mercoledì 7 dicembre 2022

L come lavoro - San Benedetto per tutti / 17

Ora et labora
... Per lavoro qui s’intende tutta quella parte della vita monastica diversa dalla preghiera (liturgica o privata) e dalla lectio divina. La visione benedettina del lavoro permette al monaco di viverlo nella gioia, una gioia anzitutto soprannaturale, beninteso. Vediamone le ragioni: conoscerle meglio potrà aiutarvi a impregnarne il vostro lavoro.
Gioia di fare la volontà di Dio e così contribuire alla sua gloria. Il lavoro è infatti parte integrante del piano di Dio per luomo, sia prima che dopo il peccato originale. Il monaco sa dunque che lavorando compie così la volontà di Dio, tanto più che non sceglie il proprio lavoro, ma lo riceve umilmente dall’abate, rappresentante di Cristo.
Gioia di un lavoro ben fatto. Perché non si può degnamente pretendere di lavorare per la gloria di Dio senza che la qualità del lavoro ne risenta. Gioia di rendere fecondi i talenti che Dio ci ha donato, di metterli al servizio degli altri e contribuire così al bene comune della comunità. Gioia di poter fare l’elemosina grazie al frutto del nostro lavoro.
Gioia di fare umilmente lavori spesso nascosti, senza prendersi sul serio, secondo questa raccomandazione dello stesso Nostro Signore: “Quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: ‘Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare’” (Lc 17,10).
Gioia di unire a volte il nostro dolore a quello di Cristo. Quando il nostro lavoro assume un aspetto doloroso, ricordiamoci che Nostro Signore era un falegname e non una persona che viveva di rendite! Gioia, infine, di sapere che un lavoro così compiuto ci unisce veramente a Dio, poiché è già di per sé una vera preghiera.
Buon lavoro a tutti in una rinnovata gioia!
La prossima volta, Z come zelo.

[Fr. Ambroise O.S.B., “Saint-Benoît pour tous...”, La lettre aux amis, dell’Abbazia Sainte-Marie de la Garde, n. 42, 6 dicembre 2022, p. 4, trad. it. di fr. Romualdo Obl.S.B.]

domenica 27 novembre 2022

Ordo Divini Officii 2023

Domenica 27 novembre 2022 è iniziato il Tempo dell’Avvento ed è perciò entrato in vigore il nuovo calendario liturgico. Per quanti desiderano recitare l’Ufficio monastico – che può essere ascoltato in diretta – e seguire il calendario liturgico nella forma extraordinaria del Rito romano in uso presso l’abbazia Sainte-Madeleine di Le Barroux, è ora disponibile online in formato pdf l’Ordo Divini Officii 2023.

Il Tempo dAvvento

Per noi cristiani è sempre una gioia intima, quando iniziamo un nuovo anno liturgico. La nostra madre Chiesa ci tende caritatevolmente la mano e ci vuole guidare durante un anno santo, farci vivere un anno di vita divina. Nuovamente il Cristo mistico vuole crescere nelle sue membra, fare circolare nel suo corpo, che è la Chiesa, la corrente di vita divina. Questo è il fine di tutta la liturgia.

L’anno liturgico non ci vuole parlare del passato, ma del presente. Esso non intende offrirci della storia, ma della realtà. Non ci vuole raccontare fatti trascorsi, quanto invece donarci la vita divina e svilupparla in noi.

Durante l’Avvento, sospiriamo con l’ardore dei giusti dell’Antico Testamento dopo la venuta del Salvatore; a Natale, gioiremo della sua nascita e per essa dell’acquisita redenzione; dopo l’Epifania, cercheremo di estendere il regno di Dio in noi e attorno a noi.

[Dom Pius Parsch C.R.S.A. (1884-1954), cit. da Le Guide dans l’anné liturgique, in Missel quotidien complet pour la forme extraordinaire du rite romain, Éditions Sainte-Madeleine, Le Barroux 2013, p. 3, trad. it. di fr. Romualdo Obl.S.B.]

lunedì 10 ottobre 2022

Omelia in occasione del 40° anniversario di Notre-Dame de Chrétienté

[Sabato 8 maggio 2022, presso la chiesa di Saint-Roch a Parigi, alla presenza di circa 900 fedeli, si è svolta una Messa pontificale celebrata da Dom Louis-Marie Geyer d’Orth O.S.B., padre abate dell’abbazia Sainte-Madeleine du Barroux, per commemorare i 40 anni dell’associazione Notre-Dame de Chrétienté, organizzatrice dell’annuale Pellegrinaggio di Pentecoste da Parigi a Chartres. Qui di seguito lomelia di Dom Louis-Marie (trad. it. di fr. Romualdo Obl.S.B.).]

Reverendi Padri Abati,
Signor Cappellano,
Signor Presidente,
Cari Amici di Notre-Dame de Chrétienté,

