giovedì 30 settembre 2010

La Liturgia è una grande scuola di spiritualità

Catechesi di Benedetto XVI di mercoledì 29 settembre 2010.

Oggi vorrei parlarvi di santa Matilde di Hackeborn, una della grandi figure del monastero di Helfta, vissuta nel XIII secolo. La sua consorella santa Gertrude la Grande, nel VI libro dell’opera Liber specialis gratiae (Il libro della grazia speciale), in cui vengono narrate le grazie speciali che Dio ha donato a santa Matilde, così afferma: “Ciò che abbiamo scritto è ben poco in confronto di quello che abbiamo omesso. Unicamente per gloria di Dio ed utilità del prossimo pubblichiamo queste cose, perché ci sembrerebbe ingiusto serbare il silenzio, sopra tante grazie che Matilde ricevette da Dio non tanto per lei medesima, a nostro avviso, ma per noi e per quelli che verranno dopo di noi” (Mechthild von Hackeborn, Liber specialis gratiae, VI, 1).
Quest’opera è stata redatta da santa Gertrude e da un’altra consorella di Helfta ed ha una storia singolare. Matilde, all’età di cinquant’anni, attraversava una grave crisi spirituale, unita a sofferenze fisiche. In questa condizione confidò a due consorelle amiche le grazie singolari con cui Dio l’aveva guidata fin dall’infanzia, ma non sapeva che esse annotavano tutto. Quando lo venne a conoscere, ne fu profondamente angosciata e turbata. Il Signore, però, la rassicurò, facendole comprendere che quanto veniva scritto era per la gloria di Dio e il vantaggio del prossimo (cfr ibid., II,25; V,20). Così, quest’opera è la fonte principale a cui attingere le informazioni sulla vita e spiritualità della nostra Santa.
Con Lei siamo introdotti nella famiglia del Barone di Hackeborn, una delle più nobili, ricche e potenti della Turingia, imparentata con l’imperatore Federico II, ed entriamo nel monastero di Helfta nel periodo più glorioso della sua storia. Il Barone aveva già dato al monastero una figlia, Gertrude di Hackeborn (1231/1232 - 1291/1292), dotata di una spiccata personalità, Badessa per quarant’anni, capace di dare un’impronta peculiare alla spiritualità del monastero, portandolo ad una fioritura straordinaria quale centro di mistica e di cultura, scuola di formazione scientifica e teologica. Gertrude offrì alle monache un’elevata istruzione intellettuale, che permetteva loro di coltivare una spiritualità fondata sulla Sacra Scrittura, sulla Liturgia, sulla tradizione Patristica, sulla Regola e spiritualità cistercense, con particolare predilezione per san Bernardo di Chiaravalle e Guglielmo di St-Thierry. Fu una vera maestra, esemplare in tutto, nella radicalità evangelica e nello zelo apostolico. Matilde, fin dalla fanciullezza, accolse e gustò il clima spirituale e culturale creato dalla sorella, offrendo poi la sua personale impronta.
Matilde nasce nel 1241 o 1242 nel castello di Helfta; è la terza figlia del Barone. A sette anni con la madre fa visita alla sorella Gertrude nel monastero di Rodersdorf. È così affascinata da quell’ambiente che desidera ardentemente farne parte. Vi entra come educanda e nel 1258 diventa monaca nel convento trasferitosi, nel frattempo, ad Helfta, nella tenuta degli Hackeborn. Si distingue per umiltà, fervore, amabilità, limpidezza e innocenza di vita, familiarità e intensità con cui vive il rapporto con Dio, la Vergine, i Santi. È dotata di elevate qualità naturali e spirituali, quali “la scienza, l’intelligenza, la conoscenza delle lettere umane, la voce di una meravigliosa soavità: tutto la rendeva adatta ad essere per il monastero un vero tesoro sotto ogni aspetto” (ibid., Proemio). Così, “l’usignolo di Dio” – come viene chiamata – ancora molto giovane, diventa direttrice della scuola del monastero, direttrice del coro, maestra delle novizie, servizi che svolge con talento e infaticabile zelo, non solo a vantaggio delle monache, ma di chiunque desiderava attingere alla sua sapienza e bontà.
