre seguito da «inshallah»), testimoniando con la propria vita un amore per l’umanità che va oltre le barriere culturali e religiose.
Una vocazione ben resa dal titolo originale del film, Des hommes et des dieux, e in parte tradita da quello italiano. Il 30 ottobre 1994 il Gia ordinò a tutti gli stranieri di abbandonare l’Algeria, ma quei monaci decisero di restare al fianco di chi aveva bisogno di loro, convinti di non poter tradire la loro fede e la fiducia in una comunità basata sulla tolleranza. «Non temo la morte, sono un uomo libero» dice Lambert Wilson nei panni di padre Christian. La forza, il rigore e il coraggio del film stanno proprio in questo, nella decisione di riflettere sulla difficoltà di una scelta non priva di dubbi, angosce e tensioni.
E di offrire a un pubblico abituato a velocità ed effetti speciali, adrenalina e 3D un mondo fatto di lentezza, contemplazione e popolato di persone capaci di un amore e una compassione straordinari, pronti all’estremo sacrificio pur di dedicare la propria vita agli altri. Ritiratisi per alcuni giorni nella pace del monastero prima dell’inizio delle riprese, gli attori hanno più volte dichiarato di aver sentito su di loro la protezione e la fratellanza dei religiosi a cui stavano per ridare vita. E non c’è bisogno di essere credenti per sentire in quei personaggi una verità che viene da lontano.



martedì 23 novembre 2010

San Clemente Romano

[In occasione della memoria liturgica odierna di Papa san Clemente I, terzo successore di san Pietro e onorato fra i Padri Apostolici, riproduciamo l'udienza di Papa Benedetto XVI del 7 marzo 2007]