La Provvidenza è stata così gentile da fare celebrare a un padre abate benedettino la santa Messa per solennizzare i quarant’anni dell’associazione Notre-Dame de Chrétienté. Permettetemi dunque di salutare – da lontano per la distanza, ma da molto vicino con il cuore – Sua Eminenza il cardinale Robert Sarah, che ha preferito rinunciare a celebrare questa Messa per ragioni diplomatiche.
È dunque un benedettino che è qui, a duplice titolo: come superiore di una comunità fondata, mezzo secolo fa, sulla celebrazione della sacra liturgia secondo gli antichi libri liturgici, e come successore di Dom Gérard, che vi saluta dal cielo. Il fondatore dell’abbazia di Sainte-Madeleine è stato sin dall’inizio un ardente sostenitore del pellegrinaggio, incoraggiando i laici che furono all’origine di quest’opera audace e – va detto – di reazione contro l’apostasia generalizzata di una società impazzita.
Dopo quarant’anni di fedeltà, di lotta, di prove, di lacrime, quarant’anni di ammirevole generosità da parte di tanti cattolici, di tanti laici e sacerdoti, dopo quarant’anni di fatica, di croci, ma anche di gioia e di speranza, quale bilancio possiamo fare?
In quanto monaco benedettino, permettetemi di trasmettervi alcune esortazioni di san Benedetto indirizzate al padre abate. Perché il padre abate?
Perché tutti voi qui presenti, che avete una certa responsabilità nel pellegrinaggio, partecipate alla grazia di Cristo capo.
Sì, lei, signor Presidente, e tutti voi, suoi collaboratori, fino ai capi dei capitoli e tutti i “decani” (cfr. Regola, cap. 21), come li chiama san Benedetto. Sì, tutti voi, ognuno al suo posto, senza clericalismo e senza alcun anticlericalismo, siete parte di questa grande opera al servizio della gloria di Dio e della salvezza delle anime.
La prima esortazione è di ricordare il nome che portate (cfr. Regola, cap. 2, 1-2).
Per san Benedetto, questo è molto importante. Perché per quest’uomo imbevuto di Sacra Scrittura, il nome è una chiara identità. Il nome è anche una missione. “Nostra Signora della Cristianità”: questo è il vostro nome. Nostra Signora, colei che è stata scelta da Dio. Un nome è una vocazione, una chiamata, un amore di preferenza. Sì! Siate certi che Dio ha puntato il suo dito su di voi, e ha detto: “Tu! Vieni e seguimi su questa strada. Vieni dietro di me in una vicinanza interiore fatta di grazia, nel dono dello Spirito Santo e d’inabitazione interiore”.
Nostra Signora della Cristianità: ecco la vostra missione. Una missione che può apparire al di là di ogni speranza umana e che in una certa misura è destinata al fallimento, a tal punto il rapporto di forze è ineguale. Ma cosa posso dirvi? Solo che è il vostro nome, la vostra missione, quindi è la vostra ragion d’essere: lavorare per stabilire il letto temporale del fiume spirituale. Non abbiate paura e soprattutto non scoraggiatevi mai. Ci sono voluti sei secoli a san Benedetto per coprire l’Europa con un manto bianco di monasteri di monaci e monache. E non era peraltro il suo progetto. Ma, cercando veramente Dio, ha “avviato un processo”, come dice Papa Francesco.
Nostra Signora della Cristianità è un nome, è una missione, è un inizio. Dopo 40 anni di esistenza, la vostra missione è appena iniziata.
La seconda esortazione che vi trasmetto di san Benedetto all’abate è di insegnare ai figli con la sana dottrina e l’esempio (cfr. Regola, cap. 2, 11-12). Più con l’esempio che con la dottrina, certo, ma mai senza di essa.
Accogliete questa esortazione con fierezza, perché per 40 anni, indipendentemente dai presidenti, dai cappellani, questa preoccupazione dottrinale è sempre stata cruciale. Con un’ovvia preoccupazione per l’adattamento, ma senza mitigazione o debolezza.
Alcuni potrebbero essersi chiesti se un pellegrinaggio fosse il luogo ideale per l’insegnamento. Don Coiffet si era posto la domanda e la risposta era venuta naturalmente: sì, e soprattutto nel nostro tempo che vede una grande crisi della fede. Ciò che è in gioco, soprattutto oggi, non è solo la conoscenza. È vero che anche i cristiani ignorano i misteri più basilari della fede: la divinità di Nostro Signore Gesù Cristo, la presenza reale nell’eucaristia, la natura sacrificale della santa Messa.
Ma il male non è più profondo? Santa Bernadette di Lourdes ignorava molti punti della dottrina, ma aveva la fede, aveva questa virtù soprannaturale dell’obbedienza dell’intelligenza a una rivelazione, a una verità trascendente, che viene da Dio e che è trasmessa da Dio attraverso la Chiesa. Il dramma va così lontano perché non solo le anime non sanno più dove trovare la luce, ma arrivano al punto di pensare che non ci sia luce autentica proveniente dall’alto. Il mondo moderno non è solo un’apostasia della vita interiore, è anche un rifiuto della trascendenza. Le sintesi sinodali mostrano fino a che punto anche i cristiani impegnati hanno perso non solo la fede, ma il senso della fede.
Quindi, sì, è importante e urgente dare, durante questi incontri di giovani, il gusto per la dottrina, il senso della fede. Sì, è della massima importanza dare loro la possibilità di alzare gli occhi verso la verità e – perdonatemi l’espressione – d’infilare il muso nella verità. Compelle intrare, “spingili a entrare” (Lc 14,23). A volte basta un’esperienza, uno shock sentito grazie allo splendore della verità, per aprire all’anima un cammino di conversione e d’impegno al servizio del Signore.
San Benedetto aggiunge che il buon esempio è decisivo, e vorrei salutare oggi tutti i laici che hanno dimostrato una generosità edificante nel preparare, organizzare, accompagnare, a volte adattare, il corso del pellegrinaggio. E vorrei salutare tutti i sacerdoti che camminano coraggiosamente ogni anno in mezzo al gregge per confessare, insegnare, illuminare, adattarsi a ogni situazione.  Ma soprattutto, vorrei incoraggiarvi, se necessario, a prendervi cura della sacra liturgia. Perché qual è l’esempio migliore, il segno più eloquente dello splendore della verità di una sacra liturgia? Se amiamo la liturgia celebrata secondo il messale di san Pio V, è soprattutto per il suo senso del sacro e per il rispetto dovuto a Dio.
È innegabile che molti giovani abbiano scoperto questo universo che, per loro, non è una cosa vecchia, ma una novità totale. La liturgia tradizionale non è nostalgia del passato, è l’ingresso in un mondo nuovo. Mi fermo qui perché sento che sto predicando ai convertiti.
Mi rimane una terza istruzione da trasmettervi da san Benedetto, e che rileggo due volte l’anno nel capitolo mattutino con tremore.
San Benedetto esorta l’abate a ricordare spesso che sarà responsabile di fronte al Signore nel giorno del giudizio, non solo per le proprie azioni, ma anche per quelle del suo gregge (Regola, capp. 2 e 64).
Sì, il Signore ci affida le anime. E se ognuno ha la responsabilità ultima dei propri meriti e dei propri difetti, abbiamo anche la missione di portare i fardelli gli uni degli altri (Gal 6,2). Abbiamo quindi una parte di responsabilità per la salvezza delle anime. È d’altro canto una missione generale che ogni cristiano riceve al battesimo: quella di partecipare, di prendere parte alla gloria di Dio e alla salvezza delle anime.
San Benedetto parla molto spesso dei fini ultimi e dei conti che ognuno dovrà fare con il Signore per quello che ha fatto e per quello che non ha fatto. È una chiamata alla responsabilità e, per noi, a renderci conto che questo regno di Dio per il quale lavoriamo non è di questo mondo. Notre-Dame de Chrétienté, se è stata fondata per lavorare per il radicamento delle verità cristiane nella società, non deve mai dimenticare l’orizzonte eterno che è il vertice della storia.
San Benedetto specifica due punti particolari sui quali il padre abate sarà giudicato per quanto riguarda il suo ministero: la dottrina dei suoi fratelli e la loro obbedienza (Regola, cap. 2,6).
Ho già parlato della dottrina.
Ed è con le pinze che mi avvicino al tema dell’obbedienza.
Con le pinze perché i giovani cattolici in generale sono in collera. Alcuni vescovi ne sono emozionati e sorpresi. Bene, voglio dire ai giovani cattolici, a quei giovani che rimangono fedeli alla fede, alla liturgia tradizionale e alla Chiesa cattolica, che questa collera è comprensibile. Perché la collera è quella passione che Dio ha creato per aiutarci ad affrontare il male. E Dio sa quanto siete stati aggrediti.
Ma aggrappatevi alla chiamata del Signore: “Adiratevi e non peccate”, Irascimini et nolite peccare (Ef 4,26, citando Sal 4,5). Aiutiamo i giovani a mantenere la linea di cresta. Ho ancora, nell’orecchio e nel cuore, il grande grido di don Alexis Garnier: “duplice fedeltà”. Lo faccio mio oggi. È una sfida. Ma il pellegrinaggio di Notre-Dame de Chrétienté non porta forse il nome di “Pellegrinaggio di Pentecoste”, e quindi dello Spirito Santo, e quindi dei doni dello Spirito Santo che ci danno la forza di percorrere la strada giusta in condizioni estreme? Devo concludere questa omelia e lo farò suggerendovi all’orecchio un ultimo consiglio benedettino. San Benedetto dice all’abate: “Non preoccuparti troppo, mio brav’uomo, altrimenti non avrai mai riposo” (Regola, cap 64,16).
No, non ti preoccupare troppo perché sei troppo piccolo per essere responsabile di tutto.
Non ti preoccupare troppo perché il Signore è più grande di te, ed è il vero Re delle nazioni, e lo sa.
Non ti preoccupare troppo perché Maria è qui, colei che ha dato alla luce il Salvatore in una miserabile mangiatoia, colei che ha visto morire su una croce il vero Re, colei che lo ha visto risorto, colei che ha visto dei poveri uomini andare a predicare alle nazioni.
È ancora qui.
È sempre qui.
Amen.