Illuminata dal dono divino della contemplazione mistica, Matilde compone numerose preghiere. È maestra di fedele dottrina e di grande umiltà, consigliera, consolatrice, guida nel discernimento: “Ella - si legge - distribuiva la dottrina con tanta abbondanza che non si è mai visto nel monastero, ed abbiamo, ahimé! gran timore, che non si vedrà mai più nulla di simile. Le suore si riunivano intorno a lei per sentire la parola di Dio, come presso un predicatore. Era il rifugio e la consolatrice di tutti, ed aveva, per dono singolare di Dio, la grazia di rivelare liberamente i segreti del cuore di ciascuno. Molte persone, non solo nel Monastero, ma anche estranei, religiosi e secolari, venuti da lontano, attestavano che questa santa vergine li aveva liberati dalle loro pene e che non avevano mai provato tanta consolazione come presso di lei. Compose inoltre ed insegnò tante orazioni che se venissero riunite, eccederebbero il volume di un salterio” (ibid., VI,1).
Nel 1261 giunge al convento una bambina di cinque anni di nome Gertrude: è affidata alle cure di Matilde, appena ventenne, che la educa e la guida nella vita spirituale fino a farne non solo la discepola eccellente, ma la sua confidente. Nel 1271 o 1272 entra in monastero anche Matilde di Magdeburgo. Il luogo accoglie, così, quattro grandi donne - due Gertrude e due Matilde –, gloria del monachesimo germanico. Nella lunga vita trascorsa in monastero, Matilde è afflitta da continue e intense sofferenze a cui aggiunge le durissime penitenze scelte per la conversione dei peccatori. In questo modo partecipa alla passione del Signore fino alla fine della vita (cfr ibid., VI, 2). La preghiera e la contemplazione sono l’humus vitale della sua esistenza: le rivelazioni, i suoi insegnamenti, il suo servizio al prossimo, il suo cammino nella fede e nell’amore hanno qui la loro radice e il loro contesto. Nel primo libro dell’opera Liber specialis gratiae, le redattrici raccolgono le confidenze di Matilde scandite nelle feste del Signore, dei Santi e, in modo speciale, della Beata Vergine. E’ impressionante la capacità che questa Santa ha di vivere la Liturgia nelle sue varie componenti, anche quelle più semplici, portandola nella vita quotidiana monastica. Alcune immagini, espressioni, applicazioni talvolta sono lontane della nostra sensibilità, ma, se si considera la vita monastica e il suo compito di maestra e direttrice di coro, si coglie la sua singolare capacità di educatrice e formatrice, che aiuta le consorelle a vivere intensamente, partendo dalla Liturgia, ogni momento della vita monastica.
Nella preghiera liturgica Matilde dà particolare risalto alle ore canoniche, alla celebrazione della santa Messa, soprattutto alla santa Comunione. Qui è spesso rapita in estasi in una intimità profonda con il Signore nel suo ardentissimo e dolcissimo Cuore, in un dialogo stupendo, nel quale chiede lumi interiori, mentre intercede in modo speciale per la sua comunità e le sue consorelle. Al centro vi sono i misteri di Cristo verso i quali la Vergine Maria rimanda costantemente per camminare sulla via della santità: “Se tu desideri la vera santità, sta’ vicino al Figlio mio; Egli è la santità medesima che santifica ogni cosa” (ibid., I,40). In questa sua intimità con Dio è presente il mondo intero, la Chiesa, i benefattori, i peccatori. Per lei Cielo e terra si uniscono.