[...] Abbiamo meditato nei mesi scorsi sulle figure dei singoli Apostoli e sui primi testimoni della fede cristiana, che gli scritti neo-testamentari menzionano. Adesso dedichiamo la nostra attenzione ai santi Padri dei primi secoli cristiani. E così possiamo vedere come comincia il cammino della Chiesa nella storia.
San Clemente, Vescovo di Roma negli ultimi anni del primo secolo, è il terzo successore di Pietro, dopo Lino e Anacleto. Riguardo alla sua vita, la testimonianza più importante è quella di sant’Ireneo, Vescovo di Lione fino al 202. Egli attesta che Clemente «aveva visto gli Apostoli», «si era incontrato con loro», e «aveva ancora nelle orecchie la loro predicazione, e davanti agli occhi la loro tradizione» (Contro le eresie 3,3,3). Testimonianze tardive, fra il quarto e il sesto secolo, attribuiscono a Clemente il titolo di martire.
L’autorità e il prestigio di questo Vescovo di Roma erano tali, che a lui furono attribuiti diversi scritti, ma l’unica sua opera sicura è la Lettera ai Corinti. Eusebio di Cesarea, il grande «archivista» delle origini cristiane, la presenta in questi termini: «È tramandata una lettera di Clemente riconosciuta autentica, grande e mirabile. Fu scritta da lui, da parte della Chiesa di Roma, alla Chiesa di Corinto ... Sappiamo che da molto tempo, e ancora ai nostri giorni, essa è letta pubblicamente durante la riunione dei fedeli» (Storia Eccl. 3,16). A questa lettera era attribuito un carattere quasi canonico. All’inizio di questo testo – scritto in greco – Clemente si rammarica che «le improvvise avversità, capitate una dopo l’altra» (1,1), gli abbiano impedito un intervento più tempestivo.
Queste «avversità» sono da identificarsi con la persecuzione di Domiziano: perciò la data di composizione della lettera deve risalire a un tempo immediatamente successivo alla morte dell’imperatore e alla fine della persecuzione, vale a dire subito dopo il 96.
L’intervento di Clemente era sollecitato dai gravi problemi in cui versava la Chiesa di Corinto: i presbiteri della comunità, infatti, erano stati deposti da alcuni giovani contestatori. La penosa vicenda è ricordata, ancora una volta, da sant’Ireneo, che scrive: «Sotto Clemente, essendo sorto un contrasto non piccolo tra i fratelli di Corinto, la Chiesa di Roma inviò ai Corinti una lettera importantissima per riconciliarli nella pace, rinnovare la loro fede e annunciare la tradizione, che da poco tempo essa aveva ricevuto dagli Apostoli» (Contro le eresie 3,3,3). Potremmo quindi dire che questa lettera costituisce un primo esercizio del Primato romano dopo la morte di san Pietro. La lettera di Clemente riprende temi cari a san Paolo, che aveva scritto due grandi lettere ai Corinti, e in particolare la dialettica teologica, perennemente attuale, tra indicativo della salvezza e imperativo dell’impegno morale. Prima di tutto c’è il lieto annuncio della grazia che salva. Il Signore ci previene e ci dona il perdono, ci dona il suo amore, la grazia di essere cristiani, suoi fratelli e sorelle. È un annuncio che riempie di gioia la nostra vita e dà sicurezza al nostro agire: il Signore ci previene sempre con la sua bontà, e la bontà del Signore è sempre più grande di tutti i nostri peccati. Occorre però che ci impegniamo in maniera coerente con il dono ricevuto e rispondiamo all’annuncio della salvezza con un cammino generoso e coraggioso di conversione. Rispetto al modello paolino, la novità è che Clemente fa seguire alla parte dottrinale e alla parte pratica, che erano costitutive di tutte le lettere paoline, una «grande preghiera», che praticamente conclude la lettera.
L’occasione immediata della lettera schiude al Vescovo di Roma la possibilità di un ampio intervento sull’identità della Chiesa e sulla sua missione. Se a Corinto ci sono stati degli abusi, osserva Clemente, il motivo va ricercato nell’affievolimento della carità e di altre virtù cristiane indispensabili. Per questo egli richiama i fedeli all’umiltà e all'amore fraterno, due virtù veramente costitutive dell’essere nella Chiesa: «Siamo una porzione santa», ammonisce, «compiamo dunque tutto quello che la santità esige» (30,1). In particolare, il Vescovo di Roma ricorda che il Signore stesso «ha stabilito dove e da chi vuole che i servizi liturgici siano compiuti, affinché ogni cosa, fatta santamente e con il suo beneplacito, riesca bene accetta alla sua volontà ... Al sommo sacerdote infatti sono state affidate funzioni liturgiche a lui proprie, ai sacerdoti è stato preordinato il posto loro proprio, ai leviti spettano dei servizi propri. L’uomo laico è legato agli ordinamenti laici» (40,1-5: si noti che qui, in questa lettera della fine del I secolo, per la prima volta nella letteratura cristiana, compare il termine greco laikós, che significa «membro del laós», cioè «del popolo di Dio»).