domenica 9 ottobre 2022

La Tradizione è la giovinezza della Chiesa

Video commemorativo per il 40mo anniversario del Pellegrinaggio Parigi-Chartres.

domenica 31 luglio 2022

L’epopea monastica

Dom Patrice Cousin O.S.B. - Dom Philibert Schmitz O.S.B., L’épopée monastique. Précis d’histoire des moines et des moniales. Complété, corrigé et actualisé par Cyrille DevillersEditions Sainte-Madeleine, Le Barroux 2022, pp. 976.

Nota dell’editore

La sintesi di Dom Patrice Cousin O.S.B. (Précis d’histoire monastique, 1956) ha molti meriti. Se altri lavori gli sono succeduti, essa conserva la sua importanza e testimonia un’impressionante erudizione monastica. Al suo tempo, essa fu accolta dal mondo universitario come un’opera senza eguali, poiché molto completa e in quanto apre con la sua bibliografia ragionata ampie prospettive. Dom Patrice Cousin era d’altro canto consapevole dei limiti del suo volume:
“Amico lettore, apri questo manuale scritto per iniziarti alla storia monastica e farti seguire la curva della sua evoluzione storica. Alcuni brani e capitoli ti piaceranno; altri ti interesseranno di meno; forse addirittura vi troverai delle inesattezze e delle omissioni. Non temere di avvertire l’autore. Alla nostra epoca, le opere invecchiano rapidamente, ma precisamente rimangono vive se si può stabilire un dialogo fra l’autore e i suoi lettori”.
Sessantacinque anni dopo la pubblicazione del Précis d’histoire monastique, è a questo dialogo fruttuoso che ci siamo voluti dedicare. S’imponeva un aggiornamento complessivo del suo lavoro. Alcuni brani avevano semplicemente bisogno di essere ringiovaniti; altri (soprattutto nella storia antica) necessitavano di essere scritti nuovamente; la bibliografia necessitava di essere completata. I libri che si trovano citati non sono sempre stati utilizzati nella redazione del testo rivisto.
Sono stati adottati due metodi: sia le correzioni e i complementi sono entrati nel testo; sia il testo di Cousin è stato rispettato e vi si è aggiunto un paragrafo di correzione con altro stile tipografico.
Ciò non sarebbe stato possibile senza l’aiuto di numerosi eruditi e specialisti che hanno accettato di mettere mano a quest’opera.
Ringraziamo in particolare Padre Vincent Desprez, Padre Etienne Baudry, Daniel-Odon Hurel, Eric Delaissé, Frédéric Curzawa.
La storia delle monache necessitava di essere trattata separatamente: essa è l’oggetto di una seconda parte, tratta dal tomo VII della Histoire de l’ordre de saint Benoît (1956) di Dom Philibert Schmitz O.S.B. Il testo è stato rispettato, ma è stato arricchito di appendici, da una nuova bibliografia e da commentari di Daniel-Odon Hurel.