Le sue visioni, i suoi insegnamenti, le vicende della sua esistenza sono descritti con espressioni che evocano il linguaggio liturgico e biblico. Si coglie così la sua profonda conoscenza della Sacra Scrittura, che era il suo pane quotidiano. Vi ricorre continuamente, sia valorizzando i testi biblici letti nella liturgia, sia attingendo simboli, termini, paesaggi, immagini, personaggi. La sua predilezione è per il Vangelo: “Le parole del Vangelo erano per lei un alimento meraviglioso e suscitavano nel suo cuore sentimenti di tale dolcezza che sovente per l'entusiasmo non poteva terminarne la lettura … Il modo con cui leggeva quelle parole era così fervente che in tutti suscitava la devozione. Così pure, quando cantava in coro, era tutta assorta in Dio, trasportata da tale ardore che talvolta manifestava i suoi sentimenti con i gesti ... Altre volte, come rapita in estasi, non sentiva quelli che la chiamavano o la muovevano ed a mala pena riprendeva il senso delle cose esteriori” (ibid., VI, 1). In una delle visioni, è Gesù stesso a raccomandarle il Vangelo; aprendole la piaga del suo dolcissimo Cuore, le dice: “Considera quanto sia immenso il mio amore: se vorrai conoscerlo bene, in nessun luogo lo troverai espresso più chiaramente che nel Vangelo. Nessuno ha mai sentito esprimere sentimenti più forti e più teneri di questi: Come mi ha amato mio Padre, cosi io vi ho amati (Joan. XV, 9)”(ibid., I,22).
Cari amici, la preghiera personale e liturgica, specialmente la Liturgia delle Ore e la Santa Messa sono alla radice dell’esperienza spirituale di santa Matilde di Hackeborn. Lasciandosi guidare dalla Sacra Scrittura e nutrire dal Pane eucaristico, Ella ha percorso un cammino di intima unione con il Signore, sempre nella piena fedeltà alla Chiesa. E’ questo anche per noi un forte invito ad intensificare la nostra amicizia con il Signore, soprattutto attraverso la preghiera quotidiana e la partecipazione attenta, fedele e attiva alla Santa Messa. La Liturgia è una grande scuola di spiritualità.
La discepola Gertrude descrive con espressioni intense gli ultimi momenti della vita di santa Matilde di Hackeborn, durissimi, ma illuminati dalla presenza della Beatissima Trinità, del Signore, della Vergine Maria, di tutti i Santi, anche della sorella di sangue Gertrude. Quando giunse l’ora in cui il Signore volle attirarla a Sé, ella Gli chiese di poter ancora vivere nella sofferenza per la salvezza delle anime e Gesù si compiacque di questo ulteriore segno di amore.
Matilde aveva 58 anni. Percorse l’ultimo tratto di strada caratterizzato da otto anni di gravi malattie. La sua opera e la sua fama di santità si diffusero ampiamente. Al compimento della sua ora, “il Dio di Maestà … unica soavità dell'anima che lo ama … le cantò: Venite vos, benedicti Patris mei ... Venite, o voi che siete i benedetti dal Padre mio, venite a ricevere il regno … e l'associò alla sua gloria” (ibid., VI,8).
Santa Matilde di Hackeborn ci affida al Sacro Cuore di Gesù e alla Vergine Maria. Invita a rendere lode al Figlio con il Cuore della Madre e a rendere lode a Maria con il Cuore del Figlio: “Vi saluto, o Vergine veneratissima, in quella dolcissima rugiada, che dal Cuore della santissima Trinità si diffuse in voi; vi saluto nella gloria e nel gaudio con cui ora vi rallegrate in eterno, voi che di preferenza a tutte le creature della terra e del cielo, foste eletta prima ancora della creazione del mondo! Amen” (ibid., I, 45).