In questo modo, riferendosi alla liturgia dell’antico Israele, Clemente svela il suo ideale di Chiesa. Essa è radunata dall’«unico Spirito di grazia effuso su di noi», che spira nelle diverse membra del Corpo di Cristo, nel quale tutti, uniti senza alcuna separazione, sono «membra gli uni degli altri» (46,6-7). La netta distinzione tra il «laico» e la gerarchia non significa per nulla una contrapposizione, ma soltanto questa connessione organica di un corpo, di un organismo, con le diverse funzioni. La Chiesa infatti non è luogo di confusione e di anarchia, dove uno può fare quello che vuole in ogni momento: ciascuno in questo organismo, con una struttura articolata, esercita il suo ministero secondo la vocazione ricevuta. Riguardo ai capi delle comunità, Clemente esplicita chiaramente la dottrina della successione apostolica. Le norme che la regolano derivano in ultima analisi da Dio stesso. Il Padre ha inviato Gesù Cristo, il quale a sua volta ha mandato gli Apostoli. Essi poi hanno mandato i primi capi delle comunità, e hanno stabilito che ad essi succedessero altri uomini degni. Tutto dunque procede «ordinatamente dalla volontà di Dio» (42). Con queste parole, con queste frasi, san Clemente sottolinea che la Chiesa ha una struttura sacramentale e non una struttura politica. L’agire di Dio che viene incontro a noi nella liturgia precede le nostre decisioni e le nostre idee. La Chiesa è soprattutto dono di Dio e non creatura nostra, e perciò questa struttura sacramentale non garantisce solo il comune ordinamento, ma anche questa precedenza del dono di Dio, del quale abbiamo tutti bisogno.
Al termine, la «grande preghiera» conferisce un respiro cosmico alle argomentazioni precedenti. Clemente loda e ringrazia Dio per la sua meravigliosa provvidenza d’amore, che ha creato il mondo e continua a salvarlo e a santificarlo. Particolare rilievo assume l’invocazione per i governanti. Dopo i testi del Nuovo Testamento, essa rappresenta la più antica preghiera per le istituzioni politiche. Così, all’indomani della persecuzione, i cristiani, ben sapendo che sarebbero continuate le persecuzioni, non cessano di pregare per quelle stesse autorità che li avevano condannati ingiustamente. Il motivo è anzitutto di ordine cristologico: bisogna pregare per i persecutori, come fece Gesù sulla croce. Ma questa preghiera contiene anche un insegnamento che guida, lungo i secoli, l’atteggiamento dei cristiani dinanzi alla politica e allo Stato. Pregando per le autorità, Clemente riconosce la legittimità delle istituzioni politiche nell’ordine stabilito da Dio; nello stesso tempo, egli manifesta la preoccupazione che le autorità siano docili a Dio e «esercitino il potere, che Dio ha dato loro, nella pace e nella mansuetudine con pietà» (61,2). Cesare non è tutto. Emerge un’altra sovranità, la cui origine ed essenza non sono di questo mondo, ma «di lassù»: è quella della Verità, che vanta anche nei confronti dello Stato il diritto di essere ascoltata.
Così la lettera di Clemente affronta numerosi temi di perenne attualità. Essa è tanto più significativa, in quanto rappresenta, fin dal primo secolo, la sollecitudine della Chiesa di Roma, che presiede nella carità a tutte le altre Chiese. Con lo stesso Spirito facciamo nostre le invocazioni della «grande preghiera», là dove il Vescovo di Roma si fa voce del mondo intero: «Sì, o Signore, fa’ risplendere su di noi il tuo volto nel bene della pace; proteggici con la tua mano potente ... Noi ti rendiamo grazie, attraverso il Sommo Sacerdote e guida delle anime nostre, Gesù Cristo, per mezzo del quale a te la gloria e la lode, adesso, e di generazione in generazione, e nei secoli dei secoli. Amen» (60-61).