Le Barroux, settembre 2021

lunedì 18 luglio 2022

S come sonno - San Benedetto per tutti / 16

In tempi in cui la nostra società, e specialmente i nostri giovani, non brillano né per equilibrio né per buon senso, la sapienza pratica della Regola ci offre preziosi richiami anche su un punto così basilare come quello del sonno. Diverse evidenze guidano il realismo di san Benedetto in quest’ambito.
Anzitutto, la quantità di sonno è una questione direttamente correlata alla virtù della prudenza (RB VIII), aspetto che è bene ripetere in un momento in cui l’esaurimento è una realtà tristemente di moda. Inoltre, a san Benedetto non piacciono i monaci “sonnolenti” (RB IV). Egli inizia dando ai suoi monaci un tempo di sonno sufficiente. Sano realismo! Non si può vivere bene ciò che si deve vivere se si è continuamente stanchi e, con rare eccezioni, la mancanza abituale di sonno non ha mai portato al fervore, ma allo squilibrio o addirittura al collasso.
Poi, San Benedetto stabilisce un principio semplice e non negoziabile: c’è un’ora per andare a letto e un’ora per alzarsi! La questione del tempo di sonno è quindi in parte una questione di disciplina personale, e non principalmente inerente allo stato di vita.  Il monaco ha, siatene certi, come tutti voi, la tentazione di fare mille cose più o meno interessanti o urgenti nel momento in cui sarebbe ragionevole andare a letto!  Si noti anche che, in san Benedetto, la sveglia è energica. Rimanere a letto? Non se ne parla! Se il monaco riposa, è per essere pronto al suo dovere di stato non appena si sveglia.
Infine, c’è un tempo in cui una certa penitenza nel sonno può essere del tutto propizia, ed è quello della Quaresima (RB XLIX). Il tempo così risparmiato sarà messo a beneficio, non di Internet, ma della vita di unione con Dio: lettura spirituale, preghiera...
Concludendo, siamo quasi imbarazzati di avere ricordato queste evidenze. Ma rimane una domanda: a casa, cari amici, come vengono vissute queste prove?
La prossima volta, L come lavoro.

[Fr. Ambroise O.S.B., “Saint-Benoît pour tous...”, La lettre aux amis, dellAbbazia Sainte-Marie de la Garde, n. 41, 6 luglio 2022, p. 4, trad. it. di fr. Romualdo Obl.S.B.]

martedì 18 gennaio 2022

Note a margine del motu proprio “Traditionis Custodes”

Il 16 luglio 2021, nella memoria liturgica di Nostra Signora del Monte Carmelo, è stata pubblicata la Lettera Apostolica in forma di motu proprio “Traditionis Custodes” del Sommo Pontefice Francesco sull’uso della Liturgia Romana anteriore alla Riforma del 1970, che – come scrive il card. Gerhard Ludwig Müller, prefetto emerito della Congregazione per la Dottrina della fede, nelle sue considerazioni pubblicate sull’ultimo numero di Cristianità – “è stata drasticamente limitata. Il chiaro intento è quello di condannare la forma straordinaria all’estinzione”.

Alla scuola di Alleanza Cattolica, collochiamo il quadro della situazione nella cornice appropriata.

Dom Prosper Guéranger O.S.B.: “La liturgia è la Tradizione stessa nel suo più alto grado di potenza e di solennità”.

La sentenza lex orandi, lex credendi, traducibile con “la legge della preghiera è la legge del credere”, si riferisce alla relazione tra il culto e la fede. In un’epoca in cui non esistevano ancora formule di fede o promemoria di fede quali saranno i dogmi, e ancora non era stato fissato il canone biblico, la regola di fede erano gli annunci presenti nelle asserzioni della liturgia, il cui valore “probante” cresceva con l’uniformità tra le Chiese sparse nei territori in cui avevano predicato gli apostoli. Il principio lex orandi, lex credendi, anche se non formalmente formulato, era in pratica la principale fonte per fissare i contenuti della fede. La formulazione di questo principio della teologia cristiana appare in Prospero di Aquitania (V secolo), il quale nell’ottavo libro dell’opera De gratia Dei et libero arbitrium scrive: “obsecrationum quoque sacerdotalium sacramenta respiciamus, quae ab apostolis tradita, in toto mundo atque in omni catholica Ecclesia uniformiter celebrantur, ut legem credendi lex statuat supplicandi” (“Noi vediamo anche nelle preghiere sacerdotali quelle cose che, tramandate dagli apostoli, in tutto il mondo e in ogni chiesa cattolica sono uniformemente celebrate come se la legge del credere fosse stabilita dalla legge del pregare”). Questo principio nella teologia cattolica gode di un grande prestigio perché permette di esplorare quale fosse il credo delle prime comunità cristiane. Riflesso di questa considerazione si nota anche nel Catechismo della Chiesa Cattolica, che al n. 1124 afferma: “La fede della Chiesa precede la fede del credente, che è invitato ad aderirvi. Quando la Chiesa celebra i sacramenti, confessa la fede ricevuta dagli Apostoli. Da qui l’antico adagio: ‘Lex orandi, lex credendi’ (oppure: ‘Legem credendi lex statuat supplicandi’, secondo Prospero di Aquitania). La legge della preghiera è la legge della fede, la Chiesa crede come prega. La liturgia è un elemento costitutivo della santa e vivente Tradizione”.

Dal punto di vista liturgico, la Chiesa latina utilizza sostanzialmente senza variazioni dal 1570 – ma le radici affondano almeno a san Gregorio Magno, nel VI secolo – il Messale romano emanato con la bolla Quo primum tempore dal Papa san Pio V, che così facendo approvò l’edizione del Messale Romano in esecuzione dei decreti del Concilio di Trento (Missale Romanum, ex decreto sacrosancti Concilii Tridentini restitutum, Pii Quinti Pontificis Maximi iussu editum). Tant’è vero che fino all’edizione del 1962 emanata da san Giovanni XXIII – ultima versione della Messa di san Pio V –, in ogni edizione del Messale veniva stampato il testo della Quo primum tempore insieme a quello dei documenti dei successori in cui si autorizzavano le alterazioni.

Riforma di Paolo VI entrata in vigore nel 1970: difficoltà nella ricezione. Come ricorda la Istruzione del 2011 della Pontificia Commissione Ecclesia Dei sull’applicazione del motu proprio Summorum Pontificum di Benedetto XVI: “Diversi fedeli, formati allo spirito delle forme liturgiche precedenti al Concilio Vaticano II, hanno espresso il vivo desiderio di conservare la tradizione antica. Per questo motivo, Papa Giovanni Paolo II con lo speciale Indulto Quattuor abhinc annos, emanato nel 1984 dalla Sacra Congregazione per il Culto Divino, concesse a determinate condizioni la facoltà di riprendere l’uso del Messale Romano promulgato dal Beato Papa Giovanni XXIII. Inoltre, Papa Giovanni Paolo II, con il Motu Proprio Ecclesia Dei del 1988, esortò i Vescovi perché fossero generosi nel concedere tale facoltà in favore di tutti i fedeli che lo richiedevano. Nella medesima linea si pone Papa Benedetto XVI con il Motu Proprio Summorum Pontificum”.