giovedì 23 settembre 2010

I classici di dom Gérard

Attesa da diversi anni, ecco ora pubblicata l'ultima opera preparata dal fondatore e primo abate dell'abbazia Sainte-Madeleine di Le Barroux, dom Gérard Calvet (1927-2008): 50 livres. Les classiques de Dom Gérard pour une vraie culture de l'esprit, Editions Sainte-Madeleine, Le Barroux 2010, 224 pp., euro 17,00.
Per ciascuno dei 50 libri da lui scelti, dom Gérard chiese all'uno o all'altro fra i suoi amici una breve presentazione, dando così vita a questo volume collettaneo.
Una passeggiata letteraria gustosa e accattivante, riflesso di un'apertura di spirito e di una prospettiva culturale ben note.
Il libro è disponibile tramite il negozio online dell'abbazia.

domenica 19 settembre 2010

La vita monastica secondo la tradizione dei Padri

[Il cammino del monaco. La vita monastica secondo la tradizione dei padri, Introduzione, scelta e traduzione dalle lingue originali a cura di Luigi d’Ayala Valva, Edizioni Qiqajon, Magnano (Biella) 2009, 992 pp.]

Luigi d’Ayala Valva pubblica, sotto forma di antologia, una sintesi imponente sulla tradizione monastica del primo millennio. Lo scopo dell’opera, «umile e ambizioso allo stesso tempo», è di far emergere dai testi presentati una logica e una dinamica interna al monachesimo antico (Introduzione, pp. 1-28). Più che una giustapposizione di documenti che danno in successione il parere di questo o di quell’autore su un dato aspetto della vita monastica, si tratta di cogliere, attraverso l’organizzazione di un materiale molto abbondante, la tradizione monastica antica nel suo insieme. Per questo, Luigi d’Ayala Valva si guarda da un approccio erudito o filologico delle fonti, ma preferisce una lettura sincronica e spirituale. Come la Scrittura la tradizione monastica è così trattata come un corpus unitario, da Antonio il Grande a Simeone il Nuovo Teologo, capace di trasmettere un messaggio coerente. I testi, posti sotto una sessantina di autorità, appartengono a generi diversi: storia, teologia, apoftegmi e discorsi edificanti, agiografia, regole monastiche, omelie, catechesi, liturgia, cantici o diritto canonico. Scritti se non dai «Padri della Chiesa», almeno dai «Padri del monachesimo», ricevono ciascuno una nuova traduzione dal greco o dal latino in italiano.
Il percorso proposto dal traduttore è quello dell’itinerario di un monaco (Il cammino del monaco), di cui ecco le tappe:
– Presentazione della vita monastica (Prologo): il monaco, le forme della vita monastica, i monaci, la Chiesa e il mondo;
– Diventare monaci (Prima parte): la vocazione e la conversione, la rinuncia al mondo e la sua conseguenza, l’iniziazione monastica, l’ascolto e l’obbedienza al padre spirituale, il celibato e la verginità, la perseveranza e la stabilità;
– La vita in monastero (Seconda parte): la comunità, il superiore, i rapporti fraterni, la liturgia, la povertà e la comunione dei beni, il lavoro, il silenzio e la parola, l’ascesi del corpo, l’ospitalità;
– La vita nascosta (Terza parte): la solitudine e la custodia della cella, l’attenzione e la vigilanza, la lotta spirituale e il discernimento dei pensieri, la compunzione e il dono delle lacrime, la lectio divina, la preghiera personale, l’acedia e la pazienza;
– Pienezza di vita (Quarta parte): l’umiltà, la purezza di cuore e la carità;
– Epilogo: la morte del monaco.
Si può valutare ciò che lo spoglio della letteratura monastica, la sua traduzione e la sua classificazione in qualcosa come novecento pagine possano rappresentare come lavoro meritorio. A ciò si aggiunge all’inizio di ognuno dei 29 capitoli delle brevi sintesi sui temi affrontati. La bibliografia, l’indice tematico e l’indice dei testi utilizzati (pp. 907-980) permettono di progredire agevolmente nell’opera. Stampato su carta-bibbia con una rilegatura telata, il volume è di uso agevole e di aspetto curato.
Dopo il florilegio di Antonio Rigo nel 2008 consacrato per un periodo posteriore ai mistici bizantini (cfr. Revue des Études Byzantines, 67, 2009, pp. 260-262), ecco dunque una nuova raccolta a metà tra antologia dotta e scala spirituale, ove il lettore troverà, qualunque siano i suoi scopi, un bagaglio completo e ordinato sul monachesimo dei primi secoli, compreso con Adalbert de Vogüé (citato a p. 11) come «allo stesso tempo un movimento spirituale del passato e una via aperta nell’oggi all’anima che cerca Dio».