venerdì 19 novembre 2010

Dell’orazione giaculatoria

Anteo, per rimanere invincibile, doveva toccar terra col piede. L’uomo religioso deve, nell’agone che gli è proprio, staccarsene il più sovente possibile: proiettando la sua mente in Dio, scagliandola, come si dà il volo a una rondine, verso il Creatore. Questo dardo d’oro della mente, questo batter d’ali che si gettano perdutamente a prender dimora un istante nel cuore stesso della luce, sono noti ai cristiani; e quando siano vocali (ma non necessariamente) si chiamano operazioni giaculatorie, da jaculum, appunto: dardo o freccia scoccata.
Il Vescovo di Roma ha ricordato di recente che «l’uomo è un essere costituzionalmente ordinato a trascendere se stesso, un essere proiettato verso Dio». Questa naturale conformazione spiega come la giaculatoria sia stata in ogni tempo istintiva sulle labbra del popolo: il più delle volte inconscia, puro grido, non di rado colma di affetti delicati. «Cuore di Cristo, Vergine dolcissima, Madre del Cielo, fateci santi» sono tra le locuzioni ancora in uso nelle campagne italiane. E non è detto che il lancio di questi lievi e caldi boccioli non compensi, sulle bilance invisibili, terrificanti pesi di blasfemia. Il dolore del popolo rinnova, in una gamma infinita, l’eco – umile e difforme finché si vuole – della suprema giaculatoria divina: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?».
Nella storia cristiana la pratica assidua, metodica dell’orazione giaculatoria risale ai padri anacoreti della Tebaide. Nelle Vitae Patrum è perpetuato il ricordo dell’unica giaculatoria con la quale l’abate Pafnuzio condusse in tre anni la cortigiana Thais alla purificazione perfetta. Volta verso Oriente, ella doveva ripetere: «Tu che mi creasti, abbi pietà di me».
Ma vi è un nome al quale «si piega ogni ginocchio, in cielo, in terra e negli inferni». La giaculatoria dei Padri era soprattutto il nome di Cristo, reiterato all’infinito secondo il comandamento paolino «Pregate incessantemente» (1Ts 5,17), ora solo, ora in un breve contesto: «Signore Gesù, figlio del Dio vivente, abbi pietà di me peccatore». La pratica risale a un grande mistico bizantino, Simeone il Nuovo Teologo, ma la ritroviamo, più o meno accentuata, in tutti i Padri d’Oriente [...].
Come il sacro Nome venga dolcemente accordato al gioco del respiro e del battito cardiaco, finché per così dire non più l’uomo prega ma in lui si prega incessantemente, gioiosamente, così come in lui si pulsa e si respira, è narrato con incantevole realismo in un singolare romanzo composto in Russia nel XIX secolo, senza dubbio da un eminente conoscitore delle vie della contemplazione: La relazione (o Il racconto) di un pellegrino al suo confessore (LEF, a cura di don Divo Barsotti): stupenda piccola opera costruita, come Le anime morte, in forma di itinerario attraverso un paese ed un popolo. Ma queste sono anime vive, incoercibilmente felici e soavemente possenti, che il magnete del Nome congrega intorno al pellegrino dovunque passi. Il mondo, blocco ottuso e cieco, racchiude in ogni tempo una filigrana di esseri che vivono secondo regole che non sono di questo mondo. E sono gli esseri che mutano il cuore del mondo. L’iniziazione alla «via del Nome» è ancora diffusa nei monasteri del Monte Athos [...] e, a quanto sembra, in molti paesi dell’Est.
Cassiano consacra un intero capitolo delle sue Collazioni alla giaculatoria «Deus, in adiutorium meum intende, Domine, ad adiuvandum me festina»: versetto davidico che aprirà, in Occidente, ciascuna Ora canonica dell’Uffizio corale. Nelle Ore, anche certe coppie di versi e responsori brevissimi suonano quali giaculatorie di supplica: «Ostende nobis Domine / misericordiam tuam», o «Miserere / mei, Deus».
Ma l’amore vince il timore. Giaculatoria regale è la giaculatoria di pura dilezione, come quella che san Francesco ripeté per un’intera notte: «Mio Dio e mio tutto». Affettuose giaculatorie chiudono ciascun capitolo dei piccoli trattati di sant’Alfonso. Non diversamente le intendeva san Francesco di Sales, le cui lettere di direzione spirituale si insinuano come dita delicate sino alle corde più fini della vita dell’anima, squisitamente accordandole alla volontà divina. A santa Francesca di Chantal egli raccomanda di salutare con una giaculatoria ogni rintoccar d’ora. Ad una giovane donna vessata dal terrore della morte, di esclamare frequentemente: «Voi siete mio Padre, o Signore». Ma è nelle lettere a due dame, a cui gli affari di Corte impediscono l’orazione metodica, che egli formula con maggior bellezza e precisione il carattere dell’orazione giaculatoria: «... soprattutto desidero che in ogni occasione, durante la giornata, voi ritiriate il vostro cuore in Dio, dicendogli qualche parola di fedeltà e d’amore». «... [supplite] alla mancanza degli altri esercizi con frequenti e ferventi orazioni giaculatorie o proiezioni (élancements) dello spirito in Dio». […]
La consuetudine di queste sacre formule riveste l’uomo di una speciale impassibilità, e non è raro incontrare ancor oggi delicati asceti di cui non si spiegherebbe la resistenza all’urto del mondo se non li sapessimo ricoperti da un’invisibile armatura di giaculatorie. Come sempre il santo è il miglior banchiere, secondo la parola di uno scrittore contemporaneo, e lo stato di orazione perenne, oltre ad assicurare un apporto continuo di energie spirituali, lo stato di gioia e la santa imperturbabilità, opera tutto un seguito di meraviglie minori, alle quali difficilmente si crederà senza esperienza. La recitazione del Nome e la giaculatoria in generale, isolando lo spirito in un cerchio al quale soltanto forze superiori hanno accesso, è una possente difesa psicologica ben nota agli uomini di preghiera. Più di un antico mistico sperimentò come questa fulminea intimità con Dio arrivasse a produrre in qualche maligno interlocutore la improvvisa balbuzie, inspiegabili capogiri o altri sintomi di confusione mentale. […]
Nell’ultimo libro di Jacques Maritain (Le paysan de la Garonne, Desclée de Brouwer, 1966), di un’importanza così unica per la storia del cattolicesimo contemporaneo e così affascinante nella titanica ironia delle sue condanne, è suggerita, ancora una volta, la pratica della giaculatoria. «Si può fare orazione nel treno, nella metropolitana, nella sala d’aspetto del dentista. Si può ricorrere con frequenza a quelle brevi preghiere lanciate come un grido che gli antichi raccomandavano tanto».
È certo che se l’uomo conoscesse la sterminata potenza della sua anima quando un costante movimento verticale l’assicuri come un canapo a Dio, persino un mondo qual è il nostro cesserebbe di atterrirlo e, beninteso, di affascinarlo.

[Cristina Campo (pseudonimo di Vittoria Guerrini, 1923-1977), Dardi verso il cielo, originariamente comparso in Il Giornale d’Italia, 10-11 gennaio 1967, p. 3, ripubblicato in Eadem, Sotto falso nome, Adelphi, Milano 1998, pp. 136-140]