In effetti, al termine del percorso appena delineato, il 7 luglio 2007 Papa Benedetto XVI, con il motu proprio Summorum Pontificum, compie un passaggio decisivo, intuibile sin dal primo articolo della lettera apostolica, che recita: “Il Messale Romano promulgato da Paolo VI è la espressione ordinaria della ‘lex orandi’ (‘legge della preghiera’) della Chiesa cattolica di rito latino. Tuttavia il Messale Romano promulgato da S. Pio V e nuovamente edito dal B. Giovanni XXIII deve venir considerato come espressione straordinaria della stessa ‘lex orandi’ e deve essere tenuto nel debito onore per il suo uso venerabile e antico. Queste due espressioni della ‘lex orandi’ della Chiesa non porteranno in alcun modo a una divisione nella ‘lex credendi’ (‘legge della fede’) della Chiesa; sono infatti due usi dell’unico rito romano. Perciò è lecito celebrare il Sacrificio della Messa secondo l’edizione tipica del Messale Romano promulgato dal B. Giovanni XXIII nel 1962 e mai abrogato, come forma straordinaria della Liturgia della Chiesa. […]”.

Summorum Pontificum come inveramento del Discorso di Benedetto XVI alla Curia romana del 22 dicembre 2005, nel quale il Papa emerito ricordava che “i problemi della recezione [del Concilio] sono nati dal fatto che due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro. L’una ha causato confusione, l’altra, silenziosamente ma sempre più visibilmente, ha portato frutti. Da una parte esiste un’interpretazione che vorrei chiamare ‘ermeneutica della discontinuità e della rottura’; essa non di rado si è potuta avvalere della simpatia dei mass-media, e anche di una parte della teologia moderna. Dall’altra parte c’è l’‘ermeneutica della riforma’, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa”. Possiamo leggere proprio in quest’ottica la pubblicazione del motu proprio Summorum Pontificum, per esempio ricollegandoci alle parole di Benedetto XVI nella Lettera ai Vescovi in occasione della pubblicazione del testo, quando dice: “Nella storia della Liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura. Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso”.

Frutti del Summorum Pontificum. Secondo alcuni dati presentati in un convegno internazionale nel 2017, in dieci anni il numero dei luoghi di culto tradizionali “autorizzati” è raddoppiato in tutto il mondo: negli Stati Uniti 480 luoghi di culto tradizionali nel 2017, contro i circa 230 del 2007; in Germania 153 contro 54; in Polonia 40 contro 5; in Inghilterra e Galles 147 contro 26; in Francia 221 contro 104. Per quanto riguarda l’Italia, nel 2018 si valutava la diffusione di celebrazioni di Messe nella forma extraordinaria in circa 123 unità, e secondo una stima attendibile questa cifra era superiore del 270% al periodo precedente la pubblicazione del motu proprio Summorum Pontificum. Questi numeri, di per sé eloquenti, nulla dicono però di un dato soggiacente e di genere più schiettamente qualitativo. Mi riferisco alla crescita esponenziale che la liberalizzazione del Messale tradizionale ha operato nel numero delle vocazioni delle comunità sacerdotali e religiose legate all’antica liturgia, al numero crescente di parroci e semplici sacerdoti che hanno trovato il modo di fare convivere le due liturgie nell’ambito delle comunità loro affidate (secondo dati aggiornati al 2019, si tratta di circa 4.800 sacerdoti in 88 nazioni), quindi al numero di fedeli laici, famiglie cattoliche e movimenti e associazioni che hanno trovato in questa pacificazione liturgica lo sprone per la loro santificazione e la grazia necessaria per l’animazione temporale della società loro affidata: si pensi, solo per fare un esempio, al ruolo del tutto cruciale che rivestono in Francia – ma si potrebbe fare un discorso analogo almeno per la Polonia e gli Stati Uniti – i gruppi di fedeli legati alla Messa di san Pio V, al centro di tutte le battaglie per la vita, la famiglia e la presenza qualificante della Chiesa nella società (dalla Manif pour tous all’imponente pellegrinaggio Parigi-Chartres, che si svolge da oltre trent’anni in occasione della Pentecoste e che raduna ormai oltre 15.000 pellegrini, in prevalenza giovani e giovanissimi). Ovvero, il Summorum Pontificum non solo ha liberalizzato la Messa tradizionale, ma ha aperto spazi di libertà nella Chiesa a un popolo per il quale il connubio lex orandi, lex credendi è vissuto in maniera tale da veicolare una cultura cristiana improntata al senso della Tradizione. Sia chiaro, e senza alcun malinteso: stiamo parlando di un mondo immacolato, privo di peccato, non portatore di un tasso di vischiosità, errori e ambiguità talora da censurare? Ma nemmeno lontanamente: “perché se il giusto cade sette volte, egli si rialza, ma i malvagi soccombono nella sventura” (Pr 24,16). Tuttavia, senza il bisogno di scomodare il comportamento dei figli di Noè che coprirono la nudità del padre con il loro mantello (Gen 9,18-23), è lecito considerare un aspetto – vorrei dire sociologico – che giustifica almeno in parte le esitazioni e gli errori che contraddistinguono anche questo mondo, ovvero il suo essere da oltre mezzo secolo, oltre che assolutamente minoritario e in quanto tale più debole, “ultimo”, pressoché costantemente bistrattato, marginalizzato, ostracizzato, deriso, incompreso, non accolto, e finalmente: non cristianamente amato.