[Olivier Delouis, Revue des Études Byzantines, 68 (2010), pp. 240-241]

giovedì 16 settembre 2010

Due passi nell'eternità

[Grazie alla cortese autorizzazione dell'Autore - di cui abbiamo già pubblicato una recensione al libro di Dom Cassingena-Trévedy, La bellezza della liturgia - trascriviamo una suggestiva cronaca sulla Comunità degli Eremiti della Beata Vergine del Soccorso di Minucciano (Lucca), che dal 1982 conduce in Garfagnana un'esperienza monastica d'impronta benedettina vissuta nello spirito degli Eremiti Camaldolesi di Monte Corona (riforma del secolo XVI della famiglia che ha le sue origini in san Romualdo)]


“Nel tetro e soffocante edificio del mondo, il chiostro è lo spazio aperto al sole e all’aria”
(Nicolás Gómez Dávila)


La Garfagnana è uno dei luoghi più simili alla tolkieniana Terra di Mezzo: una sequenza di verde e tronchi, tronchi e verde, solo saltuariamente interrotta da chiese romaniche e da piccoli borghi di case in pietra, senza tempo, in cui non ti stupiresti di trovare l’Osteria del Drago Verde o la Locanda del Puledro Impennato. Man mano che ci avviciniamo il bosco si infittisce, i rami degli alberi invadono la strada e sembra quasi di intravedervi il volto di Barbalbero, come se anch’essi avessero assunto la fisionomia dei tre “Gandalf” che abitano in cima a questa lunga teoria di salite e curve, curve e salite sempre più strette. Finalmente arriviamo in cima e parcheggiamo vicino alla casetta adibita a foresteria. Le auto già presenti ci ricordano che nei giorni di festa la solitudine degli eremiti è “violata” da numerose persone che vanno a cercare Dio fin lassù, dove si sentono solo i cinguettii degli uccelli e gli inni sacri dei monaci, che si fondono per unirsi al canto degli angeli.
Entriamo nella chiesetta che - nonostante manchi più di un’ora alla messa - è già piena per i secondi vespri dell’Ascensione. L’altare è quello antico, rivolto ad Deum. Al centro c’è il trono del Re, il tabernacolo, cuore pulsante dell’edificio e della vita dei tre barbuti monaci che siedono ai lati con il breviario tra le mani, avvolti nel loro saio: da un lato fra’ Mario, il superiore, e dall’altro gli altri due, fra’ Claudio (il creativo del gruppo) e padre Lorenzo – quest’ultimo è l’unico sacerdote dei tre, per assicurare i sacramenti ai fratelli. La loro Madre e Regina, la Vergine del Soccorso, è raffigurata sulla pala d’altare nell’atto di percuotere il demonio e così pure nella statua che per il mese mariano ha abbandonato la sua nicchia per mettersi in bella vista ed essere ricoperta di preghiere e omaggi floreali in prossimità del presbiterio - alla nostra sinistra, ma alla destra del Re come la regina del Salmo 44: astitit regina a destris tui, in vestitu deaurato, circumdata varietate. Padre Lorenzo va al centro del presbiterio: nelle sue mani il turibolo oscilla continuamente a destra e a sinistra, in un singolare contrasto con la ieratica immobilità del monaco che sembra appena uscito da un’icona bizantina. A forza di contemplare le realtà celesti sembra fatto d’incenso anche lui. È una scena letteralmente dell’altro mondo, che nessuno potrebbe contemplare restando indifferente; è di una bellezza che non si spiega senza Dio.
Tra il canto di salmi e inni si distingue la voce più “musicale” di tutte, quella di fra’ Claudio: in effetti parliamo di un professionista, visto che - ironia della sorte -, prima di farsi eremita cantava nel gruppo rock-folk “Biglietto per l’inferno” – ma Dio fa nuove tutte le cose (Ap 21,5)...
Terminati i vespri, c’è la piccola cerimonia dell’imposizione dello scapolare del Carmelo ad alcuni fedeli. Fra’ Mario dice che è un giorno propizio per coloro che lo ricevono, poiché oltre alla solennità dell’Ascensione è anche la memoria di san Simone Stock, generale dei Carmelitani che in una situazione angosciante per il suo ordine chiedeva un segno alla sua celeste patrona. La Vergine gli apparve nel 1251 consegnandogli lo scapolare (attualmente due quadrati di stoffa uniti da due lacci), segno e pegno della Sua materna protezione. Quindi don Giovanni, che ha facoltà di imporlo, procede al breve rito e poi va a chiudersi nel confessionale durante la recita del santo rosario.
Una volta la settimana (il giovedi mattina) la messa è celebrata secondo la "forma straordinaria", in rito antico, ma qui è straordinaria anche la messa "ordinaria". Anche oggi la messa è in italiano, la stessa che troviamo in tutte le parrocchie, eppure sembra di trovarsi in un altro mondo. Nell’una o nell’altra forma del rito, nella vita e nella preghiera, nell’ora et labora, a Minucciano viene concretamente applicata quella “ermeneutica della riforma nella continuità” raccomandata da Papa Benedetto XVI.
Padre Lorenzo si reca all’altare rivestito dei paramenti sacerdotali, accompagnato da due oblati – cioè laici che vivono nel mondo la spiritualità degli eremiti – che servono la messa. Incensa ripetutamente e abbondantemente l’altare, un rito nel rito, uno spreco secondo qualche prete che predica e razzola “a cielo chiuso”– può darsi, ma è uno spreco sublime che solo la follia o l’amore possono spiegare. Uno spreco però gradito a Dio, come l’unguento sparso dalla donna ai piedi di Gesù, che solo un cuore chiuso come quello di Giuda poteva criticare… L’eremita invece sparge il sacro fumo senza misura, così come senza misura ha offerto la sua vita a Dio. Del resto, dopo la gioia del tempo pasquale – dice nell’omelia, con il consueto tono di voce in grado di placare qualsiasi tempesta dell’anima – oggi dobbiamo addirittura esultare perché la risurrezione di Cristo culmina nella Sua – e nella nostra! - ascesa alla destra del Padre. Bisogna credergli, anche perché descrive quel Cristo tanto concretamente – “luminoso”, lo definisce – come se parlasse di qualcuno che conosce da tempo. E, in effetti, è così...
Durante la prima metà del Canone, fino alla consacrazione, si interrompe continuamente: un silenzio ogni tre-quattro parole… Non sapremo mai se si stia commuovendo, se si sia fermato a meditare oppure se – perché no? – abbia visto “qualcosa”.
Sappiamo però che questi tre monaci, amici della terra come gli Hobbit e amici del cielo stellato come gli Elfi, vivono il mistero dell’Ascensione nella loro stessa vita. Ancora qui tra le fatiche del mondo e contemporaneamente già proiettati nelle Terre immortali, alla destra del Padre insieme alla celeste Regina, agli angeli e ai santi. Solo così si spiega la perenne giovinezza dei loro occhi - puri e acuti come quelli dei bambini – che dopo un po’ diventano ben più visibili delle lunghe e folte barbe. Quanti anni avranno? Da quanto tempo sono qui? Quanto sarà durata la liturgia? Né troppo tempo, né poco, anzi non è affatto durata: perché a Minucciano abbiamo fatto due passi nell’eternità...
Stefano Chiappalone