Significato di Traditionis Custodes. Per quanto risulti doloroso ripercorrerne i contenuti, riassumiamo i punti salienti del motu proprio di Papa Francesco: “nella costante ricerca della comunione ecclesiale […] ho ritenuto opportuno stabilire quanto segue: Art. 1. I libri liturgici promulgati dai santi Pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II, in conformità ai decreti del Concilio Vaticano II, sono l’unica espressione della lex orandi del Rito Romano. […] Art. 3. Il vescovo, nelle diocesi in cui finora vi è la presenza di uno o più gruppi che celebrano secondo il Messale antecedente alla riforma del 1970: […] § 2. indichi, uno o più luoghi dove i fedeli aderenti a questi gruppi possano radunarsi per la celebrazione eucaristica (non però nelle chiese parrocchiali e senza erigere nuove parrocchie personali) […] § 5. […] nelle parrocchie personali canonicamente erette […] valuti se mantenerle o meno. § 6. avrà cura di non autorizzare la costituzione di nuovi gruppi. Art. 4. I presbiteri ordinati dopo la pubblicazione del presente Motu proprio, che intendono celebrare con il Missale Romanum del 1962, devono inoltrare formale richiesta al Vescovo diocesano il quale prima di concedere l’autorizzazione consulterà la Sede Apostolica. Art. 5. I presbiteri i quali già celebrano secondo il Missale Romanum del 1962, richiederanno al Vescovo diocesano l’autorizzazione per continuare ad avvalersi della facoltà. […] Art. 8. Le norme, istruzioni, concessioni e consuetudini precedenti, che risultino non conformi con quanto disposto dal presente Motu Proprio, sono abrogate”.

Mi mancano le parole per esprimere tutto il dolore che queste disposizioni suscitano, tanto più a fronte delle motivazioni che ne costituirebbero la ratio, che Papa Francesco articola nella sua Lettera ai vescovi di tutto il mondo, che accompagna il motu proprio: “Un’ultima ragione voglio aggiungere a fondamento della mia scelta: è sempre più evidente nelle parole e negli atteggiamenti di molti la stretta relazione tra la scelta delle celebrazioni secondo i libri liturgici precedenti al Concilio Vaticano II e il rifiuto della Chiesa e delle sue istituzioni in nome di quella che essi giudicano la ‘vera Chiesa’”. Parole dure e amare, ma solo parzialmente vere. Come scrive il card. Müller: “Papa Francesco cerca di spiegare i motivi che lo hanno indotto, in quanto insignito della suprema autorità della Chiesa, a limitare la liturgia nella forma straordinaria. Al di là della presentazione delle sue reazioni soggettive, però, sarebbe stata opportuna anche un’argomentazione teologica stringente e logicamente comprensibile. Perché l’autorità papale non consiste nell’esigere superficialmente dai fedeli una mera obbedienza, cioè una sottomissione formale della volontà, ma, molto più essenzialmente, nel permettere ai fedeli di essere convinti anche con il consenso della mente. Come disse san Paolo, garbato verso i suoi Corinzi spesso piuttosto indisciplinati, ‘ma in assemblea preferisco dire cinque parole con la mia intelligenza per istruire anche gli altri, che diecimila parole con il dono delle lingue’ (1 Cor 14,19)”.

Conseguenze di Traditionis Custodes. È difficile fare un inventario delle conseguenze del motu proprio Traditionis Custodes, a nemmeno quattro mesi dalla sua pubblicazione. Né si tratta qui di voler disubbidire o resistere esternamente alla decisione di chi ha il primato di giurisdizione nella Chiesa (Concilio Ecumenico Vaticano I, Costituzione dogmatica Pastor Aeternus, III), ma di esprimere le difficoltà che s’incontrano. Tuttavia, se da un lato è possibile dire che il motu proprio ha indubbiamente segnato un limes, una linea di demarcazione, rispetto all’orizzonte tracciato dal precedente magistero – almeno a partire da san Giovanni Paolo II, e in particolare di Benedetto XVI –, rimane attualmente complicato scrutare quale sarà l’avvenire della libertà concessa a un messale che – ricordiamolo – è stato solennemente definito come “mai abrogato”. Certo, come ci ricorda il card. Müller nelle considerazioni pubblicate su Cristianità, “le disposizioni di Traditionis Custodes sono di natura disciplinare, non dogmatica e possono essere nuovamente modificate da qualsiasi Pontefice futuro”. Tuttavia, nell’attuale clima d’incertezza, quel che possiamo fare, per esempio, è almeno un iniziale censimento delle reazioni degli episcopati alla pubblicazione del motu proprio di Papa Francesco. Da questo punto di vista, sebbene manchi un quadro dettagliato, una prima esplorazione ci permette di descrivere la situazione di 243 diocesi in 27 nazioni. In 25 di queste 243 diocesi (poco più del 10%) sono state soppresse tutte le Messe nella forma extraordinaria; in 36 diocesi (quasi il 15%) sono state soppresse alcune delle Messe sin qui celebrate; e in altre 182 diocesi (circa il 75%) non è stata sin qui soppressa alcuna celebrazione. La mia personale percezione – sebbene approfondita e informata – è che questo dato statistico nasconda una dinamica in atto che renderà nel divenire più rara la facoltà concessa alle celebrazioni della Messa nella forma extraordinaria. Tuttavia, poiché come si usa dire, “il diavolo fa le pentole, ma non i coperchi”, vanno accolti con ottimismo i segnali che giungono da alcuni episcopati – penso in particolare a quello statunitense, dove l’accesso all’usus antiquior ha un’ampia diffusione e si caratterizza per un’apparente assenza di ideologizzazione che non di rado caratterizza questo stile liturgico –, i quali non di rado stanno dispensando dalle disposizioni di Traditionis Custodes mediante il richiamo al canone 87, §1 del Codice di diritto canonico, ove si afferma: “Il Vescovo diocesano può dispensare validamente i fedeli, ogniqualvolta egli giudichi che ciò giovi al loro bene spirituale, dalle leggi disciplinari sia universali sia particolari date dalla suprema autorità della Chiesa per il suo territorio o per i suoi sudditi”. A titolo meramente esemplificativo, così si è comportato S.E. mons. Glen John Provost, vescovo di Lake Charles, in Louisiana, in un decreto del 1° novembre, accompagnato da una lettera alla diocesi nella quale il prelato afferma: “Non conosco nessuno in questa comunità che abbia espresso opposizione al Concilio Vaticano II, tanto meno ne abbia negato la legittimità. Inoltre, coloro che hanno scelto di discutere con me la loro devozione all’usus antiquior hanno insistito sulla validità della liturgia riformata. Con questo in mente, sarei gravemente negligente, se non insensibile, nell’applicare qualsiasi legge restrittiva ignorando allo stesso tempo queste realtà”. Un’analoga preoccupazione deve attraversare l’episcopato polacco, poiché – come ci hanno informato a fine ottobre le fonti di stampa del Paese dell’Est – al rientro dalla visita ad limina apostolorum in Vaticano, il card. Kazimierz Nycz, arcivescovo metropolita di Varsavia, ha riferito dell’incontro presso la Congregazione per il Culto divino e la disciplina dei sacramenti, affermando che è stato affrontato il tema del motu proprio Traditionis Custodes, sicché il porporato ha dichiarato che: “la Congregazione ha ammesso che la questione è stata risolta in modo troppo duro, e invece di servire l’unità, nei singoli casi, potrebbe portare qualcuno a lasciare la Chiesa perché i suoi bisogni non sono stati soddisfatti”. Il cardinale ha aggiunto che “si è espressa la volontà d’interpretare in senso ampio il motu proprio, più nello spirito che nella lettera della legge emanata. Stiamo aspettando le linee guida promesse su questo argomento”.