martedì 14 settembre 2010

Deus in adiutorium meum intende. Domine, ad adiuvandum me festina

[…] Al modo stesso è necessario comunicare a voi il modulo della dottrina spirituale, al quale, dirigendo in continuità e assai tenacemente il vostro sguardo, impariate a coltivarla salutarmente con ininterrotta prosecuzione, e così possiate, con quel ricorso e con la sua moderazione, risalire a visioni ancora più elevate. Per voi dunque sarà proposta come formula di questa disciplina e di questa preghiera, da voi richiesta, quella che ogni monaco, allo scopo di tendere al continuo ricordo di Dio, deve abituarsi a coltivare con una continua ripresa da parte del cuore e dopo avere espulsa la varietà di tutti gli altri pensieri, poiché egli non potrà applicarvisi in altro modo, se prima non si sarà liberato da tutte le preoccupazioni e sollecitudini corporali. Tale esperienza, come a noi è stata trasmessa da quei pochi che, tra gli antichissimi padri sono sopravvissuti, così pure da noi essa non viene proposta, se non a pochissimi, realmente sitibondi di accoglierla. Pertanto sarà da noi suggerita a voi, conseguentemente, questa formula di vera pietà, allo scopo di raggiungere un continuo ricordo di Dio: “O Dio, vieni in mio aiuto; Signore, vieni presto ad aiutarmi” [Sal 69,2]. Di fatto, questo breve versetto, non senza motivo, è stato particolarmente ripreso da tutto il complesso della Scrittura. Esso riflette tutti i sentimenti, di cui può essere capace la natura umana, e si adatta con sufficiente proprietà e convenienza ad ogni stato e a tutte le tentazioni. E in realtà questo versetto contiene l’invocazione a Dio di fronte a tutte le difficoltà, contiene l’umiltà d’una pia confessione, contiene la vigilanza in vista di ogni sollecitudine e timore, la fiducia d’essere esauditi, la confidenza d’un aiuto sempre presente e disponibile. E di fatto, chi sempre invoca il proprio protettore, è sicuro che quello è sempre presente. Questo versetto contiene l’ardore dell’amore e della carità, ha la visione delle insidie e la paura dei nemici, dai quali l’anima, osservando se stessa, ammette giorno e notte di non poter essere liberata senza l’aiuto del proprio protettore. Questo versetto è un muro inespugnabile, una corazza impenetrabile e uno scudo ben sicuro per tutti coloro che sostengono gli attacchi dei demoni. Esso non ammette che disperino dei rimedi per la loro salvezza coloro che vengono a trovarsi in preda all’accidia, all’ansietà dell’animo e alla tristezza, o comunque depressi, poiché dichiara colui che viene invocato osserva costantemente le nostre lotte e non è lontano da chi lo invoca. Questo versetto ci ammonisce a non doverci insuperbire troppo per i successi del nostro spirito e per la letizia del nostro cuore, e a non gonfiarci nei momenti della prosperità, visto che non è possibile, com’esso attesta, perseverare in quello stato senza la protezione di Dio, dato che esso non è soltanto un’espressione di continua preghiera, ma anche una supplica per essere aiutati al più presto. Questo versetto, ripeto, risulta necessario e utile per chiunque di noi venga a trovarsi in qualsiasi occorrenza.

[Giovanni Cassiano, Conferenze ai monaci, [Libro I, Conf. X,10], traduzione e note a cura di Lorenzo Dattrino, 2 voll., Città Nuova, Roma 2000, vol. 1, pp. 404-405]

venerdì 3 settembre 2010

Monaci e angeli

I monaci hanno scelto un genere di vita degno del cielo e tengono una condotta che non è inferiore a quella degli angeli. Fra gli angeli, infatti, non c’è nessuna disuguaglianza: non ci sono alcuni che vivono nella felicità, mentre altri sono immersi in un mare di sofferenza; ma tutti godono della medesima pace, della medesima gioia e della medesima gloria. Così nei cenobi nessuno si lamenta della povertà, nessuno si vanta delle ricchezze, ed è assolutamente bandito quel tuo e quel mio che tutto sconvolge nel turbamento. Tra loro tutto è comune: la mensa, l’alloggio, le vesti. E qual meraviglia quando in tutti vi è un’unica e medesima anima? E la medesima nobiltà che li rende tutti nobili, la medesima servitù che li costituisce servi, la medesima libertà che li rende liberi. Là tutti godono delle uniche ricchezze che sono veramente ricchezze e dell’unica gloria che è veramente gloria. I veri beni essi li possiedono di fatto, non solo di nome. Un solo godimento, un solo desiderio, una sola speranza comune a tutti e ogni cosa è assolutamente ordinata come con una regola e una giusta bilancia.
Nessuna irregolarità, ma invece ordine, bella disposizione, armonia, gran diligenza nel conservare la concordia e materia per una letizia che non viene mai meno. Per questo tutti sono pronti a fare o a subire tutto per poi esultare e godere.
Soltanto là si possono vedere queste cose attuate a perfezione e in nessun’altra parte. Difatti non soltanto essi arrivano a disprezzare tutte le cose presenti, a eliminare ogni causa di rissa e di discordia, sostenuti come sono da una fulgida speranza dei beni futuri, ma sono soliti pure a stimare comune a tutti qualunque cosa di lieto o di triste colpisca ciascuno personalmente. I pesi e le afflizioni, infatti, si sopportano con più facilità, quando sono condivisi da tutti e da ciascuno, per così dire, in egual misura; le occasioni di gioia, invece, si moltiplicano, quando tutti godono non meno dei propri beni e vantaggi che di quelli di tutti gli altri.

[San Giovanni Crisostomo (344/354-407), dal trattato Contro gli oppositori della vita monastica, Lib. III, 11]