Come laici, siamo chiamati a guardare con speranza questi timidi segnali; una speranza cristiana che non sia ingenuo ottimismo. Lo dobbiamo fare perché abbiamo a cuore l’importanza della questione liturgica. Anzitutto per la nostra santificazione, giacché, come ricorda la Costituzione sulla sacra liturgia Sacrosanctum Concilium del Concilio Vaticano II: “la liturgia è il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, al tempo stesso, la fonte da cui promana tutta la sua energia. Il lavoro apostolico, infatti, è ordinato a che tutti, diventati figli di Dio mediante la fede e il battesimo, si riuniscano in assemblea, lodino Dio nella Chiesa, prendano parte al sacrificio e alla mensa del Signore. […] Dalla liturgia, dunque, e particolarmente dall’eucaristia, deriva in noi, come da sorgente, la grazia, e si ottiene con la massima efficacia quella santificazione degli uomini nel Cristo e quella glorificazione di Dio, alla quale tendono, come a loro fine, tutte le altre attività della Chiesa”.

Quali mezzi a disposizione abbiamo a tal fine? Non siamo forse anche noi, “noi pochi. Noi felici, pochi. Noi manipolo di fratelli”, come mette sulle labbra del re Enrico V nella vigilia della memoria liturgica dei santi Crispino e Crispiano il drammaturgo William Shakespeare, nel discorso ai suoi uomini prima della battaglia di Agincourt (1415)? Come a quei pochi – ma felici, pochi –, abbiamo a disposizione il potente mezzo della preghiera, che come ultimi e piccini innalziamo con fiducia e speranza a Maria:

O Vergine Maria,

Voi che la pietà e l’amore dei vostri figli invocano nel mondo intero come colei che scioglie i nodi, accordateci la grazia di sciogliere tutti i nodi che il motu proprio “Traditionis Custodes” ha creato nel mondo.

Nella vostra tenerezza, guardate con favore il nostro Santo Padre il Papa e i Vescovi, e concedete loro la prudenza e la saggezza che hanno animato Benedetto XVI per ristabilire la pace e l’unità della Chiesa.

Fate che tutti i cristiani possano partecipare liberamente alla grazia del vostro Figlio divino, Nostro Signore Gesù Cristo, nella celebrazione della Messa tradizionale e nella ricezione del Santissimo Sacramento dell’Eucaristia.

Così sia.

PierLuigi Zoccatelli

[Il testo, sotto forma di appunti, costituisce la traccia di un intervento svolto a Torino il 7 novembre 2021, nel corso di un ritiro spirituale di Alleanza Cattolica. La riproduzione non è autorizzata, salvo espressa autorizzazione dell’autore e menzione completa della fonte]

martedì 11 gennaio 2022

Pur stando così le cose, si comunicarono l’un l’altro

Fu sollevata in quel tempo una questione non indifferente, perché le diocesi di tutta l’Asia pensarono, in base ad una tradizione più antica, che si dovesse osservare per la festa della Pasqua del Salvatore il quattordicesimo giorno della luna, nel quale venne ordinato agli Ebrei di sacrificare l’agnello, e che in esso fosse assolutamente necessario porre fine al digiuno, qualunque fosse il giorno della settimana. Nelle Chiese di tutto il resto del mondo, invece, non v’era l’abitudine di celebrare in questo modo, poiché rifacendosi alla tradizione apostolica, esse mantennero l’usanza, conservatasi fino ad oggi, secondo cui non è giusto terminare il digiuno in un giorno diverso da quello della risurrezione del Salvatore.
A questo proposito si tennero numerosi sinodi ed assemblee di vescovi, e tutti all’unanimità formularono per lettera una regola ecclesiastica, per i fedeli di ogni nazione, in base alla quale il mistero della risurrezione del Signore non si sarebbe celebrato in altro giorno che in domenica, e in questa soltanto avremmo osservato la fine del digiuno pasquale.
Possediamo ancor oggi una lettera di quanti si riunirono allora in Palestina sotto la presidenza di Teofilo, vescovo della diocesi di Cesarea, e di Narciso, vescovo di Gerusalemme; e similmente ve n’è un’altra di quanti si riunirono a Roma per la stessa questione, che indica Vittore quale vescovo; e una dei vescovi del Ponto, presieduti da Palmas in qualità di più anziano; e una delle diocesi della Gallia, di cui era vescovo Ireneo;
e inoltre una dei vescovi dell’Osroene e delle città di quella regione; e specialmente quella di Bacchillo, vescovo della Chiesa di Corinto, e poi quelle di moltissimi altri che espressero una sola e identica opinione e decisione, e diedero lo stesso voto.
E una sola fu la determinazione dei suddetti: quella già riferita. Ma i vescovi dell’Asia, guidati da Policrate, continuarono a sostenere che era necessario mantenere l’usanza che era stata loro tramandata dall’antichità. Policrate stesso, nella lettera che scrisse a Vittore e alla Chiesa di Roma, espone in questi termini la tradizione pervenutagli:
“Celebriamo quindi scrupolosamente quel giorno, senza aggiungere né togliere niente. Grandi luminari riposano infatti in Asia. Essi risorgeranno il giorno della venuta del Signore, quando scenderà in gloria dai cieli a richiamare tutti i santi:
Filippo, uno dei dodici apostoli, è sepolto a Hierapolis con due sue figlie che si serbarono vergini tutta la vita, mentre la terza, vissuta nello Spirito Santo, riposa ad Efeso; e anche Giovanni, colui che si abbandonò sul petto del Signore, che fu sacerdote e portò il petalon, martire e maestro, giace ad Efeso;
e inoltre, a Smirne, Policarpo, vescovo e martire; e anche Trasea, vescovo e martire di Eumenia, riposa a Smirne.
Ed è necessario che parli di Sagari, vescovo e martire, sepolto a Laodicea, e del beato Papirio, e dell’eunuco Melitone, che visse sempre nello Spirito Santo, e giace a Sardi nell’attesa della visita dai cieli, nella quale risusciterà dai morti?
Tutti questi osservarono il quattordicesimo giorno della Pasqua in conformità col Vangelo, senza discostarsene, ma seguendo la regola della fede. E anch’io, Policrate, il più piccolo di tutti voi, vivo secondo la tradizione dei miei fratelli, di alcuni dei quali sono successore. Sette, infatti, sono stati vescovi, e io sono l’ottavo; e i miei fratelli hanno sempre celebrato il giorno in cui il popolo si astiene dal pane lievitato.
Perciò io, fratelli, che ho sessantacinque anni nel Signore e ho avvicinato i fratelli di tutto il mondo e ho letto tutta la santa Scrittura, non mi lascio intimorire da chi cerca di spaventarmi, perché questi uomini più grandi di me hanno detto: bisogna obbedire a Dio anziché agli uomini”.
Continua poi così dicendo a proposito dei vescovi che erano con lui quando scriveva e condividevano la sua opinione: “Potrei ricordare i vescovi che sono qui con me, che avete chiesto fossero da me convocati e che io ho convocato: i loro nomi, se li scrivessi, sarebbero un bel numero. Pur conoscendo la mia pochezza di uomo, essi hanno approvato la mia lettera, consapevoli che non porto invano i capelli bianchi, ma che ho vissuto sempre in Cristo Gesù”.
Allora Vittore, che presiedeva alla Chiesa di Roma, cercò immediatamente di escludere in massa dall’unità comune le diocesi di tutta l’Asia insieme con le Chiese vicine, in quanto eterodosse, e stigmatizzò con lettere tutti i fratelli indistintamente là riuniti, dichiarandoli scomunicati.
Ma questo dispiacque a tutti i vescovi, che a loro volta lo esortarono a pensare alla pace, all’unione e all’amore per il prossimo; e possediamo ancora le parole con cui essi rimproverarono piuttosto aspramente Vittore.
Tra loro anche Ireneo, scrivendo in nome dei fratelli cui era preposto in Gallia, raccomanda di celebrare soltanto di domenica il mistero della risurrezione del Signore, ma esorta poi opportunamente Vittore a non escludere intere Chiese di Dio perché mantengono una tradizione di antica consuetudine, e continua quindi dicendo:
“La controversia non è solamente sul giorno, ma anche sulla forma stessa del digiuno. Alcuni, infatti, ritengono di dover digiunare un solo giorno, altri due, altri più giorni ancora; certi, infine, calcolano il loro giorno di quaranta ore, tra diurne e notturne.
E una tale variazione nell’osservanza del digiuno non è sorta ai nostri giorni, ma molto prima, al tempo dei nostri predecessori, che, a quanto sembra, confermarono senza troppa precisione questa consuetudine basata su semplicità e preferenza personale, e la stabilirono per il futuro; ma nessuno visse mai meno in pace, e anche noi viviamo ora in pace gli uni con gli altri, e la differenza del digiuno conferma la concordia della fede”.
Ireneo aggiunge poi un’osservazione che mi pare appropriato riferire, ed è di questo tenore: “Tra loro vi furono anche i presbiteri anteriori a Sotero che presiedettero la Chiesa che tu governi ora, cioè Aniceto, Pio, Igino, Telesforo e Sisto, che non osservarono essi stessi il quattordicesimo giorno, né imposero la sua osservanza a quanti li seguirono, ma pur non osservandolo essi stessi, non furono affatto meno in pace con quanti giungevano tra loro dalle diocesi in cui esso veniva osservato. Eppure l’osservarlo era un contrasto ancora maggiore per coloro che non l’osservavano.
E nessuno fu mai respinto per questa ragione, ma anzi quegli stessi che non l’osservavano, cioè i presbiteri che ti hanno preceduto, inviarono l’Eucaristia a quelli delle diocesi che l’osservavano.
E quando il beato Policarpo soggiornò a Roma al tempo di Aniceto, pur avendo avuto l’uno con l’altro piccole divergenze su altre questioni, si rappacificarono subito, non desiderando essere in disaccordo su questo argomento. Aniceto non riuscì infatti a persuadere Policarpo a non osservare il quattordicesimo giorno, come aveva sempre fatto con Giovanni, discepolo del Signore nostro, e con gli altri apostoli con cui era vissuto; né Policarpo persuase Aniceto ad osservarlo, poiché quest’ultimo diceva che bisognava mantenere la consuetudine dei presbiteri a lui anteriori.
E pur stando così le cose, si comunicarono l’un l’altro, e nella Chiesa Aniceto concesse l’Eucaristia a Policarpo, evidentemente per riguardo, e si separarono l’uno dall’altro in pace, poiché tanto gli osservanti quanto i non osservanti avevano pace nell’intera Chiesa”.
E Ireneo fu degno del nome che portava, essendo paciere di nome e di fatto, ed esortò ed intercedette per la pace delle Chiese, poiché in merito alla questione sollevata discusse per lettera non solo con Vittore, ma anche, uno dopo l’altro, con numerosi altri capi di Chiese.

[Eusebio di Cesarea (260/265-339/340), Storia ecclesiastica, V 23-24]